Non liberarmi mai da questo dolcissimo dolore.
Allora…
premetto che ultimamente sono completamente andata in fissa con questi due! XD
Dopo aver
visto “Alexander” sono rimasta praticamente folgorata, e sono rapidamente
passata dal pairing Ale/Phai a quella Leto/Farrell.
Sono
entrambi coppie che amo visceralmente, ognuna per una sua caratteristica.
Ma venendo
alla fic… è stata scritta di getto alle undici di sera, prodotto estemporaneo
di un’ispirazione improvvisa.
Spero
vivamente che voi tutti mi facciate sapere cosa ne pensate, non sapete come mi
fanno piacere i commenti, anche se sono critiche!
Quindi vi
esorto a lasciarmi un segno del vostro passaggio.
Nonostante
questo, ringrazio anche chi leggerà soltanto senza lasciare niente di scritto.
Grazie
comunque per la pazienza.
Detto
questo,
buona lettura.
Disclaimers: Ammetto di non conoscere
né Jared Leto né Colin Farrell (per mia sfortuna XD). Non conosco le loro vite
e questa storia è puramente di mia invenzione, dall’inizio alla fine: si tratta
di una situazione che probabilmente non si è mai verificata e che, altrettanto
probabilmente, non avverrà mai.
Non liberarmi mai da questo
dolcissimo dolore.
La città,
fuori dal finestrino, corre troppo veloce affinché i miei occhi stanchi possano
afferrare ogni piccolo particolare che la compone.
Il pullman
rimbomba di voci urlanti e di risa quasi sguaiate, ma io rimango in silenzio,
osservando il paesaggio immerso nel silenzio della notte sfrecciarmi accanto.
Gli scossoni della vettura mi fanno sobbalzare, ogni tanto, tuttavia non vi
presto troppa attenzione.
Con le
cuffie nelle orecchie e gli occhi persi tra queste strade che conosco fin
troppo bene, il leggero movimento dell’autobus culla i miei pensieri, i quali
si rincorrono nella mia mente senza che io riesca ad imbrigliarli e tenerli
fermi; senza che io riesca a spegnere il cervello.
Se fossimo
in un libro, o in un film, ti direi che non so come siamo arrivati a questo,
che ti amo ancora e non riesco a capire come faccio a starti lontano.
Ma la realtà
è diversa, Col, terribilmente, irrimediabilmente diversa, e fa maledettamente
paura.
Perché so il
motivo per cui mi trovo in questo cazzo di pullman così fottutamente lontano da
te. Lo so con così tanta chiarezza da farmi quasi lacrimare gli occhi.
E anche se
fa male anche solo pensarci, non posso negare quanto tutto questo sia giusto,
pur nell’enorme dolore che questa distanza mi provoca.
Chiudo gli
occhi, appoggio la testa al sedile cercando di placare il mal di testa che mi
ha aggredito.
Questo
autobus che scorre fra le vie di Dublino, fra le vie della tua città, mi fa
tornare alla mente emozioni, pensieri che ho cercato di cancellare, di
rimuovere dalla mia mente. E invece, adesso che rivedo ad uno ad uno tutti i
luoghi che hanno scandito l’evolversi della nostra storia, o forse dovrei dire
della mia storia, tutto mi riappare
alla mente troppo vividamente per poter essere arginato.
Non ho la
forza di distogliere i miei pensieri, Colin.
Non oggi;
non stasera.
Forse…
Forse non
avrò mai questa forza, almeno non in questa vita.
La luna
piena bagna l’asfalto di luce pallida.
Mi piace, la
luna: ha in sé qualcosa che mi ricorda me stesso con quella sua algida
superbia, quella sua bellezza così esasperante.
E intanto i
pensieri corrono, inesorabili…
Non mi ci è
mai voluto molto per portarmi qualcuno a letto, Colin, lo sai benissimo:
ragazzi e ragazze cadono ai miei piedi con una facilità quasi disarmante.
Ed è
cominciata così anche con te: battute maliziose, sguardi languidi, movimenti
calcolati.
Te l’ho
detto che sei stata la più bella scopata della mia vita?
Quel tuo
modo deciso di condurre i giochi, quella tua ruvidezza tipica di chi se ne
frega del mondo, quella tua voglia di provare piacere per primo… erano qualcosa
che mi mandava fuori di testa, che mi faceva ansimare oscenamente, come una
puttana.
Credo che tu
abbia pensato questo di me, almeno all’inizio: che io fossi uno che da il culo
facilmente, che non si fa mai troppi problemi.
Come faccio
a darti torto? E’ questo ciò che sono.
E’ questo
ciò che ero.
Eppure, dopo
qualche tempo, i miei occhi hanno cominciato a seguirti costantemente anche
fuori dal letto. E non volevo, Dio, non volevo innamorarmi di te! Sapevo che
sarebbe stata una scocciatura per entrambi, eppure il mio cuore non voleva
saperne di stare buono quando tu eri nei paraggi; la mia maschera di rockstar
menefreghista si crepava di colpo quando mi sorridevi, ed io sentivo di volerti
abbracciare così forte da impedirti di respirare.
Non mi ero
mai innamorato sul serio, e affrontare quel sentimento da solo mi spaventava da
morire: la dipendenza che avevo di te, quel mio bisogno esasperante di sentirti
con e dentro di me ogni istante mi terrorizzavano. Non sapevo che fare, come
gestire quelle sensazioni a me così estranee.
E tu non mi
aiutavi: prendevi il piacere dal mio corpo come e quando volevi, senza remore,
senza rispetto.
Oh, certo,
non mancavi mai di farmi raggiungere l’orgasmo insieme a te, ma ogni volta,
dopo, mi sentivo sempre più vuoto, come se ad ogni nostra scopata mi rubassi
anche l’anima.
Mi sentivo
così ridicolo! Così fottutamente stupido!
Mi dicevo
che per te ero solo un corpo da sbattere come e quando volevi, che ti servivo
solo per scaldarti il letto quando nessun altro era disposto a farlo… e dopo mi
dicevo che dovevo tranciare quell’ossessione che avevo, quella dipendenza
malata che mi portava ad accettare quella condizione degradante.
Ma sapevo,
in fondo, che non mi interessava se tu mi consideravi poco più di passatempo:
l’importante era poter stare con te il più possibile.
Del resto
del mondo non volevo più saperne niente.
Ero a
conoscenza del fatto che quella sorta di gabbia in cui mi ero rinchiuso, quel
piccolo mondo all’interno del quale mi ero trincerato, vivendo solo delle
briciole d’amore che mi lanciavi di tanto in tanto, si sarebbe frantumato,
prima o poi.
Lo sapevo, e
cercavo di prepararmi a questa evenienza in ogni momento.
Hai anche
solo una vaga idea di quante volte io abbia provato ad alzare quel maledetto
telefono per urlarti che non ne potevo più di essere fottuto come se fossi uno
straccio vecchio? Non ce l’ho fatta.
Ho continuato,
come uno stupido, a crogiolarmi nel falso calore donatomi dalle tue mani: mani
sapienti, mani stupende. Mani che però toccavano solo la mia pelle, senza voler
andare più a fondo, senza avere la volontà di afferrare il mio cuore.
Eppure io te
lo porgevo, e sarei stato così felice di riporre la mia anima alle tue cure,
Col!
Non l’hai
mai voluto fare. Non hai mai voluto guardarmi veramente negli occhi. Non hai
mai veramente voluto me.
La realtà mi
è stata sbattuta in faccia un giorno come tanti altri. Un giorno maledettamente
normale, eppure così totalmente diverso.
Semplicemente,
dopo aver fatto sesso per l’ennesima volta, mi hai guardato dritto negli occhi
e mi hai detto:
- Ti sei
innamorato di me, Jay, e questo non va bene. Ti voglio bene, non voglio farti
stare ancora peggio di quanto tu stia adesso. E’ meglio per te se smettiamo di
vederci -
Poche
parole.
Poche parole
che, in un millesimo di secondo, hanno distrutto il castello di carta che mi
ero costruito con tanta fatica, e nel quale avevo scelto di credere fino alla
fine.
Non risposi,
non ti guardai, non piansi. Non feci niente. Semplicemente mi alzai e mi rivestii
in silenzio, ascoltando il mio cuore battere lentamente come se arrancasse.
Sentivo il tuo sguardo puntato sulla schiena, e continuai ad avvertirlo anche
mentre mi avviavo alla porta. Poco prima di uscire da quella stanza e dalla tua
vita, mi fermai.
- Da quanto
lo sapevi? – chiesi.
Scegliesti
di non rispondermi, ed io mi aprii in un sorriso amaro.
- Cazzo,
Farrell, stavolta hai superato te stesso – mormorai, quindi aprii la porta e uscii
dalla tua vita.
Quanto tempo
è passato da quell’attimo?
Giorni,
mesi, anni…
Da allora la
mia concezione del tempo è tragicamente distorta: i secondi mi paiono millenni,
i giorni sembrano non finire mai.
La notte,
quando tutto tace, ed io sono preda fragile dei miei dolorosi pensieri, mi
ritrovo a contare i minuti dall’ultima volta che ti ho visto, dall’ultima volta
che ho potuto ascoltare i battiti frenetici del tuo cuore troppo freddo.
E allora, in
quei momenti, mi rendo conto che il tempo trascorso è davvero tanto.
Quasi sette
anni: sette interminabili, lunghissimi, dilanianti, dolorosi anni.
Mentre mi
rigiro nel letto, mille domande affollano la mia mente, e a volte mi chiedo se
non sia stato tutto un sogno. O un incubo.
A volte
fatico a credere che tutto questo sia realmente accaduto.
Ma poi,
quando, alla fine di un concerto, sento un corpo senza nome e senza volto
spingere in me e avverto la disperazione assalirmi, mi rendo dolorosamente
conto che è tutto vero: le ferite che mi hai lasciato addosso, benché non
visibili, bruciano ancora troppo per essere immaginarie.
Sai, non ho
più provato quel calore speciale che solo tu sapevi darmi.
Non è buffo
notare come persone che mi amavano realmente non siano state capaci di
riscaldarmi come facevi tu, nonostante io rappresentassi per te solo un gioco?
Ah, Colin,
la vita è così strana…
Mi sono
innamorato dell’unica persona che non potrò mai avere.
E tutto
questo è così patetico, così banale.
Con un ultimo,
tremante sospiro riapro gli occhi e proprio in quel momento passiamo davanti al
vicolo buio in cui mi hai baciato per la prima volta.
Quando sento
lacrime indesiderate inumidirmi gli occhi, capisco che questo dolore non avrà
mai fine; che questo amore mi piegherà fino a spezzarmi.
E non posso
che attendere con ansia quel momento.
Le urla
delle migliaia di fan che, dall’altra parte del palco, scalpitano impetuosi ed
impazienti, mi stordiscono la mente.
L’ennesimo
concerto, l’ennesima esibizione.
L’ennesima
farsa.
E mi sento
così stanco, Col… soprattutto oggi, soprattutto adesso che mi trovo costretto
ad indossare la mia maschera di rockstar ribelle proprio nella tua città.
Sai, a
volte, girandomi, ho quasi avuto l’impressione di vederti apparire d’un tratto
come un sogno bellissimo.
Naturalmente,
so quanto tutto questo sia inverosimile: dopo tutto questo tempo, non sono
neanche sicuro che tu ricordi il mio nome.
Tuttavia, mi
piace pensare che tu riesca a rievocare ancora la dolcezza dei miei baci, la
dedizione con cui cercavo di fare in modo che tutto fosse per te perfetto.
Vivo di
continue illusioni, lo so, continuo a divorare fantasie su fantasie anche
adesso che non ci sei più.
Ma sono
l’unica cosa capace di tenermi ancora vivo, capisci?
Ne ho bisogno, anche se tutto questo è
squallido.
Ma
d’altronde, chi decide cos’è giusto e cos’è sbagliato?
Una volta
credevo di sapere cosa volevo dalla vita, credevo di saper discriminare ciò che
è bene da ciò che è male: eppure, nel momento in cui mi sono innamorato di te,
questa mia percezione è sfumata come neve al sole, e mi sono reso conto che
nella vita non esistono discriminazioni di questo genere.
Esiste solo
ciò che ci è necessario per vivere e ciò che non lo è.
Ed io so che
ho bisogno di credere che ti ricordi di me; so che se scoprissi che non sai più
chi sono, morirei.
L’entrata
della band viene accompagnata da un frastuono assordante.
Sorrido, la
mia immagine perfetta di star che splende, luccicante, come la luna che ci
sovrasta, guardiana silenziosa di questa notte piena di rumore.
Trovarmi a
cantare a Dublino mi fa sentire strano: questa città ha qualcosa di magico.
Dovrebbe
trasmettermi solo dolore, lontani echi della sofferenza di cui è stata teatro,
eppure mi sento in pace mentre urlo su questo palco.
Perché? La
risposta non è difficile da trovare: perché anche se questa ossessione che
nutro per te, e che non mi abbandonerà fino alla morte, mi fa morire ogni
giorno un po’, so che senza questa non mi sentirei nemmeno vivo. E allora, tra
apatia e sofferenza, preferisco quest’ultima.
Ecco,
quindi, il motivo per cui cantare qui è si strano, ma non sconvolgente: mi
sento un po’ come se fossi tornato a casa dopo un lungo viaggio. So che
probabilmente questa sarà l’ultima volta che un tour dei 30 seconds to mars
farà tappa a Dublino, ma non mi importa di niente, almeno non in questo
momento.
Adesso come
adesso esistiamo solo io e le mie canzoni, io e i miei fan.
Io e i miei
occhi, che non vogliono saperne di guardare al presente e si perdono a
contemplare la luna, che continuano a splendere di un passato ormai trascorso
che non potrà mai più tornare.
Io e i miei
occhi, occhi che sono pieni di te, come sempre; occhi che ti hanno amato, che
ti amano, che ti ameranno per sempre; occhi che non ti vedranno mai più. Occhi
che, al termine di quest’ultima canzone, sono più lucidi che mai.
Dirò ai
giornali e alla mia band che è solo a causa della luce molto forte dei
riflettori, della stanchezza e dell’emozione causatemi dall’amore che ho
sentito i miei fan provare per me.
Si, dirò a
loro tutto questo.
Ma io saprò
che questa lacrima solitaria che mi solca il viso, adesso, è solo per te.
E lo sai
anche tu, tu che mi guardi in silenzio, immobile, dalla prima fila.
Abbasso gli
occhi su di te, fissandoti per un unico istante eterno, poi tu mi sorridi
appena.
Non ho
neanche il tempo di risponderti: nel tempo di un battito di cuore, sei già
svanito fra la folla.
E comprendo
che questo è un addio, quell’addio che non mi hai rivolto mentre mi chiudevo la
porta alle spalle quel giorno.
E comprendo,
mentre i riflettori si spengono di botto per enfatizzare la fine del concerto,
che ho fatto male i miei conti.
Non è vero
che non hai mai preso in mano il mio cuore.
Oh, eccome
se l’hai fatto: me l’hai quasi strappato, e l’hai tenuto fra le dita per molto
tempo.
Poi l’hai
stretto così forte da distruggerlo.
Al buio,
sopra questo palco, con le acclamazioni dei fan che mi riempiono le orecchie e
la luna che illumina flebilmente la notte, la mia voce sussurra una cosa
soltanto, in un mormorio basso, fortemente in contrapposizione con le urla che
hanno caratterizzato quest’intera serata.
- Addio –
E so che,
nonostante il mio sia stato solo un flebile sussurro appena udibile, tu mi hai
sentito.
E mi stai
sorridendo.
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