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Elva era stremata. Si accasciò per terra e si prese le testa
fra le mani. Stupido incantesimo che le succhiava l’energia. Lo stomaco le
bruciava e non riusciva a controllare il respiro.
Angela la guardava, seduta a gambe incrociate sul tappeto
rosso. Le tese un bicchiere pieno di un liquido verde. Elva pensò che sembrava
melma, ma lo bevve ugualmente: subito si sentì un po’ meglio.
“Devi pronunciare la parola più lentamente. E l’accento è
sulla y. Wyrda. Capito?”
Maledetta strega. Elva non aveva idea di come facesse a
proteggersi dal suo potere, ma di fatto non era ancora riuscita ad imparare il
suo punto debole.
Però l’aveva convinta ad insegnarle la magia. E Angela
l’aveva accontentata, perché – Elva lo sapeva bene – la voleva usare. Una magia
per vedere il futuro. Anzi, no: il fato.
“Perché non la insegni a qualcuno come Eragon, per esempio?”
Ci avrebbe goduto a vederlo sforzarsi di compiere l’incantesimo. Peccato che
Saphira avrebbe sofferto con lui. Ma Angela scosse la testa e disse: “Questa
magia prosciuga così tanta energia che se lui ci provasse rimarrebbe fulminato.
Non sarei in grado di salvarlo nemmeno io, perché non resisterebbe più di
cinque secondi dopo aver pronunciato la parola”.
“Allora vuoi uccidere me? Tutti che mi vogliono bene, quando
hanno la possibilità di sfruttarmi” Sul volto di Angela si tese un sorriso
nervoso. Sempre così, quando usava quel tono distaccato e freddo. Elva rise.
L’ho messa a disagio, pensò, e intanto continuava a ridere. Sapeva che Angela
non l’avrebbe uccisa. Era terribilmente buona, sotto sotto. “Il
controincantesimo di Eragon fa si che tu non possa morire per colpa della magia.
Questo ti permetterà di fare magie incredibili. Anche se forse ti
costringeranno a stare a letto per qualche mesetto.” Sorrise e si tirò indietro
i capelli con una mano. “Ora riprova, dai. Ci sei quasi riuscita, devi solo”
Angela le toccò la spalla “crederci un po’ di più. E migliorare la pronuncia”.
Elva Chiuse gli occhi. Allontanò da se tutto il dolore che
percepiva attorno a lei, concentrandosi solo sull’energia che scorreva intorno
e, cercando di azzeccare la pronuncia, sussurrò: “Wyrda”, Fato. Il destino. Un
turbine di energia – la sua energia, la sua forza vitale! – la avvolse. Fu
sbalzata via. Le sembrò chi il cuore le sbalzasse via dal petto mentre veniva
lanciata verso l’alto, in un fumo nero che le entrava nelle narici e la faceva
tossire. La polvere sembrava premere contro di lei, come se la volesse
stritolare. Ma poi si diradò, allontanandosi in tante piccole nuvolette.
Vide
una stanza. Sembrava una sala di una reggia: un arazzo rappresentante un drago
nero era appeso sopra a un’enorme caminetto. Sedie ricoperte di velluto rosso erano
disposte a semicerchio e dal soffitto pendeva un enorme lampadario di vetro,
retto da una corda dorata. Dall’ampia finestra, poteva vedere una cittadina, ma
la pioggia fitta che cadeva là fuori le impediva di vedere più di tanto.
Sentì
come un pop nelle orecchie e iniziò a
sentire anche i rumori. Boati, urla, sembrava un campo di battaglia. Elva provò
ad aprire la finestra per vedere cosa succedeva, ma non poteva toccare nulla in
quel posto: come due calamite che si respingono, lei non riusciva a toccare niente,
perché la sua mano veniva allontanata da una forza misteriosa. A un tratto,
fuori dalla finestra vide un drago. Un enorme creatura blu: Saphira. Con un
rumore di vetri infranti, L’enorme drago si schiantò con tutto il suo peso
contro la finestra. Gli artigli rasparono il pavimento di legno, finché il
drago non riuscì a ritrovare l’equilibrio. Sotto il suo peso le mura iniziarono
a cedere.
Nello
stesso momento dalla porta a sinistra entrarono Eragon e
Murtagh. “Galbatorix” urlò Murtagh “non
è qui” Un sorriso gli deformò il viso. Eragon
vide Saphira. Elva poteva vedere l’energia che sprigionavano quei
due. Murtagh aveva
perso. Eragon lo immobilizzò con un incantesimo: una luce
azzurra che lo
avvolse. Saphira gli mise sopra una delle sue enormi zampe, gli artigli
ben in
mostra. “Ora, dimmi dove si è nascosto!” gli
urlò Eragon. Murtagh rise. “Quando
dico che non c’è, significa che l’ho ucciso.”
Gli uscì un po’ di sangue dalla
bocca. “Io l’ho ucciso”.
Eragon non ci credeva. Elva poteva vedere l’incredulità
sul suo viso. “Volevo il regno tutto per me”, aggiunse, prima di svenire. Elva
considerò che doveva aver perso molto sangue. Aveva una profonda ferita al
braccio e alla gamba, oltre a un taglio sulla fronte. Elva vide Eragon
inginocchiarsi accanto a Murtagh. Gli aveva voluto bene, lui, aveva davvero sperato
che, almeno in parte, quel suo fratellastro non fosse cattivo. Così ora – Elva lo
vedeva benissimo – non aveva il coraggio di finirlo. Teneva il pugnale testo
sopra di lui, senza abbassare la guardia. Attraverso il buco che aveva fatto
Saphira poteva vedere, in lontananza, un drago rosso.
Elva si chiese, in una
frazione di secondo, se sarebbe arrivato prima il drago o se Eragon avrebbe
ucciso per primo Murtagh.
Ma non fece in tempo a saperlo. Improvvisamente si
sentì risucchiare. Il cuore, stavolta, le sembrò andasse verso l’alto, mentre
lei precipitava in un baratro di fumo nero, mentre l’aria le usciva dai
polmoni. Atterrò di pancia sul tappeto della sua stanza. Fitte dolorose si
levarono dallo stomaco e dal petto, mentre la testa le sembrava esplodere. Il
rosso del tappeto la accecò. Chiuse gli occhi e si girò sulla schiena,
ansimando.
Quello che aveva appena visto le tornava in mente. L’espressione
addolorata di Eragon. La faccia terrorizzata di quel traditore e Castigo che,
planando sotto la pioggia, era sempre più vicino.
Si sentì sollevare sul letto. Angela l’aveva presa in
braccio. La maga le mise una stoffa bagnata sulla fronte e si preoccupò che
respirasse bene, prima di sedersi vicino alla bambina e darle da bere un sorso
d’acqua.
Elva la osservava. Era così premurosa, pensò, solo perché
voleva sapere quello che aveva visto. Chiuse occhi e si addormentò. Un sonno
senza sogni.
“Tredici ore, complimenti” Angela sembrava contrariata, ma
poi si mise a ridere. Le porse una ciotola di minestra fumante. Si assicurò che
fosse ben sorretta dai quattro cuscini che aveva dietro la schiena e si rimise
seduta accanto al suo letto.
“Questa volta sei riuscita a vedere qualcosa?”
Elva sorrise. “Sai Angela”, sussurrò, restituendole la
ciotola vuota, “ognuno è il padrone del proprio destino.”
Angela la fissò. “No. Ci sono persone il cui destino è già
stato tracciato.” La maga ne era sicura.
“Ma sono sempre libere di seguirlo o no”, replicò lei. “Io,
per esempio, faccio quello che più mi piace. Sempre. E ora, per esempio, ho
appena deciso di non dirti quello che ho visto. Sbirciare nel futuro è barare.
Se il destino è così inevitabile, che io ti dica o no cosa ho visto non farà
certo la differenza”.
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