NOTA:
Durante le due
guerre mondiali, l’esercito inglese sfruttò la popolazione irlandese come
risorsa a basso costo, da impiegare sia militarmente che nelle fabbriche d’armi.
Scéal Na bhFiann
si
ispira ad un episodio narrato di sfuggita nel romanzo di Fank McCourt Le ceneri di Angela nel quale, in una
gelida mattina dublinese, decine e decine di uomini le cui famiglie sono ridotte
alla fame salgono su un treno per andare a combattere, pur soffrendone, al
servizio della Corona.
Questo breve
racconto non pretende di essere un trattato di storia, sebbene abbia tentato di
curarlo maniacalmente – in una gestazione di quattro mesi – perché risultasse il
più verosimile possibile; principalmente, è stato dettato dalla mia ossessione
per tutto ciò che riguardi la mia Erin [l’Irlanda] e dal mio desiderio sempre più urgente di
dedicarle ogni parola da me scritta.
Confesso di essere
alquanto emozionata nel pubblicarlo, probabilmente perché temo in un certo senso
di non esserne all’altezza, o che risulti superficiale, addirittura privo di
senso; ma altrettanto insensato, credo, sarebbe lasciarlo a languire nei meandri
del mio computer.
Il titolo, in
italiano Storia del Soldato, è un
gioco di parole sul titolo dell’inno nazionale della Repubblica d’Irlanda: Amhrán Na bhFiann, ovvero La Canzone del
Soldato. Era Stair Na bhFiann, finché non mi sono accorta che usare la parola "stair", letteralmente "History", era un errore piuttosto stupido ed ingenuo.
La canzone citata
all’interno della storia, invece, è una Rebel Song scritta presumibilmente da
Dominic Behan, intitolata Come Out Ye
Black And Tans; il testo si riferisce ai tragici eventi risalenti alla
Guerra d’Indipendenza degli anni ’20 [Black and Tans:
Wikipedia]. La foto del fiume Liffey l'ho trovata a questo
link tramite una ricerca immagini di Google; purtroppo non sono in possesso di
credits più accurati.
Infine, un’ultima
precisazione: non posso assicurare, purtroppo, la correttezza grammaticale della
frase in Gaelico che ho inserito; sto tentando disperatamente di imparare questa
lingua meravigliosa, ma da autodidatta è davvero un’impresa quasi
impossibile.
Mi scuso per la
lunga introduzione, ma credo fosse opportuna e doverosa.
Grazie di cuore a
chiunque leggerà.
♣
Scéal Na
bhFiann
Ad Erin e ai suoi eroi.
E ad Ely e Ceci, come sempre.
[…]
My country said
‘Son, it's time to stop rambling, there's work to be done.’ So
they gave me a tin hat and they gave me a gun And they sent me away to the
war.
[Eric Bogle – And
The Band Played Waltzing Matilda]
♣
Dublino,
settembre 1943
Le
acque del Liffey sono inquiete – c’è odore di pioggia, nell’aria. Di lacrime, di
vento, di foglie cadute.
La
piazza della stazione è avvolta in una frenesia feroce di abbracci, addii
gridati e sussurri spezzati nella brezza umida.
«
Forza! Sul treno, avanti, muovetevi! » Lo spiccato accento inglese di quegli
uomini in divisa, sul binario, è un fendente impietoso per tutti: le labbra si
serrano, i muscoli delle dita si tendono sui manici delle valigie in una
contrazione dolorosa.
«
Venti minuti! Venti minuti alla partenza! »
La folla si stringe ancora, l’aria sembra farsi più affilata, e le
voci si accalcano, si rincorrono, senza sosta – non andare, non lasciarci, resta con
noi!
Uno
dei tre soldati accanto al treno accende una sigaretta, chiude gli occhi,
aspira. Accanto a lui, un altro dice qualcosa, e tutti e tre scoppiano a ridere.
Ridono.
La
loro unica occupazione in questa fottuta guerra è riempire interi treni di carne
da macello, di sangue poco prezioso da versare – certo che ridono.
Loro non stanno andando a morire in battaglie che non sono le
proprie, per una terra che non è la propria. Loro hanno qualcuno che li aspetta,
a casa, per stringerli fra le braccia sussurrando “Va tutto bene”.
Va tutto
bene.
L’unica cosa per cui tutti, in questa stazione, darebbero la vita
in questo preciso istante è una misera bugia.
Il
terzo inglese ha l’aria annoiata. Scruta oltre la folla, il suo sguardo corre
lungo i portici e indugia un istante sull’unica vetrata illuminata, quella di un
pub – sul vetro appannato si intravedono ancora, appena sbiadite, le decorazioni
dell’ultimo St. Patrick’s Day, lasciate a languire nella speranza che la guerra
non le strappi via, che il tempo non muoia prima di poterle sfoggiare
ancora.
L’uomo sbuffa, dice qualcosa e torna a guardare i due compagni. Li
vede sollevare un sopracciglio, lanciare un’occhiata distratta al treno e infine
stringersi nelle spalle, iniziando a farsi largo nella calca. In fondo, venti
minuti sono più che sufficienti per una birra e per sottrarsi a quella gelida,
marcia umidità.
Soffocato nella folla, come tutti, c’è lui. Lui ha le guance
scavate e diafane, le labbra screpolate e pallide, come tutti. Il cielo dei suoi
occhi pare sospeso fra grigie nubi di disperazione. Come Dublino.
Gli
inglesi spingono con noncuranza la porta vetrata del pub, e lui li fissa,
lottando contro la radice di un grido impigliata in gola. Come tutti.
Si
volta, e coglie negli sguardi dei suoi amici il riflesso crudele di quegli
stessi vetri che si inchiodano impietosi nelle sue membra. Respira a fondo – non
vuole che la sua voce tremi.
«
Un giro, ragazzi? »
«
Cosa? » Credono che stia scherzando, lo sa. « Adesso?! »
Chiude gli occhi per qualche istante. « Sì, adesso. Solo un giro.
» E vorrebbe tacere quella parola che subito si affaccia nella sua mente, ma la
voce sfugge dalla prigione delle sue labbra senza che possa impedirlo: «
L’ultimo. »
«
L’ultimo. » L’eco mormorato di qualcuno fa ancora più male della propria
voce.
« Sì, a meno che non crediate di potervela spassare, in
Inghilterra. O di trovare una Guinness che si possa chiamare tale. » È un’altra
stilettata per se stesso e per tutti, lo sa e non vorrebbe, ma è una rabbia
affilata a guidare, cieca, le sue labbra. « Loro vengono ad ubriacarsi qui. » Un
cenno sprezzante in direzione del pub, mentre una parte di lui quasi scoppia
silenziosamente in una risata incontrollata. E’ ridicolo. Stanno per andare a farsi
ammazzare, tutti quanti, e loro si preoccupano di non poter più bere Guinness.
Tanto ridicolo da parere una farsa – una di quelle barzellettee sui Paddys
ubriaconi che divertono tanto gli inglesi.
Eppure, non può negarlo, è una consapevolezza che gli stringe lo
stomaco in una morsa agghiacciante.
Perché non avrebbe più sentito sulle labbra quel sapore amaro di
terra bruciata – della sua terra – e
dolce come l’erica danzante nel vento. Perché non avrebbe più percepito quel
tepore così intimo e rassicurante pervadergli le membra – non sarebbe più stato
a casa.
Non
sarebbe più stato a casa.
Assurdo e quasi inconcepibile, ma quel sapore è ciò che il suo
cervello, inconsciamente, associa da sempre all’idea di casa: un puro, immediato
processo mentale che esula dal suo controllo e dalla sua razionalità. Uno
scherzo sadico della mente di un irlandese.
Quando entrano, li avvolge una limpida cascata di musica – note
ridenti riflesse nella curva gentile delle labbra del violinista che, con la
schiena appoggiata al bancone, modella suoni e silenzi, e traccia sentieri di
mondi celati dalle sue palpebre socchiuse, appena tremanti.
Quella musica stride con il gelo assente della strada in un
contrasto che graffia la pelle, senza fare male. E' un conforto tiepido – quasi
dolce.
Poi
d’un tratto tace, e per qualche istante è un applauso a pungere l’aria; lui
sorride e solleva il boccale nella loro direzione – non riescono a sentire
quello che dice, ma leggono il disegno sulle sue labbra, e qualcuno risponde
allo stesso modo, «Slainte! », forse per abitudine, forse per sentire ancora una
volta quel suono scivolare sulla lingua.
Anche l’uomo dietro al bancone accenna un sorriso, ma il grigio
dei suoi occhi non splende: sa che quella sera un altro treno fenderà la nebbia
bassa di Dublino, per non rivederla più. Eppure sorride: « Guinness per tutti,
ragazzi? »
Il
coro di risposte è affermativo, anche gli scettici e gli stoici si sono lasciati
convincere dal familiare sentore che aleggia nell’aria – alcool amaro e dolci
ricordi di sere d’estate sfumate nell’illusione di un rifugio.
Ma
qualcuno aggiunge « In meno di dieci minuti », e l’llusione crepita e svanisce,
troppo fragile per resistere a quell’aspro silenzio di pietra.
Il
violinista sfiora le corde con le dita ruvide di sogni spezzati – sa che forse
solo la musica può fendere quell’aria muta.
Gli inglesi sono seduti in un angolo, lui li fissa – aghi
sfuggenti negli occhi – e parla poco prima che i crini dell’arco vibrino: « Is é
seo daoibhse atá sé. » [*]
Nell’udire le prime note, all’altro tavolo qualcuno applaude
timidamente, altri non possono evitare di lasciarsi sfuggire l’ombra di una
risata, e gli occhi di tutti guizzano immediatamente verso i tre uomini in
divisa. È una provocazione schietta e sincera, nessuno lo negherebbe; ma nessuno
osa definirla inopportuna, mentre quel treno è fermo su binari bagnati di
lacrime e di addii. E non trascorrono che pochi istanti, prima che qualcuno
unisca la propria voce al canto rabbioso del violino, per poi tramutarsi subito
in un coro.
«
I was born on a Dublin street where the
Royal drums do beat, and the loving English feet they tramped all over us…
»
Qualche nota sospesa, e gli inglesi si rendono conto che il coro è
diretto a loro. Non si
guardano. E non li guardano.
«
And each and every night, when me
father'd come home tight, he'd invite the neighbours outside with this
chorus… »
La
tensione tende le dita strette sui boccali, sembra quasi pungere in un soffio di
ghiaccio l’aria d’un tratto tagliente.
«
Come out ye Black and Tans, come out and
fight me like a man! Show yer wives how ye won medals down in Flanders – tell
them how the IRA made ye run like hell away from the green and lovely lanes in
Killashandra! »
I
tre uomini si alzano, gli occhi di tutti seguono ogni loro minimo movimento
mentre si avvicinano alla porta.
«
Cinque minuti. »
Nessuno smette di cantare mentre escono, quella guerra sottile e
intrappolata nel passato è finita, ma ancora una volta è il gelo l’unico
vincitore. Fiele silenziosa, strisciante.
Che, strisciando, annienta.
La
fronte appoggiata al finestrino gelido e sporco, lui lascia che il suo sguardo
affondi nel mare di perla che sovrasta il Liffey, e d’un tratto la
vede.
Le
sue dita sono fili di nebbia d’argento, dolcemente aggrappate alle corde di
un’arpa. Suona, e il vento scuote i guizzi rossi dei suoi capelli, giocando a
rubarle le note. Suona e piange, stille di perla sulla torba umida.
Lui
chiude gli occhi – chissà se le loro lacrime potranno sfiorarsi, scivolando sul
terreno.
Con
uno scossone violento e uno stridio che ferisce come un grido di morte,
improvvisamente il treno inizia a muoversi, e lui smette di respirare in un
impeto di viscerale terrore.
Non
vuole che le sue lacrime siano l’ultima immagine di lei che i suoi occhi possano
catturare.
Vuole un suo sorriso – un’ultima volta un suo sorriso.
«
Erin… » Riapre gli occhi, mentre dalle sue labbra sfugge un grido muto al
silenzio, al nulla, al nero della galleria che il treno imbocca in quello stesso
istante.
Non
la vede più.
[*] « Questo è per voi.
»
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