Andrà tutto bene
Minacciava
pioggia, l’aria era elettrica e frizzante, il tramonto era
quasi un lontano ricordo, mentre su tutto calava il velo nero della
notte.
Sarebbe dovuta uscire prima dal lavoro, si rimproverava Caterina,
accelerando il passo e stringendosi le braccia al petto.
Non le piaceva attraversare quella strada quando era deserta, le ombre
della notte e il vento freddo le facevano vedere cose che, sperava, non
esistessero.
Era sempre stata una fifona di prima categoria, i suoi amici a scuola
non facevano che prenderla in giro e, immancabilmente, sceglievano film
horror nelle serate cinema.
Il liceo: stranamente le mancava quanto mai avrebbe voluto ammettere,
le mancavano la spensieratezza, l’allegria, la vita.
Tutti lussi che non si poteva più concedere, se voleva
arrivare alla fine del mese doveva lavorare, nessuno poteva pensare a
lei. Nessuno.
Da quanto tempo non usciva una sera? Da quanto tempo non
andava ad una festa? Mesi, forse anni.
Ancora pochi minuti e sarebbe giunta a casa, avrebbe spazzato via con
un bagno caldo quella strana sensazione che l’attanagliava
fin dal risveglio.
Era una sorta di senso di inquietudine, sottile ma insistente, a cui
non badò veramente: era sera, era stanca ed era sola,
probabilmente quella sensazione si chiamava semplicemente malinconia.
Non incontrava mai nessuno in quel tratto di strada, al massimo
l’anziana signora della casa gialla che portava fuori il suo
cagnolino.
Ma la sagoma che comparve nella sua visuale era troppo alta per
appartenere alla minuta e gracile signora, e non aveva alcun cane al
seguito.
Il cuore accelerò subito la sua corsa, tutto ormai la
spaventava nella vita, tutto la turbava.
Quel giorno, quel maledetto e funesto giorno le aveva strappato via la
giovinezza e la speranza…
Si era appena diplomata,
era al mare a festeggiare con gli amici e si stava divertendo come mai
prima, aveva anche quasi baciato quel suo compagno per cui aveva una
cotta segreta fin dal Ginnasio.
Era sola con lui, al
tramonto, ancora solo in costume, con la gioia e
l’eccitazione negli occhi e il sorriso sulle gote arrossate.
Qualcuno
l’aveva chiamata da lontano: il suo cellulare non smetteva di
squillare da diversi minuti, tutti erano infastiditi, ma nessuno aveva
risposto: era un numero non salvato in memoria.
Si era alzata, di
malavoglia, sorridendo a Filippo, e aveva raggiunto di corsa la sua
borsa, scocciata di essere stata interrotta proprio in quel momento,
proprio ad un passo dal baciarlo.
“Pronto?”
Il frastuono della radio, portata da qualcuno, le impediva di sentire
il suo interlocutore; tappandosi l’altro orecchio, si era
allontanata di qualche passo.
Aveva udito solo il suo
cognome, come finale di una domanda. “Sì, sono io.
Lei chi è?”
La sua vita era cambiata
per sempre in quel preciso istante, quando aveva ricevuto la notizia
che nessuno avrebbe mai voluto ricevere.
Incidente stradale,
autostrada, camion, incendio, due morti. I suoi genitori.
Diciannove anni, ancora
da compiere, ed era rimasta sola al mondo: gli unici parenti in vita
abitavano all’altro capo del paese.
Le era rimasta la casa,
ma il conto in banca era quasi in rosso: i suoi genitori avevano appena
speso tutto per comprare il Ristorante dei loro sogni, avrebbero
cominciato a sistemarlo nell’estate, per riaprire entro la
fine dell’anno.
Per fare quella follia,
che lei aveva appoggiato in pieno, avevano riscattato le loro polizze
assicurative, in fondo avrebbero potuto ripristinarle appena il
Ristorante avesse iniziato a portare qualche soldo in casa.
Ottant’anni di vita, ma in due. A quaranta anni non credevano
che avrebbero lasciato la loro unica figlia sola al mondo e in una
situazione finanziaria devastata.
Il finanziamento,
concesso per iniziare i lavori di ristrutturazione, era stato subito
revocato: la sua firma, ovviamente, non valeva quanto quella dei suoi
genitori, come garanzia
Tutti i lontani parenti
le avevano consigliato di vendere subito il Ristorante, ma ogni
acquirente, approfittandosi della sua inesperienza, le aveva offerto
una miseria.
E così, aveva
rinunciato all’Università ed aveva cominciato a
lavorare come commessa in un negozio; erano oltre quattro anni che
viveva così, facendo sacrifici, ma rifiutandosi di vendere
la casa per prenderne una più piccola, perché era
l’unico ricordo rimasto dei suoi genitori.
C’era anche il
Ristorante, ma erano due anni che non andava a vedere in che stato
fosse; aveva rinunciato a trovare qualcuno che lo comprasse, aveva
semplicemente finto che non esistesse.
Ed era per quello che
aveva interrotto i rapporti con gli ultimi parenti rimasti: le davano
della stupida perché non l’aveva venduto.
Ma lei, orgogliosa e
testarda, aveva continuato per la sua strada.
I primi mesi di lutto
erano stati tremendi, per fortuna aveva avuto le sue amiche accanto, e
anche Filippo; non si era fatto avanti con lei, non più,
rispettava i suoi spazi e si era limitato a starle accanto come un
amico.
Alla fine
dell’estate erano tutti andati
all’Università ed era rimasta sola; quando
tornavano nei fine settimana la invitavano alla feste, ma era troppo
stanca per andare.
Dopo un anno avevano
smesso di invitarla, così come di telefonarle. Il suo
cellulare squillava quasi sempre a vuoto, perché la maggior
parte delle volte si era addormentata la sera, oppure non aveva voglia
di parlare.
Anche Filippo aveva
smesso di cercarla, stanco di doverla aspettare, probabilmente.
Era così abituata alla solitudine, ormai, da aver sviluppato
quasi un’allergia alle persone, una insana fobia
del contatto umano.
Una paura che era amplificata mille volte, in quel momento. Chi era
quell’ombra che si stava avvicinando a lei?
Attraversò la strada, portandosi sul lato opposto, non poi
così distante comunque; l’ombra si era fermata,
mentre lei proseguiva spedita.
Maledetti lampioni sempre guasti e maledetti ragazzini che li
attaccavano per gioco con le fionde, rompendone le luci.
Chiaramente, l’ombra si era fermata proprio sotto ad uno dei
lampioni spenti, non facendole presagire niente di buono.
Affrettò ancora di più i passi, se necessario si
sarebbe messa a correre, la sua casa distava solo poche decine di metri
ormai.
“Cate, aspetta.” Quella voce… lei
conosceva quella voce.
Si fermò, rimanendo immobile e sforzandosi di ricordare a
chi appartenesse.
“Ho poco tempo, Cate, ma volevo parlarti.” La voce
di lui risuonò vicinissima, facendola voltare e sussultare.
Ora che si era avvicinato ed era alla luce, la ragazza poté
confermare i suoi sospetti.
“Filippo…” Sussurrò,
sorpresa, ma ancora intimorita.
“Sì, sono io.” Sorrise lui, lievemente.
“Che… che ci fai qui? Sono anni che non ci
sentiamo…” Non si fidava più di
nessuno, Caterina, nemmeno dei vecchi amici.
“E’ di questo che volevo parlarti, mi concedi
qualche minuto?” Era cauto, probabilmente aveva scorto dal
suo volto quanto lei fosse spaventata da quella strana situazione.
“Va bene… perché non mi chiami domani?
Ne parliamo, magari… a pranzo… Il mio numero
è sempre lo stesso… prometto di rispondere
stavolta.” Si sentiva in imbarazzo ed in colpa, per averlo
allontanato anni prima, pur non volendo davvero farlo.
“Non posso, Cate, scusami, sto per partire e volevo almeno
salutarti e vedere come stavi.” La scrutava intensamente,
come se volesse leggerle dentro.
“Sto…bene… grazie del
pensiero.” Era colpita dall’interesse di Filippo,
in fondo non aveva notizie di lei da troppo tempo.
“Davvero stai bene?” La incalzò, con
sguardo ammonitore.
“Sì, certo. Perché?” Che cosa
ne poteva sapere lui della sua vita? Come si permetteva? Certo, non era
rose e fiori, ma ormai aveva imparato ad andare avanti.
“Perché mi sembri stanca, spenta, e hai
allontanato tutti. Mi fa male vederti così sola.”
Il tono era dolce, ma Caterina si irritò ugualmente.
“E tu che ne sai? Potrei avere altri amici, milioni di amici!
Non è scritto da nessuna parte che si debbano mantenere i
contatti con i compagni di liceo!”
“Non sono qui per farti arrabbiare, scusami. Quello che
volevo dirti era soltanto: SCUSA. Scusa se ho lasciato perdere troppo
presto, se non ho continuato a cercarti, a costo di rimediare
un’ordinanza restrittiva.” Sorrise della battuta e
fece sorridere anche lei.
“Non ti devi scusare, Fil. Hai ragione, ho allontanato tutti,
non soltanto te, e me ne sono pentita. Soprattutto di aver perso
te.” Chinò il capo, imbarazzata da quella
confessione.
Con lui si sentiva ancora come una diciottenne un po’ timida,
perché il loro rapporto era rimasto congelato a
quell’istante.
“Vorrei poterti dire che avremo tempo, ma non posso. Ci sono
persone che mi aspettano, ormai. Però non ti ho mai
dimenticata, e vorrei che tu fossi felice, lo vorrei davvero con tutto
il cuore.”
Rimase colpita, profondamente, dalle parole del ragazzo; era tardi per
loro due, magari lui aveva una fidanzata, un lavoro e stava per andare
via: aveva appena detto di dover partire.
Era ancora bellissimo, non sembrava cambiato di una virgola
dall’ultima volta che l’aveva visto.
Avrebbe voluto abbracciarlo, sentire di nuovo il suo profumo, che mai
aveva dimenticato, anche se nei suoi ricordi ormai era associato anche
alla salsedine e all’odore della spiaggia.
Era così che
aveva voluto ricordarlo sempre, con i capelli scompigliati e mezzi
bagnati, ricoperto di sabbia e con gli occhi scintillanti al tramonto;
nei mesi successivi non aveva quasi mai avuto il coraggio di guardarlo
negli occhi, nemmeno quando lui l’accoglieva tra le sue
braccia facendola piangere e sfogare.
Avevano anche dormito
insieme, una notte, la notte del funerale.
Si era addormentata
ancora con quel vestito nero, che le si era appiccicato sulla pelle per
il caldo, sul divano di casa, sfinita da quella giornata orribile.
Era stato lui a
svegliarla, a notte fonda, per farla andare a dormire; era rimasto solo
lui nella casa vuota, nessuno aveva avuto il coraggio di svegliarla per
salutarla.
Con delicatezza, le
aveva tolto i capelli dal viso e l’aveva presa in braccio,
portandola nella sua stanza; ricordava poco di quel giorno, era tutto
annebbiato e confuso.
Però si era
svegliata in quello stesso letto, il mattino successivo, accanto a lui;
era stata lei a chiedergli di rimanere, quello lo ricordava vagamente.
Se solo il destino non
si fosse accanito contro di lei, se solo avesse potuto vivere
serenamente la sua storia con lui… quanti se, quante
speranze infrante.
“Io… ti ringrazio…
davvero…” Era in imbarazzo, non sapeva come
rispondere, perchè non era abituata a sentirsi dire quelle
cose, non più.
“Non mi devi ringraziare, mi devi soltanto - se un giorno
potrai - perdonare. Perché ho peccato di accidia ma io ti
amavo davvero… Me ne sono accorto negli anni, nessuna mai
poteva reggere il tuo confronto. Ma non ero abbastanza forte,
abbastanza uomo, da sostenerti e lottare perché tu mi
volessi al tuo fianco.” La fissava così
intensamente da farla quasi svenire.
Lui aveva sempre avuto uno strano effetto su di lei: forse
perchè era stato il suo primo ed unico amore, se
così si poteva definire; ma quella sera, complice la notte,
il tempo passato e le parole che le stava confessando, la
destabilizzava come mai prima.
“Vuoi… fermarti a bere qualcosa, da me?”
Nessuno era entrato nella sua casa da anni, ma quella sera rimanere
sola le sarebbe pesato troppo.
“Te l’ho detto, Cate, non posso… Devo
partire, tra pochi minuti.” Era dispiaciuto, o, perlomeno,
così sembrava dalla sua espressione triste.
Un groppo in gola la fece quasi piangere, lì, in mezzo alla
strada, perché aveva capito di averlo perso davvero, di
avere rinunciato a lui e di non poter pretendere ormai più
nulla.
Lui si era rifatto una vita, lei no.
“Avevi ragione, non sto bene.” Confessò,
a se stessa più che al suo interlocutore.
“Lo so, piccola, lo so. Ma devi essere forte,
perché tu meriti di essere felice.”
Gli occhi le si inumidirono, mentre ricordava l’ultima volta
che lo aveva sentire dire quella stessa parola. Piccola.
“Ehi, piccola,
non sai cosa hai scatenato.” L’aveva minacciata,
ammiccante, quel pomeriggio in spiaggia, quando lei lo aveva sorpreso,
addormentato sul telo, e l’avevo svegliato spruzzandolo
d’acqua.
Filippo
l’aveva rincorsa per la spiaggia, riuscendo a prenderla per
poi caricarsela in spalla e gettarla in acqua. Quello era il suo ultimo
ricordo felice: quel pomeriggio con lui.
“Non so se ce la faccio, Fil, io… non sono
più capace di sognare, di sperare, ormai.” Le
lacrime erano sfuggite al suo controllo, ma non se ne vergognava, non
con lui.
“Shhh, non piangere: andrà tutto bene, fidati di
me.” Aveva alzato una mano, sembrava volerle fare una
carezza, ma poi l’aveva abbassata, forse temendo di turbarla.
“Come fai…ad… esserne certo?”
Singhiozzò.
“Ora, ascoltami bene. Domani mattina vai alla stazione dei
treni, dove ci sono gli armadietti per i bagagli. Numero 20: ricordalo.
La combinazione è la tua data di nascita: sei cifre.
Troverai qualcosa che ti farà capire perché sono
così certo di avere ragione. Usala bene e sforzati di non
rimanere sola, lo sei stata anche troppo.” Faticava a
capirlo, perché stava parlando troppo veloce.
“No, aspetta, non ho capito. Cosa stai dicendo?” Ma
lui si era già allontanato di un passo, avvicinandosi al
buio.
“Cate, ricorda: armadio 20, tua data di nascita.”
Altri due passi nel buio.
“Filippo, aspetta!” Due passi guadagnati per lei,
verso di lui.
“Te l’ho detto, piccola, mi aspettano. Sii felice
mi raccomando. Fallo… per me, se non vuoi farlo per te
stessa. Fallo per me, che ti ho sempre amata e che ancora ti
amo.”
L’amava, lui l’amava ancora. Non poteva lasciarlo
andare, non dopo quella confessione.
“Non te ne andare, ti prego!” Lo
supplicò, mentre lui arretrava verso il buio, con il
dispiacere dipinto in volto.
“Mi dispiace, Caterina, mi dispiace davvero tanto. Ti
ricorderò ogni istante, per sempre.” Aveva
raggiunto il buio, ma lei non aveva intenzione di lasciarlo andare via.
Si era mossa troppo tardi, però, c’erano degli
alberi da quel lato e l’ombra di quelli l’aveva
ingannata; da che parte era andato?
“Filippo? Aspetta!” Urlò nella notte.
Nessuno rispose, era sempre più buio, sempre più
freddo; cercò il cellulare nella tasca, con gesti frenetici.
Aveva ancora il suo numero in memoria, ma probabilmente non era
più lo stesso.
Lo selezionò rapidamente, portandosi il telefono
all’orecchio, e sperando... Sì: aveva ricominciato
a sperare.
La voce dell’operatore le disse che il telefono era spento o
non raggiungibile; mandando giù le nuove lacrime che
volevano fare capolino, ritornò sui suoi passi, rientrando
finalmente a casa.
Si gettò sotto la doccia, cercando conforto nel calore
dell’acqua, non aveva avuto tempo per preparare la
vasca: aveva così tanto freddo, fuori e dentro di
sé.
Perché era ricomparso? Perché aveva voluto
turbare la sua routine per poi andarsene?
Rabbia, provava tantissima rabbia, e piangeva, di nuovo, lasciando che
il getto dell’acqua lavasse via le sue lacrime.
Uscì dal bagno secoli dopo, o almeno così le
sembrò, e controllò, per scrupolo, il cellulare,
trovando diverse chiamate perse da un numero sconosciuto.
Era stato lui a chiamarla? Maledicendosi per non averlo portato in
bagno, richiamò all’istante, ma non fu lui a
rispondere.
Era una voce di donna, una voce che le ricordava qualcuno, ma era roca
e spezzata.
“Chi parla?” Chiese, stupidamente.
“Cat, sono Lucia… Mi dispiace darti questa
notizia… ma… oddio, non ce la faccio.”
Lucia, la sua amica, la sua compagna di banco, quella che era una
sorella per lei, e che era stata allontanata, come tutti gli altri.
“Che è successo Lu?” Un tremendo
presentimento la avvolse.
“Filippo… lui è…morto,
Cate…” E la sentì piangere.
“NO! Io… io ci ho parlato, no non è
possibile! Quando è successo?” Urlava, respirava a
fatica, tutto si annebbiava intorno a lei.
“Un’ora fa, Cate, siamo in ospedale…
lui, non ce l’ha fatta…”
Guardò l’orologio, cercando di dare una
collocazione temporale agli eventi: era stata quasi un’ora in
bagno. Come era possibile?
“Lu… io… non capisco! Come è
successo?” Se avesse sentito la parola incidente stradale la
sua vita sarebbe finita per la seconda volta, ma definitivamente.
“Aneurisma cerebrale… era congenito, ma non lo
sapeva… aveva solo mal di testa ultimamente. Cate,
lui stava bene! Ieri sera eravamo alla laurea di Ste!” La sua
amica era quasi isterica, ormai.
“Ieri sera?” Non riusciva a capire più
nulla.
“E’ stato male ieri notte, l’hanno
portato in ospedale d’urgenza e l’hanno
operato… ma è entrato in
coma…” Lucia piangeva di nuovo e con lei anche
Caterina.
Non l’aveva visto davvero, lui non poteva essere stato da
lei, Caterina stava semplicemente impazzendo.
Il funerale fu straziante, ma cercò di non isolarsi, rimase
con i suoi vecchi amici, che la abbracciarono come se non
l’avessero mai persa.
Quando si salutarono promise che si sarebbe fatta viva, e ne aveva
davvero intenzione; nelle notti insonni era giunta alla conclusione di
aver immaginato tutto, quella sera.
Mentre rientrava a casa, con il taxi, vide dal finestrino la stazione
dei treni.
“Aspetti, si fermi!” Le uscì di getto;
il tassista la guardò malissimo dallo specchietto
retrovisore, ma la lasciò scendere, promettendo di
aspettarla, con il tassametro sempre in moto chiaramente.
Ad ogni passo sul lucido pavimento della sala arrivi e partenze si
sentiva sempre più stupida, ma non voleva restare per sempre
con il dubbio.
Ecco: era di fronte all’armadietto metallico numero venti;
sicuramente componendo la sua data di nascita non sarebbe accaduto
nulla.
Invece, lo sciocco sordo la lasciò stupita e le permise di
aprire lo sportellino.
Uno zainetto blu le si presentò davanti: con mano tremante
lo prese e richiuse l’armadietto; corse verso il taxi,
inquieta e timorosa di guardare all’interno.
Fu soltanto nella sicurezza della sua casa, al tavolo della cucina, che
si costrinse ad aprirlo.
Era lo zaino di Filippo, riconobbe subito la sua calligrafia dal blocco
degli appunti; un libro letto a metà, un ipod rovinato e
scolorito ed una bottiglietta di gatorade.
Se aveva sognato tutto, se aveva immaginato tutto, come faceva ad aver
trovato proprio lo zaino di Filippo? E perché la
combinazione dell’armadietto era la sua data di nascita?
Era vero che non l’aveva dimenticata, oppure quello zaino era
abbandonato là da anni, e lei aveva solo ricordato una
vecchia conversazione sepolta nella memoria?
Quell’idea venne spazzata via quando nella tasca anteriore
trovò uno scontrino del Mc Donald’s, datato pochi
giorni prima della sua morte.
C’era anche qualcos’altro: una schedina del
superenalotto. Sorrise, scuotendo la testa, non ce lo vedeva proprio a
giocarla, non il Filippo che conosceva, ma probabilmente non era
più quel ragazzo.
E non avrebbe mai potuto conoscere l’uomo che era diventato.
Stremata, crollò a piangere, tenendosi le mani al viso,
dando libero sfogo ai singhiozzi convulsi.
Tutto rimase in quella stessa posizione sul tavolo, ritrovò
gli oggetti a fissarla, diverse ore dopo, quando si era un
po’ calmata, dopo una breve dormita.
Si fece coraggio e aprì il blocco degli appunti, ricalcando
con la punta delle dita le parole scritte da lui, come se potesse
sentirlo.
Erano schizzi e progetti, stava per laurearsi in Architettura, ma
sarebbe stato anche un bravissimo artista, ricordava ancora
perfettamente i suoi disegni.
Scorrendo le pagine, tra note e progetti, trovò un foglio
staccato, che non c’entrava nulla.
Era un ritratto, il suo ritratto: era lei a diciotto anni.
Le si strinse il cuore: lui non l’aveva mai dimenticata,
così come lei non aveva mai dimenticato lui, al punto da non
aver mai avuto il coraggio di gettare il biglietto del treno di quel
giorno al mare, perché era seduta accanto a lui
all’andata.
Sopraffatta da troppe emozioni, si lasciò andare sul divano,
fissando il vuoto per interminabili minuti, finché si decise
ad accendere la televisione, sperando che il rumore fastidioso le
togliesse la capacità di pensare.
Trovò proprio la trasmissione con l’estrazione dei
numeri del lotto e ascoltò distrattamente, mentre una strana
idea le balenava nella mente.
Tornò a prendere il tagliando giocato da Filippo e
cercò su Internet i numeri delle precedenti
estrazioni… aveva vinto. Un milione di euro.
“Shhh, non
piangere, andrà tutto bene, fidati di me.”
Era questo che intendeva quell’ombra che lei temeva di aver
soltanto immaginato?
Ma non poteva accettarli, non erano soldi suoi.
L’indomani si vestì e, facendosi coraggio, si
presentò a casa dei genitori di Filippo.
Rimasero sconvolti dal racconto della ragazza, e ancora di
più da quel tagliando comparso dal nulla; ripresisi dalla
sorpresa, insistettero perché anche lei avesse una cospicua
somma di denaro: se non fosse stato per lei, infatti, non avrebbero mai
ritrovato quello zaino, né tantomeno quel tagliando.
Caterina aveva una sua morale, una sua etica, perciò
cercò di rifiutare, un paio di volte.
Ma i soldi le avrebbero davvero fatto comodo, e la madre di Filippo non
faceva che ripetere che quello era il volere del figlio; era una donna
molto spirituale e credente, lo era sempre stata, e anche Cate
ricordava di averla sempre vista al primo banco in chiesa, le rare
volte in cui c’era andata anche lei.
Tutto sarebbe andato bene, cominciava a convincersene anche lei, e non
solo per i soldi che aveva accettato; si era decisa, finalmente, a
riallacciare i rapporti con i vecchi amici, rivisti al funerale di
quello che ormai era diventato, a tutti gli effetti, il suo angelo
custode.
Quando arrivano quei soldi, piovuti letteralmente dal cielo, prese una
decisione folle: avrebbe aperto il Ristorante che i suoi genitori
avevano sempre sognato; indirizzata dai genitori di Filippo, era
andata, perciò, allo studio dove lui stesso faceva il
tirocinio.
Uno degli architetti più giovani sembrava quasi conoscerla:
qualcuno gli aveva parlato di lei, facile intuire chi fosse stato.
Con mesi di sacrifici, alleggeriti dal denaro a disposizione,
finalmente il Ristorante venne inaugurato; per ringraziare Riccardo, il
giovane architetto che aveva lavorato al progetto insieme a lei, anche
per nottate intere, lo invitò alla cena di inaugurazione.
Sì, tutto si sarebbe sistemato.
“Mamma, si è spento di nuovo il lampione che ti
piace tanto.” La sua piccola Sofia, sta scrutando fuori dalla
finestra di casa.
Sono passati dodici anni, ma ancora Caterina non ha perso quella
piccola mania: ogni volta che il lampione, quel lampione, si
spegne, costringe il suo povero marito ad andare a tormentare in Comune
chi di dovere.
Ormai sono tutti abituati a quella stranezza, tanto che basta una
telefonata per accontentarla; certo, il fatto che il marito di Caterina
sia a capo dell’ufficio tecnico comunale aiuta.
“Riccardo, si è spento il lampione!”
Urla dal piano di sopra.
“Va bene, amore, ho capito.” Gli risponde lui,
paziente come sempre.
“Mamy, è vero che sotto quel lampione
c’è un angelo?” Le chiede, saltellandole
incontro, la sua secondogenita.
“Sì tesoro, gli angeli esistono.” La
bambina le sorride, raggiante, e si sporge per farsi prendere in
braccio.
“Mamma! Non trovo le scarpe da calcio per domani!”
La pace è un miraggio in quella grande casa, ma Caterina non
si lamenta: per troppo tempo è stata vuota e silenziosa.
Con la piccola in braccio raggiunge la stanza di suo figlio, piccolo
calciatore in erba per diletto.
“Filippo, tesoro, sono nello sgabuzzino! Te
l’avrò ripetuto mille volte!” Lo
riprende.
“Uh è vero!” Le sorride con quella
facciotta da schiaffi.
“Sofi amore, è ora di andare a dormire.”
Avvisa la figlioletta, scoccandole un bacio sulla guancia.
“Mamma, posso usare quello zaino blu?” Le urla il
figlio di dieci anni.
“No, Fil, quello è un ricordo della mamma, usa
quello nero in basso.”
Quando, finalmente, la quiete si riappropria della casa, il marito la
sorprende a fissare dalla finestra il lampione spento.
“E’ domani, vero?” Le chiede,
abbracciandola da dietro.
“Sì, domani saranno dodici anni. Vieni anche tu al
cimitero? Ci saranno anche Lucia e i genitori di Filippo.”
Caterina si volge lievemente verso il marito, che la guarda ancora con
lo stesso amore di quella sera dell’inaugurazione al
Ristorante, quando l’aveva baciata la prima volta.
“Certo, amore, se non fosse stato per Filippo io non ti avrei
mai conosciuta. E’ anche il mio angelo custode, non solo il
tuo.”
E’ la prima ad arrivare sulla sua tomba, è sempre
la prima, ogni anno.
Ogni anno lo ringrazia, ogni anno piange, di dolore e di commozione.
Era, persino, voluta tornare un giorno prima dalla luna di miele, per
non dover saltare un anniversario; dodici anni, dodici volte, con
qualsiasi tempo, in qualunque condizione.
Gli aveva presentato i suoi figli, entrambi, quando ancora erano nella
sua pancia; a suo figlio aveva detto di dover essere sempre fiero del
nome che portava.
La sua bambina, invece, si chiamava come la sua defunta madre, e le
assomigliava terribilmente e stupendamente.
Aveva cresciuto i suoi figli con i ricordi di persone che non
c’erano più, ma non si pentiva di aver insegnato
loro a ricordare e a stimare quelle persone che avevano fatto tanto per
loro, pur non conoscendole.
I loro nonni e il loro zio virtuale,
quel ragazzo meraviglioso che un destino cattivo aveva portato via
troppo presto.
“Ciao Filippo, avevi ragione: è andato tutto bene,
ed è solo grazie a te. Mi avevi chiesto di perdonarti, ma io
devo solo ringraziarti. Sono qui, anche quest’anno,
perché non potrò mai dimenticarti. Mai.”
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