Lasciate che mi presenti. Io sono
Shigekuni Genryusai Yamamoto, Comandante Generale delle tredici brigate e
capitano della prima di esse. Durante l’ultima assemblea dei capitani, ho dato
ordine di scrivere un autobiografia a ciascuno dei presenti. Nonostante molti
non capiscano le mie scelte, credo che la pubblicazione delle storie dei loro
superiori, possa aiutare tutti gli Shinigami nel loro compito fungendo da
esempio di vita dedicata alla rettitudine. Nonostante sia convinto che la mia
biografia sarà l’ultima ad essere finita, a causa della sua complessità e
lunghezza, prometto di impegnarmi a terminarla. Esiste anche un altro motivo
per cui desidero che tutti i capitani riflettano sul passato. La Soul Society sta
attraversando tempi bui e quando le risposte non si riescono a trovare nel
presente, sono convinto che cercarle nel passato possa essere molto utile. Vi
ringrazio per la pazienza avuta in questa prima introduzione, adesso passiamo
alla mia storia.
Sono nato il 21 Gennaio di molti
anni fa in una casa ai confini della città. Mia madre, era l’ultima esponente
della famiglia Yamamoto, caduta in disgrazia durante un incendio che aveva
coinvolto l’intero edificio principale della residenza Yamamoto, nel quale mia
madre era stata ferita gravemente. Nonostante le fosse chiaro l’imminenza della
sua morte, mia madre decise di non arrendersi e di rifugiarsi nella prima casa
più vicina, dove una coppia di contadini la aiutò nel travaglio, che per altro
era iniziato la sera stessa. Fu la mia venuta a portarle vie la vita e di
questo ancora me ne rammarico. Mi sarebbe piaciuto conoscerla. La coppia di
contadini mi allevò come se fossi stato loro consanguineo, ma mai mi negarono
la mia vera identità. Mi dissero che mia madre aveva scelto il nome e che io
dovevo portarlo con tutta la fierezza e l’orgoglio di un nobile. Fin da
piccolo, il mio adorato padre adottivo mi avviò verso la vita contadina,
insegnandomi tutto quello che sapeva sulla semina, sul raccolto, su come si
coltivava e su come si tenevano gli strumenti del mestiere adeguatamente. A
differenza di quello che si può credere, la vita contadina e il lavoro che ne
consegue non infanga la dignità di un uomo ma al contrario la nobilita
temprando il corpo e lo spirito. Ricordo di aver dato a quei campi tutto l’amore
che potevo provare, come se fossero parte di me e come tali andassero protetti.
Ho portato la zappa con fierezza sotto il sole, sotto le nuvole e sotto la
pioggia, senza mai arrendermi alle difficoltà che la vita mi presentava.
Sfortunatamente, mentre il mio corpo si irrobustiva, quello dei miei genitori
adottivi, logorato dall’età e dalla fatica, si indeboliva sempre di più. Cercai
con tutte le mie forze di farli desistere dal continuare a lavorare, ma
nonostante i miei sforzi, le più care persone che io abbia mai conosciuto
morirono di lì a qualche mese per il troppo lavoro. Fu una grave perdita che
ancora oggi, dopo millenni, pesa sul mio cuore. Ricordo che quando lo venni a
sapere avevo ormai raggiunto i diciassette anni. Il dolore mi travolse come un
onda in grado di abbattere palazzi. Non riuscivo a crederci. Non potevo
crederci. Non era possibile! Dopo così tanto tempo avevo imparato a conoscere
quelle due persone e il pensiero di non poterle rivedere più mi devastava.
Accadde tutto in pochissimo
tempo, il mio squilibrio portò alla manifestazione di una fiamma, che in men
che non si dica diede alle fiamme parte del raccolto, nonostante alcuni
valorosi uomini fossero riusciti a spegnerlo per evitare che i danni si
propagassero. Al mio dolore, che già travolgeva il mio animo, si aggiunse una
fortissima sorpresa. Come era possibile che da una persona si manifestassero
delle fiamme? E soprattutto come era possibile che io non ne fossi stato
danneggiato? Raccontai la mia piccola disavventura a coloro che vennero ad indagare,
per sapere se l’incendio era doloso o meno. Non dimenticherò mai quelle
persone. Erano alte e vestivano di nero, al fianco portavano una spada e nei
loro occhi il colore che vedevo era sicurezza. Quelle persone, che si
definirono membri Gotei, mi spiegarono che
probabilmente il potere che avevo emanato era dovuto alla mia naturale
predisposizione a diventare uno Shinigami, e che quello che avevo manifestato
era il mio potere. Mi dissero che, adesso che non avevo più niente da perdere,
potevo scindere i legami col passato e venire con loro ad arruolarmi, in quel
modo avrei potuto imparare a controllare i miei poteri. Guardandomi indietro,
vidi la devastazione che avevo causato con una singola fiammella e giurai che
avrei imparato ad usare al meglio i miei poteri per proteggere e mai più per
distruggere. Diedi una sepoltura modesta ai miei genitori, in mezzo ai campi ai
quali avevano donato la vita. Sono tutt’oggi convinto a non modificare quella
tomba, nonostante ne abbia i mezzi, perché credo che sia più onorevole per loro
riposare per sempre immersi nel loro ambiente naturale, in una parte di loro.
Questi furono i fatti che mi portarono ad arruolarmi nel Gotei.
All’epoca, non esistevano tredici divisioni ma soltanto una, in quanto le
persone che venivano accolte come Shinigami erano solamente una piccolissima
parte, ossia coloro che manifestavano apertamente i loro poteri e venivano così
inseriti nel Gotei, che all’epoca aveva il compito di
proteggere le terre dei nobili ed eseguire gli ordini della camera dei 46. Non
esisteva l’Accademia, di cui io sono stato il fondatore, e non esistevano
neanche il Kidoshu e le forze speciali. Quelli erano
altri tempi e proseguendo col racconto ve ne renderete conto anche voi.