(Nda: un paio
d’avvertimenti prima di cominciare :D.
Innanzitutto: questa fanfic è parallela alla mia
“Meant to
Live”; non è necessario averla letta per leggere
questa. Per chi l’avesse già
letta, la fanfic tratta essenzialmente la stessa storia dal punto di
vista però
di Ichigo, ed è anche questa quasi totalmente introspettiva.
È lunghetta, vi
avverto: a me come sempre sembra di aver sì e no introdotto
la cosa, ma io ho
problemi *_*’’ spero che non vi farò
rimpiangere il tempo speso a leggerla ._.
Nei miei progetti questa sarebbe finita appunto come
capitolo successivo di “Meant to Live”, ma poi
questa è stata inserita tra le
storie scelte dall’amministrazione e non ho ritenuto giusto
appendervi un
capitolo che non era stato valutato per questa scelta.
Poi: questa fanfic è scritta in prima persona. È
impossibile
scrivere un testo introspettivo che risulti espressivo e soprattutto di
questa
lunghezza usando l’esatta parlata di Ichigo; Ichigo parla
quasi sempre nei
dialoghi e raramente vediamo monologhi interiori, però,
quando ci sono stati,
mi sembrava di aver visto un Ichigo anche abbastanza poetico
O.o’’. Comunque il
succo è che vi prego di considerare i concetti
più che la parlata XD quella ho
cercato di riprodurla fedelmente nei dialoghi.
Infine: qualcuno nelle recensioni di “Meant to
Live” ha
trovato che Ichigo agisse in un modo non consono alla natura del
personaggio.
Non intendo contestare questo giudizio, ognuno ha le sue opinioni su
quello che
un tale personaggio farebbe o non farebbe in una data circostanza, ad
ogni modo
non ho ritenuto necessario segnalare negli avvertimenti
l’OOC, perché il
regolamento lo definisce così:
Quando
nella fic il
personaggio descritto ha un carattere totalmente diverso o addirittura
opposto
a quello dell'originale
Nelle parti
di dialogo ho cercato di tener fede al
“comportamento”, al “modo di
fare” del
personaggio, del tipo, mi premuro di evitare un Ichigo fluffoso o una
Orihime
che rutta e sputa per terra :D ma le “azioni” che
potrebbero compiere o non
compiere, specie in un contesto inesplorato, sono un discorso che
ritengo
totalmente soggettivo: per me non farebbe alcune cose, per altri non ne
farebbe
altre, questione di interpretazioni :/. Naturalmente ognuno
è libero di avere
le sue, solo che non sono questi i casi in cui ritengo di dover
segnalare
l’OOC.>
Quasi
dimenticavo: grazie a Tori Amos per titolo.
E ora la
pianto di blaterare e vi lascio alla fanfic XD.)
Guardavo gli alberi, in autunno, i
rami che ricamavano il
cielo.
Guardandoli pensavo alla vastità del mondo, alle stagioni,
all’intensità di quell’aria fresca e
pungente che mi toccava le guance mentre
tornavo a casa da scuola.
E un pensiero mi fulminava, mi attraversava il corpo con una
scarica di dolore come corrente elettrica: Rukia era sparita da tutto
questo.
Eppure, inspiegabilmente, mi sembrava che ci fosse. Che ci
fosse dentro quei rami che dondolavano dolcemente in lontananza,
nell’azzurro
di quel cielo che si stagliava davanti a me… la vedevo, no,
la sentivo
nelle gocce di rugiada, nelle case bianche e nei
loro giardini; nei gradini della metropolitana, nei fiori sui bordi dei
marciapiedi, nel diramarsi delle strade..
La vedevo dappertutto… perché era lì
che la cercavo. In ogni
singola cosa, in tutto quello che mi circondava, io cercavo lei.
Perché non
potevo cercarla da nessun’altra parte. Perché
speravo che, se avessi guardato
ovunque, prima o dopo forse l’avrei ritrovata.
Non ero mai stato capace di
“accettare”.
Piuttosto avrei combattuto fino a perdere la vita mortale e anche
quella
immortale, ma arrendermi e subire la decisione di qualcun altro, no,
quello non
ero in grado di farlo.
Ma con lei sono sempre stato costretto ad arrendermi.
Ho dovuto “accettare” che piombasse nella mia vita
con un
balzo così come ho dovuto “accettare”
che se ne andasse nello spazio di
quell’istante nauseabondo, fisicamente doloroso anche nel
ricordo. Capii subito
che non c’era nulla che potessi gridare per combattere la sua
morte. Avrei
potuto trafiggere tutti con la mia zanpakuto, ed è in effetti
ciò che feci, ma questo non servì a riportarmela,
lo
compresi anche allora.
Rukia era già morta quando l’avevo conosciuta; di
lei era
rimasta soltanto l’anima. Ma quell’anima,
quell’unico filo che la legava al
mondo, le fu portata via quel giorno dei miei sedici anni, e in quel
momento io
seppi che mai, in tutto lo spazio dell’eternità,
avrei potuto rivederla,
parlarle, correre con lei.
Che importa la morte, avevo sempre
pensato, quando esiste la
promessa che un giorno, nell’estendersi infinito dei secoli...
Nel passare
degli anni avevo dimenticato qualcosa; qualcosa
che mi aveva ferito, all’epoca in cui persi mia madre, forse
più della morte
stessa.
C’erano, certo, il dolore, l’impotenza, la
solitudine, e mi
avevano schiacciato faccia a terra in un modo che dopo sette anni
ancora era
capace di piegarmi in ginocchio. Ma sapevo, in fondo al cuore, che
c’era
qualcos’altro.
E che c’era una sola cosa al mondo da cui non era possibile
tornare indietro.
La consapevolezza.
Sapere nel profondo del cuore che anche la perdita era
possibile.
E allora scendevo al fiume, nel parco
dove mi spiegava come
combattere gli Hollow, ma non era abbastanza. Allora me ne andavo al
mare.
L’attrattiva del mare, per me, era quella di regalarmi un
ultimo orizzonte.
Ma non solo.
C’era un motivo se vagavo vicino al fiume, se prendevo il
treno per il mare, se alzavo sempre lo sguardo verso il cielo. Io
cercavo altri
posti, altri luoghi. Volevo andarmene; andarmene da Karakura, dove
stava
definitivamente mettendo radici un me stesso tetro, distrutto, quasi
robotico,
e trovare un posto dove una nuova linfa mi ristorasse, un nuovo sole mi
bagnasse, nuova rugiada mi scivolasse addosso. Un posto dove potessi
rinascere.
Dove Ichigo fosse qualcosa di diverso da quello che ero diventato; non
importava cosa sarebbe diventato, purché fosse diverso.
Ero pronto ad andarmene per sempre; la consapevolezza mi
premeva addosso, ricordandomi che non potevo lasciare i miei ricordi
chiusi
nell’armadio assieme alle vecchie magliette, che li avrei
avuti aggrappati alle
spalle per tutta la vita; ma decisi che avevo
“accettato” fin troppo per le mie
capacità, e che quindi volevo essere totalmente
inconsapevole.
Il vuoto dell’inconsapevolezza mi suonava come una
benedizione, come se le campane suonassero a festa per un nuovo
battesimo.
Ma poi vidi gli occhi pieni di
lacrime di Yuzu, e vidi
quelli asciutti di Karin, arrabbiati, sempre arrabbiati; dietro a
quelle due
paia d’occhi si nascondeva una tristezza gemella, un rifiuto
contro il mondo
e contro quello che
nel mondo
accadeva.
E poi gli occhi profondi di mio padre, dietro i quali ora
scorgevo una distesa lontanissima di paesaggio deserto, simile alle
sabbie di
Las Noches.
Rukia se n’era andata e io avevo deciso di fuggire, ma se io
me ne fossi andato, poi dove se ne sarebbero andati loro? Che diritto avevo io di
togliere loro un figlio e
un fratello, di portarlo lontano e non restituirglielo mai
più?
Possibile che anche stavolta non riuscissi a far qualcosa
per le persone che amavo?
Perciò rimasi.
Rimasi, per non dover vivere con il pensiero che Karin mi
cercasse nei rami degli alberi, Yuzu nel cielo azzurro, mio padre nelle
case e
nei giardini.
Ma la vita è un gioco di perdite e sostituzioni, e lo
sarebbe rimasta anche se io avevo deciso di restare. Rukia aveva
sostituito
Kaiendono, io dovevo sostituire Rukia, la mia famiglia doveva ora
sostituire
me, che, benché vivessi nella loro stessa casa, in fin dei
conti era come se me
ne fossi andato.
Sì; era un gioco di perdite e sostituzioni, senza
interruzioni della catena. Il primo anello è il
più importante perché ha
l’enorme vantaggio di non dover scacciare il ricordo di
nessuno.
Perdonami per averti resa
l’ennesimo anello di questa catena
infinita di dolore.
Che, esattamente come quella del fato, nel momento in cui
viene recisa libera tutto l’odio e il rimpianto e la
disperazione.
Perdonami per non aver avuto il coraggio di interromperla.
Ma come sette anni prima non riuscivo
a far altro che
vagare, scendere al fiume e chiedere a me stesso, a mia madre, agli
alti fili
d’erba perché non fossi riuscito a proteggerla.
“Mi ha dato un potere proprio perché riuscissi a proteggere stringevo i denti
“e invece proprio lei… proprio
lei, io…”
Non sapevo rispondermi. Mia madre taceva e sorrideva tra le
nuvole bianche e luminose. I fili d’erba frusciavano alla
carezza del vento,
alzando un profumo di natura e qualche petalo di margherita, ma non mi
dissero
mai cosa non andava in me.
Lo chiedevo quindi al fiume, sperando che l’intersecarsi
lieve delle onde scrivesse una risposta. Ma il fiume scorreva. La mia
vita
stessa continuava a scorrere, ma la risposta non arrivava.
“Perché non sono riuscito a proteggerla?”
Ma ancora dovevo alzarmi tutte le mattine per andare a
scuola, ancora dovevo studiare per non dover ascoltare ramanzine in
presidenza
– come se, giunti a quel punto, me ne fosse importato
qualcosa – e
ancora dovevo fare colazione e pranzare e cenare con la mia famiglia,
cercando
di parlare, di dire qualcosa – ma cosa? La mia bocca sembrava
essersi
inaridita. Non c’era nulla nella mia testa, e quello che
c’era non mi sembrava
abbastanza valido da essere detto ad alta voce.
In realtà, nella mia mente risuonava sempre la stessa
domanda.
Non mi dava pace, mi tormentava giorno e notte. Non c’era
minuto che potessi passare libero da quella domanda. Puntualmente, come
una
scossa, il pensiero della sua morte mi percuoteva da capo a piedi e mi
costringeva a tornare al mio dolore, e io ero felice di tornarci perché
ero sicuro che fosse mio dovere concentrarmi su quel dolore,
gettarmi tutto intero
in pasto ad esso.
Lasciavo che mi divorasse, quasi sperando di trovare una
redenzione in quel mio abbandono alla sofferenza.: se mi fossi lasciato
distruggere, allora forse poi avrei potuto perdonarmi. Solo allora
avrei pagato
davvero per quello che avevo fatto – per quello che non avevo fatto.
Due donne: due sole donne ho amato in vita mia.
Non l’ho mai avuto quel coraggio che tutti vedevano in me,
mai. L’ho chiesto in prestito ad altri; e due volte gli dei
hanno mandato al
mio fianco qualcuno che immergesse le sue mani candide nel mio petto
per
cercarlo, e poi posarlo delicatamente sulle mie mani spalancate.
Io, che coraggioso non ero mai stato, ho avuto a fianco a me
le due donne più coraggiose che abbia mai incontrato.
O forse no. Rukia era una codarda come me, in fondo. Forse
proprio per questo sapeva quanto avessi bisogno di qualcuno che mi
dicesse che
invece potevo vincere, potevo diventare forte, potevo, potevo, potevo.
Avevo passato anni grigi, colorati solo dalle risse con i senpai, dalle discussioni con i
docenti, dalla confusione
di amici e familiari che faticavo a sopportare come se avessi avuto
timpani
troppo sensibili, che amplificavano i sussurri in urla assordanti.
Coloravano un poco la mia vita, sì, ma di colori scuri. Blu
profondo, nero opaco, rosso purpureo.
E dopo quei sei lunghi anni grigi, ecco che arrivava un
raggio di luce: qualcuno che si era preso il disturbo di guardare
dentro di me
e di cercarvi il vero coraggio, non la
spacconeria che a quindici anni ostentavo nei litigi con i teppisti del
quartiere.
Quello non era coraggio: era la corazza che m’ero costruito
attorno a furia di
botte, uno strato di callo infrangibile che serviva a dare a me
l’illusione di
non venire ferito, e ai miei avversari quella di non poter ferirmi.
Ma la verità è che mi ferivano ogni volta, e ogni
volta
indurivo di più la corazza per convincermi che toccarmi non
era possibile. Per
convincere anche gli altri. Molti ci hanno creduto; ci hai creduto
anche tu,
Inoue, purtroppo. Perciò non ho mai potuto darti
ciò che da me cercavi.
Due sole donne ho amato in vita mia: e le ho amate perché
sono state le uniche che abbiano guardato quel bambino che piangeva
spinto a
terra da qualcuno di più forte.
Fino a che non è comparsa Rukia nella mia vita mi sono
sempre sembrati tutti infinitamente più forti. Come ho detto
una volta a
Ichimaru, ogni lotta era guidata dalla disperazione che avevo dentro:
era una
scommessa contro un destino che mi sembrava sempre avverso a me.
E c’era Chado al mio fianco, ma era appunto al mio fianco,
un compagno guerriero. Davanti a me non c’era mai una schiena
che si stagliasse
a proteggermi; c’erano solo i nemici, e un amico che come me
cercava di
affrontarli con i pochi mezzi che aveva.
Due donne, due sole donne ho avuto il coraggio di amare.
Due soltanto. Ed entrambe le volte me le hanno portate via.
C’eri anche tu, quel
giorno, dietro di me. Come sempre,
dietro di me. Non te ne faccio una colpa; so che se avessi potuto
saresti stata
al mio fianco anche tu.
Ma lei non si accontentò di stare al mio fianco e si
lanciò
contro di lui. Non amava farsi difendere. Lo ricordi, no? Quanto
scalciò e
gridò e pianse, tempo prima, perché me ne
tornassi indietro, perché la
lasciassi morire nel Seireitei, Ricordi quando mi dicesti che non
importava
vincere, purché non mi lasciassi massacrare da Grimmjow?
Anche lei mi disse che non importava, che lei poteva anche
morire, purché non mi lasciassi fare a pezzi da Senbonzakura.
Ha sempre avuto quella sciocca convinzione che la sua vita
non valesse la pena di combattere contro chi voleva porvi fine. Come se
gliel’avessero data per caso e lei l’avesse portata
avanti senza troppa
convinzione, in attesa che qualcosa finalmente la interrompesse. E
avrebbe
fatto di tutto pur di non dover affidare ad altri il peso di quella sua
esistenza,
già troppo pesante anche per lei.
Vedi; io ero pronto a prendermene cura al posto suo, di quel
peso. La vita le era odiosa? D’accordo, allora
l’avrei fatta fiorire e cantare
e risplendere, qualunque cosa mi dovesse costare.
Ci contavo, capisci? Pensavo che un giorno anch’io sarei
salito lassù in cielo, e poi un giorno mi avrebbero fatto
ridiscendere qui, e
io magari sarei stato un uomo un po’ più forte,
meno indebolito dall’amore e
della nostalgia, e lei sarebbe stata una donna più serena,
senza le tracce di
quel dolore identico al mio; il rimpianto, la colpa, la vergogna di
essere
sopravvissuti.
O forse, sepolto nel mausoleo delle nostre anime avremmo
conservato il lontano ricordo di quelle ferite, e proprio grazie a
questo filo
invisibile ci saremmo ritrovati; i nostri identici vuoti sarebbero
tornati a
incastrarsi l’uno nell’altro, come lo ying e lo
yang, e noi avremmo saputo che
c’eravamo già incontrati. Che c’era tra
noi un legame che superava e travolgeva
i limiti dello spazio e del tempo. Avrei riconosciuto il suo profilo
nella
città affollata tra venti, cinquanta, cent’anni, e
un lampo mi avrebbe
attraversato la visuale e io avrei capito che era lei, lei,
l’unica che il
destino avesse voluto affiancarmi.
Un giorno, forse, potrò ritrovare mia madre: e so che
sarà
lei quando vedrò un dolce sorriso e una mano tesa verso di
me, pronta a
rialzarmi. So che tornerà. So che può tornare.
Ma lei, lei non tornerà mai e quel giorno la sua anima
è
svanita tra le mie braccia come polvere argentata; è morta
allo stesso modo
silenzioso di Ulquiorra, con la classe di una nobile fino
all’ultimo istante.
Cos’è, l’anima? Cosa rimane di noi, una
volta sepolte le
nostre spoglie mortali?
Ricordi, gioie, dolori, angosce, aspettative, delusioni,
speranze, ferite, successi. Tutto ciò che era rinchiuso in
Rukia si è dissolto
nel nulla dell’eterno, senza che potessi fare niente per
fermare tutto questo.
Ancora una volta.
Di nuovo davanti ai miei occhi.
Mi è sempre sembrato che il mio destino fosse quello di
perdere qualcosa d’importante.
L’attimo della morte
è breve.
È così breve, in effetti, che non ero ben certo
che fosse
davvero accaduto. La morte, devo aver pensato, è troppo
immensa perché tutto
accada in uno spazio tanto piccolo, così tanto piccolo che
se non stai attento
quasi non lo vedi. Così pensavo. Quella volta,
benché i miei occhi avessero
visto quell’istante, non ci avevo creduto.
Ma poi i giorni passarono. E ho ricordato che la morte non è
breve: la morte è lenta, logorante, stremante; e una volta
lasciato indietro il
trapasso i giorni si accavallano con una lentezza lacerante.
Lo fanno ancora. Il dolore è forse meno martellante, meno
cocente; ma le ore senza di lei saranno sempre interminabili, come se
avessi
bevuto il veleno del capitano Kurotsuchi. Tra cent’anni
pregherò che quella
lama si sbrighi a trapassarmi il cuore. Mi andrà bene anche
la morte, pur di
fermare questo veleno che mi attraversa le vene e mi impedisce di
respirare,
parlare e vivere.
Perdonami se taccio sempre davanti a te, ma ho paura che se
aprissi la bocca le lacrime inizierebbero a sgorgare. Dubito di essere
in grado
di fermarle.
E tu che hai
perso tutto, nella tua vita, dovresti capire.
Focalizza la scena: a casa cercavo in tutte le stanze,
speranzoso, ma non c’era.
Cercavo una seconda volta, giravo tutta la casa, mi
convincevo che fosse dietro le mie spalle e che mi stesse facendo uno
scherzo,
nascondendosi da una camera all’altra; prima o poi, mi
dicevo, salterà fuori e
mi darà dello stolto, e io le darò della stupida
e tutto tornerà come una volta.
Tendevo le orecchie, in ascolto dei suoi passi impercettibili.
Ma non appariva mai.
Uscivo, giravo tutta Karakura, arrivavo anche fuori città.
Mi fermavo nei parchi, controllavo i cespugli con la coda
dell’occhio, pensando
che fosse lì dietro e che non volesse farsi vedere da me;
fingevo di non
cercarla, di non vederla. Magari allora sarebbe uscita dal suo
nascondiglio,
sicura di non essere vista. E io mi sarei voltato a braccia aperte e
l’avrei
sorpresa esclamando “bentornata!”.
Ma non tornava.
Fissavo insistentemente il cielo azzurro di giorno e quello
blu acceso di notte; speravo che sarebbe precipitata
dall’alto o che l’avrei
scorta mentre balzava agile da un tetto all’altro.
Ma non c’era. Le notti erano vuote e i giorni inquietanti.
I giorni, soprattutto, erano tetri e densi. Plastica rigida.
L’aria era pesante e irrespirabile, a volte
l’angoscia mi levava il fiato e mi
artigliavo il petto convinto che da un momento all’altro
sarei morto, che a
sedici anni sarei morto di “perdita”.
Avevo la costante sensazione che una catastrofe stesse per
accadere. Rukia se n’era andata: il mondo, per quanto mi
riguardava, era sul
punto di finire.
E così ero io.
In quei momenti, nei quali guardavo a
tutto come fossi stato
in coma vigile, tu spingevi per entrare nella mia vita e alla fine hai
abbattuto il muro di cinta; non avendo le forze per resistere alla
pressione,
dopo una breve resistenza ti ho lasciata entrare.
Prima o poi, ho pensato, avrei dovuto lasciar entrare
qualcuno: se doveva essere qualcuno, allora tra tutti preferivo che
fossi tu. E
chi altro poteva essere? Eri l’unica con cui potessi condividere. L’unica che sapesse, almeno in parte,
l’unica che forse capiva
Mi chiedesti di andare al centro commerciale. E ti dissi di
sì, perché, dopo una breve meditazione, non avevo
visto reali motivi per dirti
di no. Dovevo forse negarmi tutto? Era compreso nel processo della
redenzione?
O forse potevo provare a staccarmi per un paio d’ore da quel
dolore che mi
trascinava verso il basso, occhi, spalle, cuore, più forte
della gravità?
Ho avuto una colpa: quella di non saper accantonare. Avrei
dovuto risponderti: “No, Inoue, non posso.
Finirei per farti del male. Mio padre mi ha messo al mondo
così: stupido, e
incapace di dimenticare.”
Non l’ho fatto.
E adesso mi manca perfino il coraggio per chiederti perdono.
Ma te l’ho detto, no? Te
l’ho detto che ho sempre avuto
bisogno di una fonte da cui attingerlo, il coraggio.
Il motivo per cui non ho saputo ricambiarti è proprio che
quella fonte avresti dovuto essere tu.
Ma tu sei fragile.
Lo vedo. Sei fragile come una ragnatela. Invisibile e
leggera, basta un gesto distratto per rovinare il lavoro incessante di
una vita
intera; ti passano attraverso senza vederti, tirandoti fino a
spezzarti. Quel
delicato ricamo di fili lucenti si scioglie senza emettere un suono, si
lascia
morire con una pacata rassegnazione.
E ogni volta l’aracnide paziente la ricostruisce, stringendo
i fili tra i denti e camminando passetto alla volta, ma alla fine, se
non viene
disturbata o interrotta, costruisce una tela meravigliosa di nodi
d’argento,
grande cento, mille volte la sua statura.
Così sei tu.
Ma una ragnatela non è in grado di sostenere il peso di una
vita che affonda come un’ancora di ferro gettata in un
fondale. Come potresti?
Chiedertelo sarebbe crudele.
E Tatsuki non mi perdona per essere debole, e io le do
ragione, cento volte ragione; mi odia dal profondo del suo cuore per
non essere
in grado di proteggere quella sottile ragnatela, e io mi odio assieme a
lei.
Adesso sono io a bucarla ogni volta, a staccarla dalla parete a cui
è
debolmente aggrappata. E tutto quello che mi ritrovo addosso sono fili
luminosi
che brillano per un attimo, per ricordarmi che ci sei, e poi svaniscono
nel
nulla ricordandomi che ti sto uccidendo.
Non ho il coraggio di chiederti perdono perché non esistono
nemmeno le parole. Per dire ciò che ho in fondo al cuore.
Per dire ciò che c’è
nel tuo.
Non esistono parole di scusa per tutto questo.
-Ah… ah!
Ku-Kurosakikun… uh… nh…!
Kuro… Kurosakikun…
Anche in questo frangente, continui a chiamarmi. Continui a
chiamare il mio nome, sempre, come per richiamarmi a te; come a
chiedermi di
rimanere da te, col cuore, con lo spirito, kokoro.
La mia anima va in frantumi ogni volta che realizzo quanta è
la tua paura che io me ne vada lontano da te; che in quei momenti io sialontano da te, in una trance
trasognata che insegue
ancora braccia esili.
Va in frantumi ogni volta che, come succede sempre nel
risveglio, realizzo che anche questa volta stavo sognando.
Nei sogni, le dico tutto
ciò che avevo chiuso dentro di me
quando mi era accanto.
Non tacere mai ciò che il cuore ti supplica di comunicare.
Se ami qualcuno, gridalo.
Fa’ sì che la tua voce lo raggiunga, urla, corri,
combatti.
Ma diglielo. Diglielo prima che se ne vada per sempre. Il tempo che ci
è
concesso è un battere di ciglia.
Mio padre, un giorno, mi disse che il
mio nome designava il
destino di qualcuno che è destinato a proteggere. Eppure,
benché tu sia quella
che più di tutti sembra destinata ad essere protetta da me,
non riesco a
pensarlo quando ti sto toccando.
Sei troppo per le mie braccia.
Sei bellissima, lo so. Ma sei alta, robusta di costituzione.
Il tuo fisico è abbondanza e fecondità; i tuoi
capelli sono lunghi,
lunghissimi, e brillanti; sfavillanti, quasi accecanti.
E sei bellissima.
Ma non sei lei.
Allargo le braccia per stringerti, tendo i muscoli per
sollevare il tuo peso; non riuscirò mai a nascondere il tuo
corpo dietro al
mio. Non sento
di poter coprirti. Non
sento di poterti accogliere nel mio petto come un uccellino nel nido.
È soltanto una sensazione fisica, è solo corpo,
carne e
sangue, ma perché anche il mio corpo mi urla che la rivuole
indietro?
Ho sedici anni e tu sei bellissima. Sei l’unica donna che
possa avvicinarsi alla mia anima senza rimbalzarci sopra e schiantarsi
a terra,
ferita. E per un attimo ho pensato che forse con te ce
l’avrei fatta; che mi
avresti fatto sorridere, che mi avresti donato un po’ di
quella tua allegria.
E l’ho pensato per giorni, settimane, mesi, ma la tua
allegria non si trasmetteva a me assieme ai nostri fluidi corporali. Le
nostre
tristezze anzi si fondevano e si mescolavano l’una
nell’altra; ora come ora, le
nostre anime sono avvelenate fino al midollo, nel sangue ci scorre
implacabile
l’annientamento.
Io cerco ancora qualcuno che mi prenda a calci e mi dica
cos’ho dentro, dato che io non lo so, che mi dica cosa devo
fare e chi sono
veramente, perché, ripeto, io non lo so.
Come posso chiederti che fare? Come posso, quando tu ti
affidi a me, quando sono io la tua
ancora di salvezza?<
Eppure tacendo sto forse facendo un lavoro migliore…?
“Kurosaki, ti ringrazio di
cuore per questa giornata
assieme! Mi sono divertita tantissimo: spero che potremo uscire di
nuovo
assieme, qualche volta!”>
Mi guardavi come se dalle mie parole dipendesse la tua vita
intera.
“C-cioè, se ti va, Kurosaki, è chiaro!
Non voglio
assolutamente obbligarti a fare nulla! Eh eh, sentiti libero di dire
no, non
preoccuparti per me, anzi, dimentica quello che ho detto, ok?
Io…”
“Yo, Inoue. Non agitarti. Possiamo andare ancora al centro
commerciale, se vuoi.”
“Eeeh? Da… davvero ti andrebbe ti uscire ancora
con me? Wow!
Cioè, sarebbe carino. Grazie dell’invito,
Kurosaki.”
E io cercavo di sorridere, perché volevo sorridere di fronte alla tua
vivacità, alla tua
gentilezza; ma non ci riuscivo.
Le labbra non si piegavano. Gli occhi mi bruciavano.
Da quel giorno, non avevo mai trovato qualcosa di così
straordinario da strapparmi allo stato catatonico in cui versavo.
E invece tu… tu sei esplosa in un sorriso così
dolce e
gioioso che, se non avessi avuto un buco nella parte in cui un tempo
c’era il
cuore, proprio come un uomo che tu conosci bene, ti avrei preso il viso
tra le
mani e ti avrei baciata, e ti avrei resa felice come meritavi e meriti
di
essere.
Ma in quei giorni, come adesso, mi sembrava che qualcuno mi
avesse traforato il petto con un braccio, portando via il cuore e
gettandolo a
terra dietro la mia schiena, sanguinante e pulsante.
“Mmh… beh, Kurosakikun, allora… ti
andrebbe se ti offrissi
un the? Prima di tornare a casa?”
Eri strana; strofinavi a terra la punta di un piede, tenevi
le mani dietro la schiena e il capo chino; rossa in viso, sembravi
imbarazzata.
“Beh, sì, non sarebbe male. Sicura che non ti
disturbo?”
“Certo che no! Mai! Ehm… cioè, entra
pure, Kurosaki.
Scusami, la mia casa è un po’ in
disordine…”
Non c’era alcun disordine; in realtà, in quel
monolocale non
c’era quasi niente. C’erano un po’ di
pentole nel lavello e l’uniforme
appoggiata alla sedia, ma null’altro. Era proprio la casa di
chi era arrivato
da poco e non contava di restare.
È l’atteggiamento che hai sempre avuto con tutti:
ti
comporti come se fossi l’ultima arrivata e sembri sicura che
molto presto
qualcuno ti caccerà lontano.
“Permesso.”
“Oh… prego!”
Mi guardavo intorno, incredulo che una ragazza di quindici
anni possedesse così poco. La foto del fratello, i fermagli
con le margherite e
l’uniforme di scuola. Ecco tutto ciò che Orihime
Inoue aveva al mondo.
“Siediti pure, Kurosaki. Che the preferisci? Darjeeling,
Earl Grey, magari un the alla frutta inglese, o… oh,
no!”
“Che succede?”
“Scusami tanto, Kurosakikun! Mi sono dimenticata che io non
bevo mai il the; lo
bevo sempre in caffetteria assieme a Tatsuki, e quindi in casa non ne
ho. M-mi
dispiace tanto!”
“Beh, non è un problema. Fa niente. Hai una
Coca?”
“S-sì…”
Camminavi a sguardo basso, contrita; quasi ingobbita.
Sembravi così triste che mi sono sorpreso.
“Yo; è per non avermi offerto un the che fai
quella faccia
desolata?”
“Oh… no, Kurosakikun; è solo
che… vedi… io… non vorrei che
tu pensassi che è stata tutta una scusa per farti venire
qui!”>
“Eh? Una scusa…?”>
“Sì… per farti entrare in casa
mia.”
“Bah; non ci ho pensato neanche per un attimo. Se vuoi
offrirmi una coca, per me sta bene. Altrimenti, andiamo in caffetteria
e
prendiamoci un the.”>
“Kurosaki” mi sorridevi commossa come se mi amassi
davvero
“grazie”.
So che quelle parole significavano “ti amo”. Lo
sapevo anche
allora. Non sapevo soltanto una cosa: come si potesse evitare di
rispondere a
una frase come questa.
E per non sbagliare ho fatto finta di non averla sentita,
benché urlasse a squarciagola dietro alle tue parole.
“Allora… se… se ti andasse bene anche
una Coca… ti andrebbe
bene lo stesso se rimanessimo a casa?”
Sei arrossita e io, mentre ascoltavo la tua voce farsi un
pigolio, devo aver fatto una faccia abbastanza sorpresa,
perché tu subito ti
sei imbarazzata.
“Aaahh! K-Kurosakikun, i-io… oh, mi vergogno!
Adesso
penserai davvero che volevo farti rimanere qui con
l’inganno!”
“Beh, no, Inoue, non l’ho pensato, ma
effettivamente dato
che continui a ripeterlo inizio a pensare che forse tu vuoi che io
rimanga
qui.”
“N-no! Assolutamente no! Cioè – sì! Sarei felicissima che tu
rimanessi qui! Sarei…
sarei la ragazza più felice della terra! Volevo dire, sarei
soltanto ‘felice’,
ma non ‘esageratamente felice’. Sarei
solo…”
“Inoue.”
“… sì…?”
“Non c’è niente di male a non voler
rimanere soli.”
Abbassasti lo sguardo. Non era quello, lo sapevo.
“Non è quello, Kurosaki.”
“Lo so.”
“Io… vorrei che rimanessi tu. Cerco di non volerlo,
ma… è quello che desidero dal profondo del
cuore.” I tuoi occhi si fecero lucidi. “Perdonami,
Kurosaki.”
“Tsk.” Abbassai gli occhi al pavimento.
“Non c’è niente di
cui devi farti perdonare.”
“Kurosakikun…”
Quante volte te l’ho sentito dire. Il mio nome. Sempre con
quel tono: preoccupato, accalorato, come se ogni volta mi stessi
chiedendo come
sarebbe andata a finire.
Non lo sapevo. Ti giuro che non sapevo che sarebbe finita a
quel modo.
L’avessi saputo, non mi sarei mai alzato per toccarti una
spalla, anche se era solo per cercare di confortarti un po’.
“Oh…!” le tue reazioni sono sempre state
così genuine e
candide “io… non volevo essere patetica.
Kurosakikun, dimentica queste lacrime,
ti prego!”
“Impossibile” scossi la testa.
“Io non voglio che tu mi veda così.”
“Ti ho vista così milioni di volte. Non mi farei
tanti
problemi.”>
“Perdonami, perdonami, Kurosakikun…”
Ti gettasti tra le mie braccia e io, pur accusando il
contraccolpo, ti strinsi in qualche modo, goffo e rigido, come se fossi
stata
fatta di ghiaccio doloroso al tatto.
Piangevi e io chinai il capo sul tuo, appoggiando la punta
del naso e le labbra sui tuoi capelli. Provavo empatia per te. Ed ero
sinceramente addolorato dalle tue lacrime, e commosso dal tuo amore
disperato.
Il fatto che il tuo amore disperato fosse per me, il fatto che non potessi
ricambiarti, in quel momento fuori dal
comune non mi sembrò un particolare tanto importante.
Ma capii ben presto che lo era.
Così come tu, ben presto, capisti per cosa mi chiedevi
perdono. Mi chiedevi perdono per avermi attirato a casa tua ed esserti
gettata
tra le mie braccia, supplicandomi di salvarti. Sapendo che non potevo.
Sapendo
che avevo bisogno per primo di essere salvato, e sapendo da chi.
Le nostre teste hanno gli stessi
colori: i colori del fuoco,
del tramonto, dell’autunno. Quei colori caldi e malinconici
che attirano gli
sguardi, perché rappresentano l’ultima scintilla
di qualcosa di vivo che sta
morendo.
“K…
Kurosaki…”
La tua voce s’era fatta un sussurro mentre alzavi il volto
dal mio petto, fissando gli occhi nei miei. Sulle tue iridi ballavano
riflessi
incerti, instabili quanto i nostri intenti.
“Kuro… sakikun…”
Mi chiamavi ancora.
“Io…”
E chiamavi anche te stessa, per essere sicura di non fuggire
da te stessa anche stavolta.
E poi, un millimetro alla volta, mentre io ti fissavo in
attesa – non mi sembrava che stesse accadendo davvero;
osservavo gli
avvenimenti con approccio quasi scientifico – hai avvicinato
le labbra
alle mie, e quando le hai toccate, e hai visto che non mi scostavo, hai
avuto
un sussulto.
Un sussulto tenero, splendido in una ragazza di quindici
anni che ha vissuto su di sé la perversione.
Ma io ho sbattuto le palpebre e ho registrato quanto era
appena successo nella mia mente. Non mi sembrava nulla di speciale.
Forse
perché non era stato con Lei.
Tu quella prima volta, e a seguire tutte le altre, fingesti
di non vedere ciò che c’era nei miei occhi.
Posasti le labbra sulle mie con
molto più trasporto, gli occhi serrati, come a dire: tutto
ciò che c’è dentro
ai tuoi occhi, adesso io non voglio vederlo.
Non guardammo mai più in fondo ai nostri occhi.
Non guardiamo ancora adesso.
Mi chiedo sempre più spesso se guarderemo mai.
E perdonami se me ne vado ogni volta.
Perdonami, perdonami
se me ne vado.
Ma quando riapro gli occhi, mi risveglio nel tuo letto, e
l’aria è pesante e tra noi
c’è il silenzio, ogni volta realizzo che non posso
lasciarti sola con uno come me. Un idiota senza la forza di fermare
tutto
questo; un imbecille incapace di vivere, incapace di essere un sostegno
per
chicchessia.
E se mi odio io, figuriamoci quanto puoi odiarmi tu.
Se incrociassi la spada con me stesso, adesso, cosa vedrei?
Cosa sentirei? Cosa mi direbbe Zangetsu del mio cuore…?
Tu non mi cacci mai via, anche se so che lo meriterei.
Probabilmente, quand’è tutto finito, esattamente
come me vorrai che me ne vada,
per non ricordare a te stessa quello che stiamo facendo. Quello che ti sto facendo. Quello che ti stai facendo.
Perché me lo lasci fare, Inoue…? È
questo il livello in cui
desideri la mia presenza vicino a te? È questo…?
E perché io me lo lascio fare…?
Un tempo ero capace di darmi un limite, di dar vita a una
risoluzione. Una volta non avrei fatto il codardo. Mi sarei detto che
stavo
facendo una cazzata, e l’avrei smessa una volta per tutte;
forse, non l’avrei
nemmeno cominciata. Una volta avevo questa forza. Lei se
l’è portata via con
sé…?
Forse è soltanto che per me era facile essere risoluto in
battaglia, poiché nella battaglia ho sempre vissuto; ma non
ho mai saputo come
trattare chi non mi attaccava, chi non aveva spada né per
attaccare né per
difendersi.
Aveva ragione Kenpachi. Sono un animale tale e quale a lui.
Sto diventando un hollow
senza maschera, vuoto ancora prima di morire.
Torna, le dico ogni
giorno. Torna, la supplico. Non
lasciarmi qui da solo. Non lasciarmi in mezzo a tutto questo. Senza di
te, non
posso farcela. Senza di te non riesco a combinare niente che non sia un
completo disastro, una disfatta e un disonore.
Voglio accarezzare il tuo visino, guardare i tuoi occhioni
spalancarsi e seguire il riflesso di quei capelli neri. Voglio
stringerti tra
le braccia, incastonarti nel mio petto.
Glielo chiedo ogni giorno.
Torna. Torna. Torna.
Se solo potessi fare qualcosa, qualunque cosa perché
tornasse, la farei. Non importa davvero cosa sia; la farei. Quando i
tuoi cari
sono in vita non capisci che cosa sia l’impotenza di non
poter far nulla per
cambiare lo stato di cose, non capisci come ci si sente quando lo stato
di cose
è ‘non potrai mai più vedere il volto
della persona che ami’. Ora lo capisco. E
se potessi scegliere qualsiasi altro dolore al posto di questo, lo
sopporterei.
Sopporterei tutto. Diventerei forte. Non fallirei in niente. Tutto, per
riaverla qui.
E invece tutto quello che posso fare è cercarla nelle strade
del mondo, sperando che non sia vero che la morte è
irreversibile come ci hanno
sempre raccontato; sperando che fosse una bugia, sperando di avere
ancora
un’ultima possibilità – non la
sprecherò,
prometto ogni volta, giuro che se mi ridate
Rukia non farò
mai più un solo errore.
E quando mi accorgo che queste mie invocazioni non ricevono
risposta, affermo: non è vero. Non è
successo davvero.
Ogni volta credo che domani mi sveglierò e lei
salterà giù dall’armadio; alle volte lo
penso così intensamente che me ne
convinco, perché se non me ne convincessi il solo fatto di
alzarmi la mattina e
dover alzarmi in piedi e respirare sarebbe insostenibile.
Orribile come quei momenti in cui la lucidità prende il
comando e mi accorgo che invece è tutto vero. E che il tempo
non torna indietro.
Non lo farà nemmeno per ridarmi Rukia; scorre impietoso
incurante del pianto
incessante nel mio cuore.
E tutto il resto a paragone mi sembra così infimo che non
posso fare a meno di guardare tutto con aria indifferente.
Ma non voglio, assolutamente non voglio guardare così anche
te. Dimmi che non è così che ti guardo. Non tu,
che sei buona e mi sei sempre
stata accanto; non tu, che sei tra i pochissimi che non voglio ferire.
Dimmi che il mio sguardo non ti attraversa, così come
attraversa il resto del mondo come se fossero tutti ectoplasmi.
Nient’altro che
spiriti destinati a scomparire.
È che vedi, ho paura di
dimenticarla. Se non vive nel mio
ricordo, allora dove? Perciò cerco di conservare quel dolore
nel mio cuore,
perché è lì che lei esiste; non
può continuare a esistere in nessun’altra parte
del mondo o del cielo.
Rinunciare a questo tormentarsi significherebbe che anch’io
l’ho lasciata andare.
Perdonami se non posso. Perdonami se non posso vivere
distante dal suo ricordo.
Lo vedi; lo vedi come sono fatto. Identico a mio padre. Non
riesco a rinunciare nemmeno ai vuoti.
Un giorno diventerò come
lei? Un contenitore pieno di
rimpianti?
Lo diventerai anche tu?
Un giorno questa tua paura di rimanere sola ti ucciderà;
credo che tu ormai l'abbia capito.
Ti ucciderà da dentro, perché ti
maciullerà lo spirito e
disintegrerà qualsiasi tuo accenno di forza
d’animo: quando si dipende dagli
altri e non da sé stessi, sia la solitudine sia la compagnia
possono diventare
condizioni letali.
Ma ti ucciderà anche da fuori, perché tu permetti
al mondo di farti
del male. Intendi lasciar avvicinare chiunque, anche se ti ferisce, pur
di non
dover ascoltare il silenzio…?
Guardati. Guardaci.
Guarda il filmato di quel giorno, guardali, quei due corpi di sedicenni
che
hanno incastonato sul volto lo sguardo di chi ha vissuto
cent’anni, proprio
come Toshiro. Guarda cosa stanno facendo.
Forse, come me, ti ritroverai a pensare che vorresti allungare
una mano e fermarli; presto, prima che imbocchino quella strada che
piegherà la
fronte a terra a entrambi, come se fossero stati colpiti mille volte da
Wabisuke.
“Oh, io…
Kurosakikun..”
Stupore nei tuoi occhi. Probabilmente, ce n’era molto anche
nei miei.
Ma continuavo a tenerti le braccia attorno ai fianchi, e tu
non ti sei ritratta.
Potevo darti quella possibilità di fuggire.
Non l’ho fatto.
Vorrei tanto allungare quella mano.
“Noi…”
Abbassasti la testa; l’abbassai anch’io. I nostri
volti
erano vicini; quando la rialzasti le nostre labbra
s’incontrarono ancora, e
stavolta fu più morbido, più lento. Ti assaggiavo
come si fa con un piatto
nuovo e sconosciuto; tu mi divoravi come se fossi stato il tuo piatto
preferito
che ti negavi da tempo, e che finalmente ti eri concessa.
Le tue mani salirono sulla mia schiena e le tue dita mi
strinsero; l’istinto mi pressò contro di te e,
seppure il bollore delle mie guance
stesse raggiungendo livelli di guardia, strinsi le braccia
attorno a te.
Furono istinto e solitudine a guidare tutti e due verso quel
letto, piroettando avvinghiati, a occhi chiusi e beatamente
inconsapevoli.
Ah, l’inconsapevolezza, il gettarsi con incoscienza: quanto
avevo cercato tutto questo.
Istinto e solitudine; e nel tuo caso a scortarti c’era anche
quel bastardo dell’amore.
Ti spogliai un pezzo alla volta, rivelando le curve che
premevano per uscire dalla trappola dei vestiti; osservai la pienezza
dei tuoi
seni lasciati liberi, la curva decisa dei tuoi fianchi morbidi. Le tue
dita
lunghe mi percorrevano ovunque, ma la mia reazione a quel tocco
sembrava più
fisiologica, scientifica che emotiva: le risposte del mio corpo non
tardarono
ad arrivare, ma furono più una questione di causa/effetto
che di dominio dei
sensi. Però continuai. E tu, ebbra di gioia, lasciasti che
finalmente ti
toccassi, ti guardassi, ti scoprissi interamente per come avresti
sempre voluto
mostrarti a me.
Io ero restio a lasciarmi guardare; non l’avevo mai permesso
a nessuno. Mi ci abituai presto, perché
l’incoscienza ti fa dimenticare anche questo,
e io ad essa mi ero affidato e abbandonato a peso morto.
Fu solo quando, soddisfatto, e soddisfatta anche te, uscii
dal tuo corpo, sporcandoti le cosce di un liquido appiccicoso, che mi
sentii
morire.
Era stata la mia prima volta, ma quando abbassai lo sguardo vidi
qualcuno che non era Lei.
Non riuscivo a guardarti negli occhi. Ma non era un
problema, perché tu facesti il possibile per evitare di
guardare nei miei.
Coltivammo le nostre tristezze distanti, sdraiati uno a
fianco all’altra, il calore residuo dei corpi ancora
palpabile; ma le nostre
menti non erano libere, non erano più adagiate sul soffice
prato
dell’incoscienza. Finiti quei momenti, la pienezza quasi
straripante che avevamo appena vissuto non ci era già
più concessa.
Perciò abbiamo fatto in modo di aumentare quei momenti, di
viverli sempre più spesso; perciò ci vediamo
quasi ogni giorno dopo la scuola.>
Perciò dopo me ne vado. Perché dopo siamo lontani
tanto
quanto prima siamo stati vicini.
So che non basta per ricevere la tua
assoluzione; nemmeno io
mi concederei la grazia, se fossi al posto tuo e dovessi decidere che
farne di
Ichigo Kurosaki: un relitto, un reietto, un moccioso vigliacco che
annaspa in
mezzo al fango.
Passi non saper stare al mondo, ma far degli altri le
vittime della propria stupidità?
Fossi il vecchio me stesso, avrei preso a calci un simile
idiota fino a che non fosse più in grado di rialzarsi.
L’avrei fatto annegare
in quel fango, spingendo col piede sulla sua testa finché
non fosse sparito
dalla mia vista infuriata.
Mi manca, quel vecchio Ichigo che sono stato. E suppongo che
anche a te manchi la vecchia Inoue.
Eppure lo sappiamo, vero?
Non esistono né un vecchio Ichigo né una vecchia
Inoue.
Siamo sempre noi stessi, i nostri stupidi, imbranati noi stessi. Non
siamo mai
cambiati. Ci hanno solo dato un’occasione di sfoggiare il
nostro peggio, e noi,
incapaci di cavarcela da soli, l’abbiamo colta quasi con
sollievo.
Spesso penso che Uraharasan ora mi direbbe che avrei ragione
a cercare una scusa per andare a morire.
Tu, invece, mi diresti che non merito affatto di morire. Mi diresti
che vuoi che viva. Lo so bene, ti conosco, Inoue, se io non sono capace
di
dimenticare allora tu non sei capace di ricordare; non è nel
tuo essere il
serbare rancore. Tu mi assolveresti.
Perché sia la vecchia te stessa sia quella che mi guarda con
quegli occhi tristi oggi è una donna che non è
capace di allontanare.
E io rimarrò sempre un uomo codardo, incapace di trattenere.
Sai anche questo, vero? Anche tu lo percepisci, che queste due vie
sono…
… non, meglio non parlare. Tacciamo anche oggi di fronte
alla verità. Di fronte all’immutabilità
di ciò che il cielo ci ha inflitto, non
vedo perché non possiamo conservare immutabili anche le
nostre insignificanti
esistenze umane.
Ha ancora senso chiedere la grazia?
Forse non c'è grazia per quelli come noi.
Una volta maledetti non esiste una redenzione.
La maschera bianca d’ossa
mi brucia sottopelle come fuoco.
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