“Il
profumo di Sophie”
Parigi
era una città noiosa. Essere assegnati alla guarnigione di
Parigi significava aver combinato qualcosa nell'esercito: era una
specie di punizione per soldati indisciplinati. Certo, Paris, la
città dell'amour,
il Mouline Rouge, la Tour Eiffel, i negozi di moda... ma per un uomo
abituato a combattere in prima linea, a sopravvivere in qualsiasi
situazione, a obbedire e uccidere, Parigi era una prigione dorata. I
francesi poi, con quella loro aria di superiorità,
quell'orribile accento biascicato, gli davano proprio sui nervi. Un
incubo. Voleva tornare sul campo.
Come
aveva fatto il suo maggiore a trascinarlo in quella stupida galleria
d'arte, se lo stava ancora chiedendo. Prima di tutto, per lui,
dipingere su una tela era un inutile passatempo di gente che non
aveva niente di meglio da fare, figuriamoci poi spendere delle ore a
fissare il risultato molto spesso patetico di questi che si
spacciavano per artisti. Se anche poteva avere un minimo di interesse
per qualche opera di un secolo lontano, che trascinava con sé
una patina di antico, certamente non era in alcun modo affascinato da
una galleria d'arte dove il quadro più vecchio aveva sì
e no dieci anni. Si ritrovò a fissare con aria apatica uno
schizzo di colore senza senso. “Che coglioni...” pensò
sconsolato.
«Oberst
Schröder!» lo chiamò il suo maggiore.
“Che
cazzo vuoi?” si domandò il colonnello Schröder,
avvicinandosi con passi strascicati al giovane soldato.
Il
maggiore Gisbert Kraus era un uomo che aveva fatto una brillante
carriera militare tanto da arrivare al suo grado a soli venticinque
anni. Aveva la mascella squadrata, i corti capelli tagliati a
spazzola e gli occhi azzurri sempre illuminati dalla fede al Terzo
Reich. Come diavolo una tale promessa dell'esercito fosse finita
nella guarnigione di Parigi, nessuno lo sapeva: un ragazzo come
quello doveva stare a combattere in prima linea.
Quanto
al colonnello Hilderich Schröder, lo sapeva benissimo di essersi
meritato Parigi. Aveva commesso un errore, un errore imperdonabile:
aveva disobbedito ad un ordine diretto di un superiore. E così,
a cinquant'anni suonati, i capelli che cominciavano a diventare
brizzolati sulle tempie e lo sguardo sempre duro di un soldato che è
scampato una volta di troppo alla morte, era stato mandato nella
capitale francese. A marcire.
«Guardi
questo quadro, oberst.
Non le pare magnifico?» gli chiese il maggiore Kraus, animato
da troppo entusiasmo per i gusti di Schröder.
Il
colonnello si voltò apatico per osservare la tela che il
ragazzo gli stava indicando, ma contro il suo volere ne rimase
colpito. Era stata rappresentata una donna meravigliosa, con i
boccoli castani che ricadevano gentili al lato del volto, il rossetto
scarlatto, lo sguardo fiero e ammaliatore, completamente nuda se non
per un cappello e un paio di guanti bianchi. Il colonnello Schröder
ne fu stregato. “Ritratto di giovane donna con i guanti.”
recitava una triste etichetta bianca posta a lato. Sotto, il nome
dell'autore, che il colonnello non degnò nemmeno di uno
sguardo.
«Voglio
comprarlo.» sentenziò. Doveva averlo, assolutamente.
«Oberst,
non credo che si possa...» cominciò il maggiore Kraus
Ma
il colonnello lo interruppe con foga: «Perdio, giovanotto!
Credi che il
Führer
abbia chiesto il permesso ai polacchi prima di invadere la loro
nazione?»
«No,
signore.»
«Certo
che no! E sai che significa questo, giovanotto?»
«Cosa,
signore?»
«Che
i tedeschi si prendono sempre quello che vogliono!»
Un
omino piuttosto basso apparve alle spalle del maggiore Kraus. «Vi
prego, signori, siamo in una galleria d'arte.» biascicò
in un tedesco dal forte accento francese.
Il
colonnello Schröder lo incenerì con lo sguardo. «Me
ne infischio di dove siamo! Voglio comprare questo quadro.»
sbraitò imperioso il colonnello. Se c'era almeno anche solo un
vantaggio nell'essere confinato a Parigi, era che gli orgogliosi
francesi diventavano degli agnellini alla vista delle divise naziste.
L'omino
si schiarì la voce a disagio. «Questo quadro appartiene
ad un privato collezionista. Non possiamo venderglielo, signore.»
farfugliò con un sorrisetto a mo' di scusa.
Il
colonnello Schröder lo sovrastò con la sua mole
imponente. «Allora faccia una cosa. Vada a prendere il suo
registro e mi dica il nome del proprietario.» Il suo tono di
voce era gentile, ma lo sguardo non lasciava presagire nulla di
buono.
«Ehm...
certo, herr
Kommandant.»
bisbigliò l'omino e poi scomparve.
Tornò
pochi minuti dopo: tra le mani aveva un enorme registro ingiallito,
dove qualcuno aveva catalogato con una grafia inferma e tremula i
quadri e i rispettivi proprietari. Il custode fece scorrere il suo
ditino magro sull'elenco, alla ricerca della tela che interessava al
soldato tedesco. «Oh, ecco qui...» sospirò,
evidentemente sollevato. «“Ritratto di giovane donna con
i guanti.” La proprietaria è una certa signorina Sophie
Petit.» lesse con voce tremante.
Il
colonnello Schröder sorrise. Un sorriso da squalo. «Visto
che era facile?»
Quella
mattina la temperatura era piacevolmente bassa. Hilderich Schröder
era il tipo di uomo che amava stare in camicia quando nevicava,
noncurante del freddo pungente. Stoico avrebbe detto qualcuno, folle
avrebbero pensato i più.
La
gente che affollava le vie parigine era imbacuccata in enormi
cappotti e pesanti pellicce, lui indossava solamente la divisa
militare.
Entrò
nel caffè all'angolo della strada e scelse un tavolo per due
in un angolo. Doveva aspettare una persona. Il maggiore Kraus, con
zelo quasi maniacale, era riuscito a rintracciare la proprietaria del
quadro che avevano visto qualche giorno prima alla galleria d'arte e
aveva organizzato un incontro in quel caffè. Schröder si
aspettava una vecchia zitella appassionata di arte, una di quelle
che, non avendo altro da fare nella vita, spendevano i loro patrimoni
in idiozie come quadri e mobili d'epoca. Per questo si stupì
parecchio quando una giovane donna castana si sedette al suo tavolo.
Dovevano essere passati una decina d'anni perché il suo
sguardo era più maturo, ma quella era certamente la modella
che era stata ritratta nel quadro.
«Sophie
Perit?» domandò incerto il colonnello Schröder.
La
donna sorrise con fare accattivante. «Oui,
monsieur.»
L'uomo
annuì soddisfatto. «Io
sono il colonnello Schröder.
Credo
che il mio maggiore le abbia chiarito la situazione... dunque
è lei la proprietaria del quadro?» chiese con tono
serio. Era difficile non farsi distrarre dall'aurea di fascino che
emanava la donna, ma Hilderich cerò di concentrarsi sul suo
obiettivo: comprare il quadro, niente di più.
La
signorina Petit si aggiustò con il dito un ricciolo ribelle.
«Oui,
monsieur
Schröder.»
«La
prego di parlare in tedesco, fräulein
Petit!» esclamò di botto il colonnello. Odiava il
francese, con le sue ridicole flessioni. E poi sulla bocca di Sophie
suonava così melodioso e ammaliatore che gli faceva perdere di
vista il suo obiettivo.
«Oh,
ma il tedesco è una lingua così dura, monsieur
Schröder!» cinguettò Sophie nell'idioma del suo
interlocutore, tuttavia senza perdere il suo accento d'origine.
«E
il francese è la lingua dei rivoluzionari!» rispose il
colonnello.
Mademoiselle
Petit
si concesse una ristata tintinnante. «Ma che dice? Noi non
facciamo più rivoluzioni dalla presa della Bastiglia.»
Schröder
rimase interdetto a quelle parole: e l'esperienza della Comune di
Parigi allora che cos'era? Le lanciò un'occhiata di sbieco, ma
Sophie non si scompose, né perse quel suo profumo di
frivolezza. «La sua ignoranza sui fatti storici e politici
della sua nazione è a dir poco squisita.» commentò
allora il colonnello in tono ironico.
Sophie
ridacchiò deliziata, come se l'uomo le avesse fatto un
complimento. «Oh, grazie monsieur
Schröder!» disse con un sorriso luminoso. «Lei mi
lusinga!»
Il
colonnello Schröder non riusciva a crederci: aveva davvero
confuso il suo sarcasmo con un elogio? Si sentì costretto a
chiarire la situazione. «Ero ironico, fräulein.»
Sophie
Petit si portò una mano alla bocca, sgranando gli occhi come
se avesse scoperto qualcosa di tragicamente irreparabile. «Oh.»
sussurrò, ma poi riprese a sorridere. «Nulla di grave!
In fondo io dico: che importanza ha la storia, monsieur
Schröder? Viviamo nell'oggi, godiamo del presente! La vita è
piena di dolori anche senza che noi ci angustiamo per il passato. Io
dico sempre: quello che è stato, è stato!»
decantò con la sua voce tintinnante.
Una
filosofia di vita certamente apprezzabile, ma troppo lontana
dall'eroico stoicismo che guidava le mosse di Hilderich Schröder.
«Davvero nobile, fräulein.
Ora veniamo agli affari.» sentenziò il colonnello in
tono che non ammetteva repliche.
Il
sorriso di Sophie divenne meno frivolo. Anzi, le dava al volto
un'espressione indecifrabile, quasi di furba malignità. «Il
quadro non è in vendita, herr
Schröder.» decretò.
E
con quelle parole si alzò dal tavolo e uscì dal caffè.
Il
maggiore Kraus era convinto che il suo colonnello e la signorina
Petit fossero diventati amanti, perché dal loro primo incontro
oberst
Schröder non faceva altro che cercare pretesti per incontrarla
di nuovo. Il colonnello Schröder la tartassava, letteralmente,
l'aspettava fuori di casa, le spediva lettere, le chiedeva un altro
appuntamento. Non le voleva vendere il quadro, quella puttana, diceva
il colonnello come scusa, ma il maggiore Kraus non si lasciava
fregare. Erano amanti, ne era certo.
Come
faceva una donna così bella e affascinante ad essere attratta
da un vecchio scorbutico come Hilderich Schröder? Kraus,
proprio, non se ne capacitava. Lei era così delicata, amante
dell'arte e delle gioie della vita, lui era burbero e rigido, senza
nessuna capacità di apprezzare il bello. Il maggiore Kraus
avrebbe fatto di tutto perché la bella Sophie lo degnasse
anche solo di uno sguardo, mentre lei non aveva occhi che per
l'austero colonnello. Com'era possibile? Com'era possibile?
Finalmente
Sophie cedette alle attenzioni di Schröder: usando come tramite
il maggiore Kraus, organizzò un nuovo incontro proprio alla
galleria d'arte dove si trovava l'oggetto del desiderio. Quando il
maggiore la andò a prendere davanti a casa sua, con una delle
automobili militari della divisione parigina, Sophie Petit era più
splendida che mai. Indossava un lungo cappotto scuro, con il collo di
pelliccia, e aveva i riccioli sapientemente acconciati in un nodo
sulla nuca. Non appena salì sull'automobile puzzolente di gas
di scarico, un profumo di lavanda investì le narici del
giovane Gisbert Kraus.
«Non
trovate che sia adorabile il mio profumo, monsieur
Kraus?» domandò Sophie con un sorriso deliziato.
Il
maggiore Kraus deglutì sonoramente, incapace di proferire
parola.
«Possiamo
andare.» sussurrò la giovane donna con la sua voce
delicata.
Il
colonnello Schröder attese pazientemente l'arrivo del suo
maggiore e della signorina Petit: avrebbero concluso quella faccenda
una volta per tutte. Ormai era diventata una questione di principio,
tanto che del quadro non gli interessava più molto, ma non si
sarebbe sottomesso al capriccio di una donnicciola qualunque. Lui era
il colonnello Hilderich Schröder, perdio!
Il
maggiore arrivò alla galleria d'arte in perfetto orario.
«Lasciaci soli.» ordinò il colonnello al suo
giovane sottoposto. Il maggiore Kraus fece il saluto militare e si
allontanò. “Militaresco come sempre, il mio ragazzo!”
pensò con Schröder con orgoglio, osservandolo mentre se
ne andava.
Poi
la voce secca della signorina Petit lo richiamò alla realtà.
«Herr
Schröder...»
Il
colonnello si girò verso di lei e rimase spiazzato: aveva
perso tutta quell'angelica frivolezza con cui si era presentata il
primo giorno al caffè. Pareva che sangue tedesco scorresse
nelle sue vene, tanto era ferrea nella postura e nello sguardo.
«L'ho
fatta venire qui per chiarire questa situazione ridicola una volta
per tutte. Vede, herr
Schröder, io sono una donna che sa quello che vuole e che sa
come comportarsi con gli uomini. Loro vedono in me solo la prestante
modella con i boccoli dorati che lei vede qui ritratta e dunque io so
che mi devo comportare come loro si aspettino che faccia, per
ottenere quello che voglio. Frivolezze e profumo alla lavanda, per
intenderci. Ma le voglio chiarire che io non sono affatto così.
Lei vuole questo quadro, ma io non ho intenzione di venderglielo
perché è lei un pomposo soldato tedesco che ha invaso
la mia amata nazione, perché si ritiene superiore agli altri
per la sua potenza militare, perché è un misogino, un
egoista e un prepotente! Piuttosto che vedere il mio quadro nelle sue
mani, preferisco distruggerlo!» strillò Sophie.
Hilderich
Schröder rimase senza parole. Lurida puttanella nazionalista
francese! Si stava facendo beffe di lui e del Terzo Reich!
Sophie
estrasse un coltello dalla borsetta, si voltò verso la tela e
fece per strapparla, quando il colonnello, ripreso dallo shock e
furibondo per le parole velenose della ragazza, le saltò
addosso. Sophie urlò e si dimenò.
E
poi uno sparo.
Il
corpo del colonnello Schröder le fu addosso con tutto il suo
peso. Sophie non capì cosa fosse successo finché non
notò il sangue vermiglio che si allargava in una macchia scura
sulla schiena del soldato tedesco. Urlò in preda al terrore.
Qualcuno gli aveva sparato, qualcuno l'aveva ucciso!
E
poi lo vide. Gisbert Kraus, il giovane maggiore di Schröder,
ritto davanti a lei con la pistola ancora alzata. «Monsieur
Kraus... lei, cosa?» farfugliò la donna, senza capire
cosa fosse successo. Forse il maggiore temeva che il suo colonnello
stesse cercando di abusare di lei e, colto da spirito eroico, aveva
deciso di ucciderlo. Ma Kraus non accennava ad abbassare la pistola.
«Sì,
mademoiselle
Petit, trovo che il suo profumo sia adorabile.»
E
fece fuoco.
L'avevano
cacciato via per amoreggiare. Che idioti che erano stati! Lui sapeva
benissimo come stavano le cose, non ci era cascato alla loro
messinscena, signorno! Lui era un tipo sveglio, eccome, a soli
venticinque anni era già maggiore dell'esercito tedesco! Non
si faceva gabbare da quei due, proprio no.
Ma
sta volta li aveva fregati lui. Che amoreggiassero adesso, con tutto
quel sangue e gli occhi vitrei sbarrati verso il soffitto. Sì,
sì, li aveva fregati, lui.
Si
allontanò dalla galleria d'arte con il cuore più
leggero. La gente per strada, al suo passaggio, lo additata e urlava,
chissà perché. Forse era per le sue vesti sporche di
sangue, o per la pistola che aveva ancora tra le mani. Arrivò
al ponte sulla Senna con un sorriso sereno stampato sul volto. Che
bel fiume, come scorreva veloce, lì sotto! Ora che aveva
punito i due amanti, non sapeva che altro fare. Magari una nuotata
nel fiume lo avrebbe distratto per un po', e poi gli sarebbe venuta
in mente una bella idea per passare il resto della giornata. Scavalcò
il parapetto.
«Monsieur!»
gridò qualcuno. Che lingua musicale il francese!
Nel
rapporto che avevano redatto prima di spedirlo a Parigi, il medico
aveva scritto “soggetto psicolabile, con frequenti attacchi
d'ira.” Strano, al momento gli pareva tutto, tranne che di
essere arrabbiato.
«Faites
attention!»
urlarono ancora. Mamma, che noiosi questi francesi! Si voleva solo
fare un tuffo!
Un
uomo riuscì ad afferrarlo per la giacca, ma era troppo tardi e
il peso del corpo del ragazzo fu tale che il francese non riuscì
a mantenere la presa.
Gisbert
Kraus cadde nella Senna con un sorriso beato sul volto.
Epilogo
Tamara
de Lempicka
andò all'ufficio postale per ritirare un pacco che le era
stato spedito dall'Europa. Era accompagnato da una lettera scritta in
un inglese stentato, con una grafia incerta e tremula. Parlava di un
quadro, la cui proprietaria era morta senza lasciare eredi e che era
stato irreparabilmente danneggiato. Il mittente era il custode della
galleria d'arte dove si trovava l'opera.
Tamara
aprì il pacco, incuriosita. Una donna altera, completamente
nuda se non per un cappello e un paio di guanti, la fissava della
tela. Sì, se lo ricordava quel quadro. L'aveva disegnato come
minimo dieci anni addietro, ritraendo una modella francese. C'erano
numerose macchie scure, rossastre, sul corpo della donna. Tamara ci
passò sopra un dito, sovrappensiero. Sembrava che fosse stato
dipinto del sangue su quel corpo morbido. Era un peccato che si fosse
rovinato in tal modo.
Ma
forse un rimedio c'era. Tamara osservò per un attimo il
pennello e la tavolozza che giacevano abbandonati nella stanza
accanto: le era avanzato un po' di colore verde, dall'ultima tela che
aveva disegnato. Si voltò nuovamente verso il quadro venuto da
Parigi, con un mezzo sorrisetto. «Credo
che proprio sia ora di vestirsi, miss.»
Spero
che la breve storia vi sia piaciuta; qui inserisco il link del
concorso, dal titolo “Di giovani fanciulle, donne misteriose e
ritratti”, nel quale questo racconto si è classificato
al primo posto. QUI, invece, il quadro protagonista del racconto.
Alla
prossima,
Beatrix
Edit:
la storia è stata recentemente corretta nell'impostazione dei
dialoghi secondo le giuste norme!
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