Requiem per pubblicazione
Requiem for a Dream
Era
finita.
Il
fumo avvolgeva via Chanvrerie, un fumo denso, acre, puzzolente di
polvere da sparo e morte.
La
strada , improvvisamente silenziosa dopo i tumulti delle ore
precedenti, sembrava immersa in un sogno: i corpi disseminati sul
selciato, il sangue a macchiare i muri delle case, le porte e le
finestre sprangate, e quella mitragliatrice maledetta ancora
lì, ferma e spietata, l’unica ancora in grado di
reggersi in piedi dopo il massacro.
Gli
unici rumori, scalpiccii, gemiti, colpi sordi e grida soffocate,
provenivano dalla taverna Hucheloup, il teatro di tutta la rivolta,
ormai rimasto null’altro che una rovina orribile, mutilata
dai colpi di cannone e dalle pallottole, demolita a metà;
sembrava aspettare solo l’ultimo atto della tragedia prima di
crollare del tutto.
Grantaire
si svegliò di soprassalto, stupito della improvvisa quiete
che regnava nella bettola. Sbattè le ciglia una, due volte,
mentre il torpore scivolava via velocemente dalle sue membra
intorpidite.
Scosse
la testa, passandosi una mano sulla fronte.
Mise
lentamente a fuoco la bottiglia scura che gli stava davanti. I
bicchieri vuoti, alcuni rovesciati ed altri no, sparsi sul tavolino.
Ancora una goccia bordeaux in quello più vicino.
Grantaire
sorrise, del suo sorriso un po’ malsano, e allungò
il braccio verso quell’ultimo goccio, stiracchiandosi
pigramente come un gatto.
Stava
raggiungendo la sua preda, quando commise l’errore di alzare
lo sguardo.
E di
accorgersi che il rosso non era solo in fondo al bicchiere.
Era
ovunque.
Sulle pareti intonacate d’azzurrino spento, sui tavoli di
legno scheggiati, sulle sedie, a mescolarsi con i toni scuri del
pavimento, un inquietante disegno tra le piastrelle.
Pietrificato
dall’orrore, Grantaire osservò rapito gli
arabeschi scarlatti, seguendone con lo sguardo le trame, fino a quando
la sua attenzione non fu catturata da qualcosa di ancora più
agghiacciante, uno spettacolo che la sua mente, lucida a dispetto
dell’alcool ancora in circolo, non tardò a
comprendere.
I
cadaveri erano sparpagliati per tutta la lunghezza del salone. Una
quindicina, forse anche meno, ma gli sembrarono un numero
esorbitante.
L'odore
di sangue e polvere si insinuò nelle sue narici, mentre
fissava stravolto la carneficina.
Alcuni indossavano la divisa militare, ma la maggior parte era vestita
degli stracci dei pezzenti, e tra questi Grantaire riusciva a
distinguere almeno due o tre volti familiari: il panettiere
dell'angolo, lo straccione che abitava nello scantinato, quel ragazzo
con il viso coperto di lentiggini...
Il giovane ricacciò giù la
bile, mentre i suoi occhi continuavano ostinati a perlustrare la stanza.
“Volete
che vi bendino gli occhi?”
Una
voce gentile, non troppo lontana, lo costrinse a voltare la testa.
Almeno
una dozzina di soldati stava in fondo al salone, girati verso qualcuno
addossato al muro che Grantaire non riusciva a vedere.
Nessuno
si era accorto di lui.
“No.”
Rispose seccamente un’altra voce da dietro le uniformi.
Il
cuore del giovane ubriacone reagì a quel suono in
modo fulmineo, incominciando a palpitare furiosamente.
Conosceva
perfettamente quella voce, e conosceva bene anche quel tono sdegnato,
sprezzante e orgoglioso, che solitamente era rivolto a lui.
Si
alzò, attento a non farsi notare, allungando il collo e
guardando al di là dei gendarmi, finchè vide
tutto quello che desiderava vedere.
Un’aureola
di capelli dorati. Un viso dai lineamenti fanciulleschi, quasi
femminili, induriti solo dalla linea volitiva della mascella. La solita
espressione severa e una luce quasi fanatica negli occhi blu.
Enjolras.
Imbrattato
di sangue non suo dalla testa ai piedi, i vestiti luridi e strappati,
le braccia conserte e la schiena diritta: il giovane capo
rivoluzionario non era mai stato così bello.
Grantaire
sentì un calore improvviso salirgli alle guance e
un’euforia insensata impadronirsi di lui.
Enjolras
era lì, a pochi passi da lui. Vivo, splendente, vittorioso.
La
rivincita degli sconfitti. Il trionfo dei colpevoli, dei miserabili.
Nella sua assurdità, invincibile.
Grantaire
si sarebbe quasi messo a ridere dalla gioia.
L’ufficiale
che prima aveva parlato gli rivolse ancora qualche altra
parola, a cui Enjolras rispose brevemente.
Un
cenno ai soldati, che si mossero coordinati come un sol uomo, e poi
un'unica, spaventosa parola, a decretare la fine:
“Puntate.”
Una
parola che però, per quanto terribile, non
atterrì Grantaire come forse avrebbe dovuto.
Lui
la udì perfettamente, ma non si
preoccupò di darle un significato che andasse oltre
la sensazione di dover
fare qualcosa, subito, immediatamente, l’urgenza degli
istinti.
Distolse
suo malgrado gli occhi dal giovane biondo con le spalle alla parete, e
si concentrò sulle emozioni che governavano ora il suo corpo.
Si
guardò dentro, probabilmente per la prima volta.
E
trovò qualcosa che lo storico scettico dell’ABC
non si sarebbe mai aspettato.
Non
aveva paura. In quel momento, in quel preciso istante, non aveva paura.
Nemmeno un po’.
Né dei
soldati, né
degli spari, né di Enjorlas, né dei morti,
né della morte.
Non
aveva orrore nemmeno di se stesso.
C’era
in lui qualcos’altro che cancellava la paura.
Perché lui stava -Grantaire faticava a
crederci-…splendendo.
Splendeva,
anche lui. C’era il calore nelle sue ossa, il calore che
partiva dal cuore e arrivava alle gambe, alle mani, alla mente, e
annegava il resto; il caldo che spazzava via le ombre nelle pieghe dei
suoi pensieri, e l’impossibile sensazione di meraviglia che
stava provando.
Splendeva
quasi come Enjolras.
Quasi, perché Enjolras era perfetto, e lui no.
Ma
anche lui splendeva. C’era una fiamma che nemmeno litri e
litri di vino erano riusciti ad estinguere.
Grantaire
si rese improvvisamente conto di essere, forse per la prima volta nella
sua vita, nel posto giusto al momento giusto. Lui era
giusto. Pronto. Per il suo destino.
Si
condannò con un sorriso.
Rise
di gusto, forte, davvero, e la sua voce roca rimbombò nella
taverna,.
Brillante
e lucente, bello di gioia, bello di felicità, bello nel
cuore, della bellezza utopica dei sogni.
Si
avvicinò, a passi sicuri e veloci, per incontrare quella
Rivoluzione che non aveva mai conosciuto, ma nel cui nome
stava per morire.
“Viva
la Repubblica! Ci sono anch’io!” gridò.
Avanzò
tra i soldati stupefatti, nel silenzio assoluto, gli occhi scuri fissi
in quelli sgranati e blu di Enjolras. Il giovane rivoluzionario,
paralizzato dallo stupore, lo scrutava attento con uno sguardo che
rivelava incredulità, meraviglia e – il sorriso di
Grantaire si fece più largo- ammirazione.
Nel
giro di un istante, anche sul volto del biondo ribelle apparve un
sorriso.
Infinitamente dolce, aperto, vero.
Enjolras
sorrideva, e Grantaire sapeva che quel sorriso era l’unica
Patria per cui valesse la pena di combattere.
L’unico
ideale per il quale lui era degno di morire.
Si
affiancarono, prendendosi la mano.
L’ufficiale
fece un cenno, un’attimo ancora di silenzio, una goccia di
sudore sulla fronte.
Grantaire
socchiuse gli occhi.
Il
rumore assordante degli spari. La stretta della mano di Enjolras che si
affievoliva un po’.
Ancora
rosso sulle pareti.
Fuori, lungo
via Chanvrerie, anche il sole moriva.
Salve, sprovveduto lettore!
Com'è che sei capitato quaggiù, a leggere questa robaccia deprimente? Una vera perdita di tempo, lo so.
Le lamette sono in fondo al corridoio, a destra, cassetto
contrassegnato con il teschietto. Cerca di sporcare il meno possibile,
ché il sangue non si lava facilmente.
E magari lasciami un commentino, su U__U
Tatan
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