Titolo:
Dal terrazzo
di un mondo che
sanguina
Conteggio
parole: 990
Genere:
Malinconico,
introspettivo
Rating:
Verde
Note
dell'autrice:
Non ero certa di
dove collocare questa storia, così ho deciso di tagliare la
testa
al toro e di lasciarla fra gli Originali – Generale. Ci tengo
a
precisare solo una cosa: Piazza D'Agostino non esiste – non a
Bologna, perlomeno. È Piazza VIII Agosto ed è la
stessa che compare
nella mia storia. Non a caso con un nome diverso. Ci sono cose che
dimentichiamo oggi: figurarsi fra quattrocento anni. Gli uomini vanno
e vengono, fanno e disfano il mondo per poi storia. Qui, ho voluto
lasciare un piccolo ammonimento dalle pretese piuttosto modeste.
Scritta
per 2010:
a year together, indetto da C.o.s. -
Collection of Starlight
27
aprile 2410
I
fitti grattacieli di Nuova Bologna si stagliavano cupi fra i fumi
rossastri delle ciminiere della centrale econucleare
di
Panigale. Nonostante l'edificio rilasciasse le proprio ecoscorie
a chilometri di distanza dalla città, il Dipartimento per
l'Ambiente
Nucleare – il noto DAN – non
aveva ancora dato alcuna
spiegazione sul perché il cielo si fosse tinto di rosso.
Non
rosato o ambrato.
Rosso.
Con
i gomiti appoggiati alla balconata di naturamianto del
proprio
attico in Piazza D'Agostino, Emilia scrutava con sguardo pensieroso
fra le nuvole rubizze.
Si
accese una sigaretta e aspirò profondamente.
Chinò il capo indietro
e soffiò il fumo grigiastro verso l'altro. La
facilità con la quale
si mescolava a quello delle ecoscorie era
irritante: possibile
che lei non potesse fare altrettanto? Possibile che fosse
così
difficile accettare di vivere in un mondo che non le era mai
piaciuto? Eppure, la gente di Nuova Bologna pareva essersi abituata a
tutto – anche al furto del proprio cielo.
«Emilia?».
«Sono
qui».
Dino
si affacciò sul terrazzo e cercò con lo sguardo
la figura alta ed
esile della sorella. Si avvicinò a lei e
contemplò con aria
perplessa la strana tonalità del cielo.
«Carino»
scherzò.
«Come
un calcio delle Pattuglie di Controllo in mezzo ai reni».
«Dici
che rimarrà così?».
Emilia
alzò appena la spalle.
«Sai»
riprese con voce trillante Dino, «a volte mi domando come
diavolo
abbiamo fatto a ridurci così. Come in quel vecchio romanzo
di quel
tizio... hai presente? Quello con il Grande Fratello».
«È
Orwell, razza di ignorante».
«Quello»
continuò lui. «Mi pare quasi di esserci
dentro».
«No».
Dino
inarcò interrogativo un sopracciglio.
«No?».
«No»
ribatté Emilia con forza. «Noi sappiamo
come gira il mondo.
E sappiamo di non poterlo più
aggiustare. Il che rende tutto
più macabro, non credi?».
Il
ragazzino distolse lo sguardo dalla sorella e iniziò a
tamburellare
sulla superficie liscia del naturamianto.
«E
dire che sarebbe bastato così poco. Se fossi nato prima,
sarei morto
per evitare di arrivare a questo. Possibile che
nessuno nasca
mai nel momento giusto?».
Emilia
fece uno sbuffo sarcastico.
«Chiediti
perché nessuno agisca nel momento
giusto, piuttosto».
«Non
lo so» rispose Dino. «Tu lo sai?».
«No»
ribatté freddamente Emilia. «Ma mi piacerebbe
poterlo chiedere alla
gente di qualche secolo fa. Quelli che hanno vissuto l'arrivo del
Duemila, magari. Fra tutti, sono proprio loro che avevano
più
possibilità di cambiare le sorti del mondo. Invece, si sono
rivelati
i migliore a stare zitti».
«Sei
troppo dura, Emilia».
«No,
Dino. È colpa di chi ci ha preceduti se oggi non possiamo
più
tornare indietro. Io vorrei tanto che il mondo cambiasse. Vorrei
tanto che non esistessero più quelle maledette centrali econucleari.
Mi si stringono le viscere a pensare che dipendiamo
totalmente
dalla loro distribuzione di ossigeno. Secoli fa, bastava la
vegetazione».
«So
cos'era. Ne ho dovuto studiare un intero capitolo per la verifica di
storia».
«In
troppi permisero a pochi di distruggere il mondo. Ed ora, noi che
vogliamo una vita migliore, non abbiamo più armi per
combattere. Non
ci hanno lasciato nemmeno quelle. Che diavolo ci rimane, Dino? Dimmi,
cosa rimane?».
Dino
sorrise tristemente.
«Il
cielo?».
Emilia
spense con vigore il mozzicone e fece una smorfia stizzita.
«Un
cielo rosso. Buon Dio, sembra quasi che stia
sanguinando.
Ecco, cosa ci rimane. Un cielo che sanguina sopra a milioni di utopie
calpestate mille, mille e mille volte ancora. Viviamo in un mondo già
morto. E ciò che più mi
opprime è sapere di non potere fare
niente. Non più, ormai».
Era
quasi arrivata alla porta a vetri, quando sentì la voce di
Dino.
«E
pensare che dicevano “rosso di sera, bel tempo si
spera”».
Emilia
gli rivolse un'ultima occhiata eloquente.
«Dicevano
sempre più cose e ne facevano sempre meno. Se si fossero
staccati
dai loro salotti confortevoli, se fossero usciti dalle loro case e
avessero aperto gli occhi, oggi non avremmo bisogno di qualcuno che
ci dia l'aria. Non ci sarebbe un Governo che impianta microchip ai
neonati per controllare i loro movimenti da adulti. Non ci sarebbero
le Pattuglie di Controllo che sparano a chi non rispetta il
coprifuoco. La gente potrebbe ancora scegliere da sé cosa
fare della
propria vita, senza dover rendere conto a chi ha più denaro
e
potere. Potremmo ancora vivere, se solo si fossero
alzati in
piedi e avessero detto “così non va”. Ma
non l'hanno fatto.
Nessuno ha fatto qualcosa che tutti avrebbero potuto fare, ed ecco il
risultato».
Affranta,
Emilia scosse ancora il capo e rientrò in casa. Dino la
scorse
mentre si lasciava cadere sul divano e gettava la testa fra i
cuscini, con gli occhi chiusi e il volto stanco. Da bambino, tentava
di immaginare come sarebbe stato vivere in un posto diverso, ma era
un'abitudine che aveva perso rapidamente. Non sarebbe riuscito a
sopportare a lungo l'idea di non poter entrare nei propri sogni,
così
aveva deciso di smettere di sognare. Sopravviveva e basta, come
tutti.
Sollevò
lo sguardo e fece un sospiro rassegnato.
«Un
cielo rosso sopra una città che sanguina»
mormorò fra sé.
«Bell'eredità storica del cazzo».
E
dire che vi sarebbe bastato così poco.
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