Disclaimer: i personaggi utilizzati sono copyright di Amano Akira
(e purtroppo, ci avrete sperato, ma sono ancora viva per rendere la vita dei
personaggi un inferno 8D)
Prompt: Se quella freccia aveva colpito me, allora non aveva
colpito nessuno dei miei compagni e questo era l’importante. (Tabella)
Note: questa è una raccolta. O serie, come volete. Tratterà
di nove oneshot, tutte con lo stesso tema (la morte, era intuibile
dall’introduzione probabilmente 8D).
Una per guardiano, dove Mukuro e Chrome ne hanno due
distinte o sarebbe venuto un patatrac assurdo, e una finale ha la sorpresina e
probabilmente sarà una flashfic. Ma devo arrivarci per esserne sicura.
Comunque non odiatemi per tutta questa emoness x°
Ringraziamenti:
a chi ha letto e soprattutto chi ha
recensito “Solo stavolta”, ossia bleachnaruto e pralinedetective <3
Un grazie
anche a Yoko891 che me l’ha commentata in diretta <3
Lui che ne avverte la responsabilità
Se quella freccia aveva colpito me,
allora non aveva colpito nessuno dei miei compagni
e questo era l’importante
Se guardano Ryohei, a tutti loro viene in mente un
adolescente che grida.
Sembra stupido, e in alcuni casi può anche dare
l’impressione di un’associazione un po’ irrispettosa, ma se ci si sofferma a
pensarci un attimo è del tutto naturale.
Sasagawa Ryohei era esattamente quello: il senpai che
tanto senpai non sembrava, che pareva avere l’impulsività nel sangue e a volte
qualcosa che somigliava al voler attaccar briga.
Magari a qualcuno sembrava pure spaventoso.
Tsuna non è molto d’accordo: quando lo guarda, gli
viene in mente la stessa cosa che pensò la prima volta quando il compagno non
era molto di più del “fratello maggiore di Kyoko-chan”.
Ossia che Sasagawa Ryohei è una persona sincera.
Ha quell’indole – quella cosa che sembra un po’
circondarlo, un po’ che venga emanata – che ti mette a tuo agio; non ha il modo
di fare snob di alcuni, e Tsuna è sempre stato convinto che tanti lati del
carattere di quello che sarebbe poi diventato il suo Guardiano del Sole, erano
solo facilmente fraintendibili in altri.
L’impulsività era anche spontaneità.
La volontà di attaccar brighe era solo sincerità
nell’affrontare le cose, perché Ryohei non era mai stato tipo da pensare troppo
a ciò che doveva fare o dire: lui, senza un filtro che collegasse la testa alla
bocca, parlava semplicemente come si sentiva di fare.
A volte forse poteva sembrare rude, o magari poteva
rappresentare un problema perché non era il massimo per mantenere un segreto,
ma con il tempo tutti crescevano e cambiavano e Ryohei aveva capito che c’erano
cose che nonostante la sincerità e la schiettezza non dovevano essere ripetute
mai.
Il Guardiano del Sole, se lo guardavi ora, sembrava
non fosse mai cambiato davvero.
Anche a distanza di più di dieci anni dal periodo
adolescenziale, c’erano cose che nemmeno il tempo aveva reso mutabili.
Per esempio, con Gokudera non aveva mai smesso di
litigare: forse perché erano due teste calde e soprattutto due testardi
cronici. O magari perché, l’uno più “gentilmente”, l’altro molto più offensivo,
erano entrambi troppo schietti per non riuscire a dirsi in faccia di tutto.
Dagli insulti, ai complimenti – quelli di Gokudera
sempre mascherati da sufficienza – ai consigli che ci si dà solo fra amici.
Ryohei era ancora quello incapace di pronunciare una
frase senza piazzarci dentro la parola “estremo”; era ancora la stessa persona
che aveva cuore e fegato di piantarsi davanti ad Hibari e dirgli che sbagliava
– forse più che coraggio era una sorta di complesso masochismo sviluppatosi
negli anni, quello era ancora un mistero in verità.
Lui era ancora a dir poco iperprotettivo con sua
sorella; forse ora arrossiva di meno quando si parlava di lui e di Hana,
insieme, intesi come una coppia – i primi tempi era stato quasi divertente
vederlo accendersi come una lampadina e urlare persino più forte di quanto già
non facesse.
Ryohei, a ben pensarci era un po’ cresciuto, un po’
ragazzino: anche se ancora, tutti lo chiamavano “senpai” o “niisan”.
In un modo o nell’altro.
E dire che quando ne avevano parlato,
Ryohei aveva riso e aveva detto:
“Ce la faremo all’estremo!”
Per un attimo, a Tsuna viene da sorridere.
Non che sia il momento, ma gli è tornato in mente un
fatto.
Ryohei, per forza di cose, si era diplomato l’anno
precedente al loro e c’era stato quindi il periodo della loro terza media che
era coinciso con il primo delle superiori per lui.
La sua scuola non era molto lontana – così gli aveva
detto Kyoko – ed era capitato più volte che, quando gli orari lo permettevano,
venisse ad aspettarli all’uscita in una sorta di richiamo dei vecchi tempi.
O almeno un tentativo di farlo apparire tale.
Inizialmente, Tsuna ricordava quanto fosse stato
facile e logico attribuire la sua presenza in primis al non voler far tornare
Kyoko a casa da sola e poi, ovviamente, anche al voler passare del tempo con
loro.
Tuttavia era stato più certo il primo motivo che non
il secondo, semplicemente perché Ryohei non era un tipo particolarmente
malinconico – forse anche perché non sprecava molto tempo a pensarci più: era
la classica persona che, se gli mancava qualcuno, sarebbe stata capacissima di
andare a trovare il malcapitato anche in piena notte.
Nessuno aveva badato troppo alle volte in cui,
avvicinandosi al cancello, la figura di Ryohei che agitava una mano in loro
direzione era stata riconoscibile, mentre un «Oooohi!» gridato fin troppo forte
e che attirava l’attenzione li aveva spesso messi in imbarazzo nel mezzo del
cortile della scuola.
Poi, un giorno non si era presentato per la sorpresa
di tutti i compagni – tutti tranne Hibari e, naturalmente, Mukuro che non erano
lì.
Tsuna aveva dato voce al pensiero di tutti con un: «Chissà
come mai oggi non c’è.» che era stato seguito da un paio di mormorii e una
risata leggera e divertita, che in breve era stata attribuita a Kyoko, che
aveva portato una mano a coprire la bocca educatamente.
I tre ragazzi l’avevano osservata perplessi e in breve
lei aveva dato una spiegazione.
«Aveva una visita scolastica in città con la sua
classe. Non sapete quante storie ha fatto questa mattina.» aveva detto destando
la loro curiosità e lanciandosi in quella che Tsuna ricordava essere stata una
delle imitazioni più spassose ai danni di Sasagawa Ryohei.
«Un vero uomo non può abbandonare la sorella per una
visita al museo! I fossili dovranno venire da me, per essere osservati mentre
tengo fede al mio impegno di venirvi a prendere all’estremo!» aveva
pronunciato, alterando un po’ la voce – anche se l’effetto non poteva
raggiungere un livello soddisfacente per assomigliare a Ryohei – facendo ridere
di gusto Yamamoto e borbottare contrariato Gokudera.
Tsuna era rimasto perplesso, ma non negativamente.
C’era qualcosa che gli era sfuggito di Ryohei per
tutto quel tempo e che solo quella volta aveva davvero compreso.
Perché anche se parlava spesso senza pensare, non
significava che l’altro abusasse della parole senza conoscerne il peso; se
aveva detto “impegno”, non era stato casuale.
Di quello Tsuna si era accorto mentre Kyoko-chan
raccontava ridendo.
Mentre quelle parole ancora, impietose,
rimbombavano nelle sue orecchie,
Tsuna si guardava intorno,
e si ripeteva che avrebbe dovuto saperlo.
Da quella volta Tsuna aveva guardato Ryohei con un
rispetto nuovo, diverso.
Non era tanto quello che si rivolge naturalmente ad un
compagno più grande, ma somigliava più a quando un amico fa qualcosa per te e
nonostante tu sapessi quanto potesse essere un compagno fedele, ne rimani così
meravigliato che non puoi fare a meno di sorridere e sentirti scioccamente un
po’ in soggezione.
Anche ora, mentre guarda Ryohei che sta in piedi
ferito e gli intima di restare indietro perché “ce la farà combattendo come
sempre all’estremo”, Tsuna non distoglie lo sguardo da lui perché animato dallo
stesso tipo di rispetto.
Anche se deve prestare attenzione alla propria
battaglia, e al tempo stesso ai suoi compagni – se Reborn lo vedesse lo
sgriderebbe, perché davvero non è un lusso che può permettersi quello di non
focalizzare l’attenzione sul proprio avversario – lo sguardo torna su Ryohei
istintivamente.
Parte della Famiglia. Ma anche della famiglia.
Tsuna questa differenza l’ha sempre marcata: spesso
qualcuno l’ha ripreso con un sorriso bonario, fra i suoi sottoposti.
A volte, quando parlava davanti a tante persone e non
usava “Famiglia” ma l’equivalente in giapponese, qualcuno lo definiva persino
carino.
Si confonde
con la lingua madre, è normale, gli viene istintivo, dicevano.
E Tsuna sorrideva; lui non sbagliava, lo faceva
coscientemente e di proposito.
Perché la Famiglia era il legame della Mafia che li
univa tanto quanto minacciava di dividerli con la morte.
La famiglia
invece era un tipo di legame che non era di sangue come avrebbe dovuto essere
forse, ma uno nel quale Tsuna riusciva a riversare molti più sentimenti e
tanta, tanta fiducia in più.
Forse, ingenuamente voleva qualcosa con un concetto
simile ma che il pericolo e la morte non potessero strappare via.
Spesso il lieto fine non esiste.
Tsuna avrebbe dovuto saperlo.
Sente un gemito e incautamente si volta; individuare
il Guardiano del Sole che boccheggia a terra è facile e inquietante per quanto
si rivela semplice.
Concentra le fiamme, scatta in avanti.
Deve salvarlo. Non lo può perdere.
Non può perdere nessuno di loro.
Assolutamente.
Per nessun motivo.
Se morissero, lui che Boss sarebbe?
Se morissero, lui che uomo sarebbe?
Se morissero, lui… che amico sarebbe?
Non può e non deve permetterlo.
Per niente al mondo, perché non c’è niente che valga
la loro vita.
Nessuna Mafia, nessun potere, nessun anello, nessun
futuro.
Nemmeno la propria stessa vita vale la loro; perciò
non fa nulla se il suo avversario sta approfittando della sua distrazione –
tale la crede, lo sente perché lo intuisce,
perché il proprio potere è sempre stata un’arma a doppio taglio a suo dire.
Lo sente, che il colpo di qualcosa parte – non sa se è
l’arma del suo avversario, la sua abilità, o la sua Box Weapon.
A dire il vero, anche se sa che non è molto saggio
ammetterlo né è qualcosa di cui vantarsi, non gli interessa; non riesce a
pensare alla propria incolumità al momento.
Non è masochismo, né voglia di fare l’eroe.
È solo che il Decimo Boss dei Vongola è così, non ci
riesce e basta.
I suoi Guardiani lo sanno.
Anche Ryohei.
Anche se inizia bene,
qualcosa non è detto che debba finire ugualmente bene.
E dire che Tsuna dovrebbe saperlo da quel giorno di
più di dieci anni fa.
Da quando Kyoko-chan ha fatto quell’imitazione e chi
più chi meno ha riso.
Proprio lui che se ne è accorto, avrebbe dovuto
calcolarlo, prenderne atto, immaginarlo.
E fare di tutto per impedirlo.
Lui l’aveva capito, che Ryohei era proprio quel tipo
di persona che sente su di sé responsabilità che nessuno ha mai contribuito ad
affidargli, ma che appartengono a quella categoria che ti addossi da solo senza
chiedere niente agli altri.
E che, se anche ti dicono che non sono cose che ti
competono, una volta che te le sei fatte aderire addosso come un vestito non
puoi più ignorarle o cancellarle.
Che, molto tempo prima, Ryohei aveva deciso di
occuparsi di tutti loro.
Come un fratello maggiore.
Perché probabilmente, proprio lui era stato il primo
ad accorgersene.
Di quanto quella famiglia
fosse importante per tutti loro.
Poi, ci sono quelle volte lì.
Tsuna allunga una mano, ma Ryohei si alza.
Un sorriso sollevato che lo fa sembrare nuovamente un
quindicenne un po’ ingenuotto nasce sulle sue labbra e muore l’istante dopo.
Quando Ryohei stringe i denti.
Vuol dire che ovunque lo abbia colpito l’avversario,
deve far male.
Vuol dire che il sangue che vede, non è un gioco da
illusionisti.
Vede Ryohei allungare la mano, e afferrargli la spalla
con tutta la forza – non ne ha poca, e Tsuna istintivamente chiude un occhio in
un gesto istintivo – e spingerlo via.
Sente il contatto col terreno duro, e gli scappa un
gemito leggero, più che altro quando sbatte la testa.
Si tira quasi subito su però, perché di perdere tempo
non se lo può permettere.
Apre gli occhi, e la prima cosa che vede lo porta a
sperare e pregare contemporaneamente per la prima volta.
Ma qualcosa dentro di lui si rende conto che non
serve.
Quasi gli suggerisce che Dio la Mafia e chi la compone
non la osserva mai – forse punisce tutti i suoi appartenenti per i delitti
commessi proprio così.
E dire che di morti ne ha viste, Tsuna, da quando è il
Boss dei Vongola: ma forse, sono quelle cose a cui non ci si abitua mai.
Ryohei ha un’espressione dolorante mentre una macchia
scarlatta si allarga sotto di lui come una fiume che straborda dall’argine e si
estende ad una velocità nauseante e terrificante.
Tsuna non sa cosa lo spaventa di più: se è la velocità
del sangue, la vista dello stesso, o la consapevolezza che è qualcosa di grave.
Di tanto grave.
Qualcosa che aveva promesso di non far accadere.
Assolutamente.
Assolutamente.
Per nessun—
«Ohi, Sawada…»
Lo fissa, lo ha sentito.
Ma non riesce a muoversi.
«Visto? Ce l’ho fatta… all’estremo, no?»
Se è una battuta, non è in vena.
E se invece è un gioco di parole, beh lui non ce l’ha
la lucidità di risolverlo adesso.
Perciò…
«…fratello, non è divertente.» sussurra.
Infondo, è e rimane un bamboccio questo Boss dei
Vongola.
Ryohei ridacchia, o è a lui che sembra tale quel colpo
di tosse che gli fa sputare sangue?
«Non lo è. Ma all’estremo io… vi ho protetti.»
Sono le ultime parole che sente.
Le ultime pronunciate.
Un sospiro vago e un silenzio nel chiasso di una
battaglia che lo sta per trasformare in un mostro.
Se lo sente addosso.
Si sente tirare via, lontano da un corpo che di vita
non ha più nulla se non un tepore che tanto diventerà gelo prima che quella
battaglia sia finita probabilmente.
«…Lasciami, Hibari-san.»
Un colpo secco e diretto che gli fa voltare il viso.
«Non morirò per un Boss da cui non accetto ordini. Ma
tantomeno morirò per uno così debole come te.»
Sa solo incurvare le labbra a quelle parole, ma il
Guardiano della Nuvola gli ha già voltato le spalle.
Qualcuno ride di lui.
Qualcuno vicino al corpo di Sasagawa Ryohei.
Nemmeno lo guarda, scatta solo in avanti.
Ti ammazzo.
Quelle volte in cui,
persino,
inizia male.