Tavola 1 - Inquadramento
«Che schifo!» mugugnò Ron scuotendo il piede.
Aveva appena calpestato qualcosa dalla consistenza imprecisata e
dall’odore disgustoso. Di certo non era la plastilina che suo
nipote Fred aveva sparso per mezza casa il week-end precedente.
«Dai, cioé, mica ci vorrà ancora molto, no?» bisbigliò Nigel lì accanto.
L’Auror era poco
più di una sagoma indistinta contro un muro ricoperto di
manifesti pubblicitari e scritte poco artistiche di writers alle prime
armi. L’incantesimo di Occultamento non era uno dei suoi preferiti, e si vedeva.
«Nigel?» intervenne la voce di Harry, poco oltre.
«Mmm?»
«Ti si vedono i piedi…»
«E allora?» poi guardò a terra e ricordò di
aver indosso delle scarpe d’ordinanza, il cui colore era stato
fatto variare dal tabacco al verde fosforescente. «Lawson, appena
ti metto le mani addosso…» ringhiò.
La squadra sghignazzò a mezza voce. Non potevano permettersi di
farsi scappare ladro e ricettatore. Stavano dietro a quei due da troppo
tempo.
«Avanti» disse Potter, muovendosi rasente il caseggiato.
Si affacciarono in una stradina dove i passanti camminavano frettolosi
tra i lampioni e le auto in sosta. Sotto l’insegna di call
center, un tizio dall’aria anonima sedeva su una panchina. Il
puntolino rosso della sigaretta brillava a tratti, confondendosi nelle
dense boccate di fumo.
Attesero, cercando di non spintonarsi. Mandare l’indagine a monte
finendo a terra come sacchi di patate, sarebbe stato imbarazzante come
minimo.
L’uomo sulla panchina si guardava intorno.
«Spostati, David, non ci vedo» sbottò Francis, troppo arretrato per allungare la testa sulla strada.
«E che cavolo vuoi vedere?» ringhiò quello, scrollando la spalla su cui stava appoggiato di peso il collega.
«Di certo non la tua faccia o il tuo culone quando ricomparirai»
«Ma senti chi parla, signor Ossicini-saltellanti-e-pancia-da-Burrobirra!»
«Clabbert chiappone!»
«A chi, brutto…»
«Zitti. Tutti e due!» ordinò sottovoce Harry.
Odiava la parte del capo autoritario. Imporsi non faceva per lui,
passava da despota ottuso quando ci si metteva. Preferiva un sano
scambio di vedute, calmo e pacato. Lo trovava più produttivo,
oltre che in linea col suo carattere. Ma doveva ammettere che sentire
quei due ventottenni comportarsi come bambini dell’asilo era
troppo divertente e l’aiutava a non prendere troppo sul serio il
lavoro.
Occorse più di un’ora perché finalmente la
situazione subisse un mutamento. Erano passate le diciotto e tenta
sulle lancette del vecchio orologio a bordo strada. Dal call center
uscì un uomo. Difficile dire di dove, a quella distanza e nella
cupa serata londinese poteva essere thailandese, cinese o di
chissà quale altro paese asiatico. Andò incontro a quello
seduto che si alzò, ed insieme si allontanarono parlottando.
Ancora abbarbicati sullo spigolo dell’edificio, gli Auror attendevano.
Ed ecco, nella breve pausa tra un drappello di passanti e la chiusura
del negozio, un’ombra si addensò dietro la panchina
deserta. Era piccola ed incurvata sotto il peso di un fagotto
bitorzoluto.
«Non ci credo…» bofonchiò Ron, incerto sul tono da tenere.
Harry scosse il capo, emettendo un sospiro rassegnato. Era assurdo. Per
mesi erano stati sulle sue tracce senza individuarlo ed ora scoprivano
che il manigoldo che aveva abilmente saccheggiato l’attico del
fratello del Ministro della Magia era una loro vecchia conoscenza:
Mundungus Fletcher.
«Ma quanti anni ha?» chiese al cognato.
«Che ne so? Ottanta? Novanta?» ridacchiò Weasley,
più per esasperazione che altro. «Lo fermiamo?»
«Aspettate» fece Marvin. «C’è qualcun altro»
In effetti, dal fianco di Mundungus si era staccata un’altra figuretta.
«Oh, bene… adesso ha pure gli aiutanti!»
«Dai, Ron, ha un’età. L’hai detto anche
tu» sghignazzò Harry allungando a tentoni una mano nel
vuoto, cercando inutilmente di dargli una pacca sulle spalle.
Naso lungo, orecchie puntute quanto il mento, braccia nodose. Indossava
un abito che una volta doveva essere stato elegante. Guardando bene
capirono che non si trattava di una persona, bensì di un
folletto. Un ex-dipendente della Gringott per essere esatti: Unci-Unci.
Strano che quella canaglia si fosse data ai furti, lo facevano
più tipo da truffe. Quello che stupì la polizia magica
non fu tanto la bizzarra coppia che avevano adocchiato, quanto chi
apparve poco dopo. Non era il ricettatore, bensì il vero ladro.
Per una volta, Mundungus era l’acquirente, anche se questo non
sminuiva la sua posizione. Ed il malvivente era una vecchia conoscenza
degli Auror: Dimitri Miles,
ex-attendente di Kingsley Shacklebolt. Era stato licenziato in tronco
due anni prima, proprio perché scoperto a sottrarre manufatti
magici proibiti dal magazzino dei sequestri. Da allora si era vendicato
sottraendo i manufatti magici dalle case dei maghi più in vista.
«E così non perde il vizio, eh?» borbottò Marvin, facendo scrocchiare le nocche.
Quando avevano cercato di catturarlo mesi prima, Miles gli aveva rotto
il setto nasale e lui se l’era legata alla bacchetta. Il nuovo
profilo da pugile non gli piaceva per niente e sarebbero occorse
settimane per rimetterlo in sesto.
«Aspettiamo il passaggio» suggerì Harry, auspicando
che si dessero una mossa al più presto. «Ron, Francis,
David, andate dall’altro lato della strada e per l’amor del
cielo, non litigate! Nigel, Marvin, con me»
***
Harry si Materializzò
come d’abitudine nel parchetto davanti al numero dodici di
Grimmauld Place. Era l’unico posto abbastanza anonimo
perché eventuali passanti scegliessero di tirar dritto senza
dare un’occhiata. Di tanto in tanto, qualche giovane mago
bazzicava da quelle parti con occhi sognanti, in cerca della casa del Salvatore del mondo.
La vecchia dimora era visibile in pianta stabile e pareva che i vicini
non avessero dato peso al fatto che questa fosse cresciuta fra una
proprietà e l’altra, gonfiandosi come un palloncino.
I mattoni bruni della facciata lo fissavano di rimando, severi e corrucciati intorno alle finestre riquadrate di bianco.
Attraversò la strada deserta e superò i due gradini che
lo dividevano dall’ingresso. Entrò ed appese giacca e
sciarpa all’appendiabiti, stiracchiandosi. Il freddo di quel
pomeriggio d’inizio anno gli aveva indolenzito tutte le ossa,
comprese quelle che non ricordava di avere. Persino la spolverata di
peli che definiva barba, non senza una punta d’imbarazzo,
sembrava fatta di tanti spilli ghiacciati.
«Papà-papà-papà-papà-papà-papà!»
trillò allegramente una vocina, un po’ troppo fragorosa.
Subito l’Auror si volse alla sua sinistra. Le tende si aprirono
rivelando l’enorme ritratto di Walburga Black, i cui strepiti
superavano quelli del bimbo che gli correva incontro.
«Come osate disturbare la mia quiete! Voi, luridi Sanguesporco!
Abominio! Orrore! Sozzura! Chi credete d’essere per dimorare
nelle mia illustre magione! Malerba infetta!» tuonò.
Due rapidi incantesimi si abbatterono sul tessuto pesante e consunto,
richiudendolo quasi all’istante. La voce sguaiata filtrava a
malapena, comunque fastidiosa. Kreacher, apparso all’istante,
diede una lunga occhiata al padrone e al quadro, borbottando un
malinconico “Il signorino chiassoso non capisce che la padrona ha
le orecchie delicate”.
«Merlino, troverò il modo di farla tacere una volta per
tutte!» sibilò irata Ginny, scendendo le scale con Albus
in braccio.
Si teneva stretta alla balaustra, cercando di non incespicare
rovinosamente nei gradini, alcuni dei quali avevano preso la pessima
abitudine di aprirsi sotto il suo piede nei momenti meno opportuni.
Intanto Harry aveva sollevato da terra il piccolo James che faceva
pernacchie alla nobildonna e sfoggiava un nuovo, ennesimo bozzo sulla
fronte.
«E questo?» domandò al piccolo che rispose orgogliosamente:
«Bennottoto!»
«Bernoccolo» lo corresse.
«Bettottolo!» sghignazzò.
«Bernoccolo, Jamie» insisté.
«Bettattolo!» rise, prima di spalancare le braccine verso
di lui, facendosi improvvisamente triste. «Abacio!»
mugolò abbattuto.
Era il suo modo per chiedere attenzione e comprensione, specie dopo aver combinato un guaio.
«Sì, sì, ci vuole un abbraccio per
quest’ometto che ha già troppe ferite di guerra»
rispose accontentandolo.
«Il solito ruffiano. Vorrei tanto sapere da chi ha preso» fece la madre, aggiustando il bavaglino del secondogenito.
Il marito sorrise, una mezza idea l’aveva. Suo padre. Da quanto
aveva potuto apprendere, James Potter era stato un’autentica
peste, un vulcano di guai, che però aveva saputo farsi perdonare
ed amare da chi aveva intorno. Evidentemente certe eredità
saltavano un generazione, perché lui non era affatto così.
In punta di piedi scesero in cucina, dove la tavola era apparecchiata da un po’.
«Com’è andata la giornata?»
«Umida, noiosa e molto, molto fredda. Tipico inverno
londinese» concluse, aiutandola a sistemare i pargoli nei
rispettivi seggioloni.
«Non vuoi fare una doccia prima di mangiare?» chiese,
preparandosi ad una nuova battaglia col neonato in fase di svezzamento.
La crema di mais che aveva preparato avrebbe avuto un aspetto poco
appetitoso anche per un mannaro digiuno da settimane ed Albus era dello
stesso avviso.
«No, Gin, sto bene. Ho troppa fame e l’arrosto di Kreacher
lo preferisco ben caldo. La doccia la farò dopo, quando
avrò preso la temperatura che c’è qui dentro.
Diamine, si muore di freddo…» fece, tirando gli occhiali
sulla fronte prima di stropicciarsi gli occhi.
Il passaggio tra l’esterno e l’interno doveva essere stato
troppo rapido, non provava alcun miglioramento. Quella sera il consueto
tepore domestico sembrava essersi trasformato nel freddo appiccicoso di
un freezer. Oppure il gelo era penetrato fin dentro le ossa, molto
più di quanto immaginasse.
«Padrone, Kreacher ha cucinato anche la Minestra Scozzese*, che piace tanto a Padron Harry!» lo informò l’elfo, indicando la pentola sul fornello.
Il mestolo si librò nell’aria, mostrando il contenuto denso e fumante.
«Splendida idea, grazie. Ci voleva proprio»
L’elfo rispose con un gran sorriso sdentato, dirigendosi ai
fuochi. Le larghe orecchie sbattevano da un lato all’altro,
sempre più cadenti. Il tempo passava anche per lui.
«Harry, stai sudando. Non ti sarai preso qualche accidente,
vero?» lo sgridò Ginevra, quasi stesse parlando con un
figlio capriccioso.
Rimproveri preventivi, metodo ereditato dalla madre. Eredità che comprendeva il fatto che restassero inascoltati.
Lui rispose prendendo posto accanto a James, che giocava con un cucchiaio.
«Sto bene, fidati. Ho solo bisogno di mettere qualcosa nello
stomaco» la rassicurò, soffiando tra le dita per
scaldarle. «Marvin è messo sicuramente peggio di me:
è stato annaffiato da un furgone di passaggio mentre inseguivamo
i sospettati»
«Non m’interessa se Marvin ha la febbre a quaranta o la Spruzzolosi acuta,
non devi averla tu! Dopodomani c’è il compleanno di Jamie
e non ho intenzione di gestire una nidiata di bimbetti e di ospiti da
sola, mentre tu te ne stai beato sotto le coperte!» disse,
ripulendo Albus che aveva preso a sputacchiare ovunque la sua cena.
«Tatti guii a meee! Tatti guii a meee!» canticchiò
soddisfatto il bimbo, accompagnandosi fuori tempo con la posata che
minacciava di sfuggirgli di mano in direzione del fratellino.
«Tranquilla, Ginny. Sarò della partita» disse,
sfilando l’arma impropria al festeggiato. «E poi, che festa
sarebbe senza qualcuno dei nostri nipoti che mi scoccia alla nausea
perché racconti della guerra?» scherzò, prendendo
il piatto di zuppa che Kreacher gli porgeva.
Le labbra della donna si curvarono leggermente verso l’alto, mascherando una risata.
«Che bugiardo! Tu e Ron vi divertite come matti a fare tutte quelle scenette!»
«Beh, però non potrei mai permettere a tuo fratello di prendersi tutti i meriti…» obbiettò.
In quasi nove anni non c’era stata una sola occasione in cui quei
racconti fossero stati omessi: anniversari di matrimonio, promozioni al
lavoro, feste comandate, nascite. Soprattutto durante i compleanni dei
più piccoli. Prima con Teddy, poi Victoire, Molly, Fred,
Roxanne, Dominique, Lucy, Louis. Infine, James, Albus e Rose. A cui
andavano ancora aggiunti i due nasciuturi: il loro terzo figlio ed il
secondo di Ron, entrambi in arrivo nel tardo mese di maggio. Ogni volta
qualche piccolo ospite attaccava con “zio mi racconti” e
nel tempo di un Accio, la brigata era già riunita intorno per
ascoltare attenta. Per rendere tutto più divertente e meno
tetro, lui e Ron mettevano in piedi delle rievocazioni con
travestimenti improvvisati, che terminavano quasi sempre con la
cucciolata che saltava addosso al Voldemort di turno.
«Cos’è successo a James?» domandò
più tardi, quando gli occhi dei figli erano spalancati sul mondo
dei sogni.
La moglie scosse il capo, raccogliendo a colpi di bacchetta i balocchi sparsi ovunque.
«Giocava a rincorrere quel modellino di Firebolt che gli ha regalato Neville a Natale»
«Quel coso orrendo?» domandò perplesso.
Definire a quel modo un regalo di un caro amico era poco gentile, ma
dopo che quell’affare gli si era piantato in un ginocchio, tra le
costole e Merlino solo sapeva
in quanti altri posti, c’erano poche altre parole per
descriverlo. Senza contare che, a completarlo, c’era una figurina
altrettanto orripilante. Un omino gracile vestito di rosso e oro, con
capelli arruffati e grandi occhiali tenuti insieme con lo scotch. La
sua immagine da ragazzo.
Allungò la mano, accarezzando i pochi capelli già ribelli
di Albus. Aveva la strana sensazione che si sarebbero somigliati
moltissimo quando sarebbe cresciuto. Spesso si domandava se anche suo
padre aveva pensato quelle stesse cose guardandolo dormire nella loro
casa di Gordic’s Hollow.
«E come ha fatto a farsi quel bernoccolo? Colpo di ramazza in testa?» ipotizzò.
«Al solito: è inciampato»
Suo figlio era particolarmente soggetto a quel tipo di incidenti:
probabilmente nei suoi due anni era finito a faccia in giù
almeno un milione di volte. Nonostante ciò, non mostrava alcun
timore verso il mondo o l’autorità dei genitori. Se
esisteva un modo per divertirsi, possibilmente facendosi male e
disobbedendo alle regole imposte, James riusciva sempre a trovarlo. E
la dimora sembrava dargli una mano, Materializzando ostacoli davanti ai piedini troppo frettolosi.
«Su cosa?»
«Su una piastrella, che si è sollevata appena ci ha messo sopra il piede»
«Ancora?»
«Ancora?!?» sbottò spazientita. «Harry…
ho perso il conto delle volte in cui ho dovuto interrompere quel che
stavo facendo per medicare qualcuno, me compresa! Questa casa sta
andando a pezzi! Ogni giorno qualcosa si scheggia, si muove, si stacca,
si rompe, si sposta! Potremmo dire che è viva… Abbiamo
due bambini piccoli ed un terzo in arrivo. Non possiamo continuare
così»
Harry la seguì in camera da letto. Si sentiva esausto dopo
l’appostamento, ma ripeté a sé stesso di tener duro
ancora per un po’. Sapeva dove sarebbero andati a finire con quel
discorso, perché non era la prima volta che
l’affrontavano. Grimmauld Place, col passare dei mesi, stava
diventando una trappola per ogni suo abitante.
«Ginny, io l’avevo detto che avremmo potuto comprare una
casa nuova mentre questa sarebbe diventata un perfetto museo della
guerra come aveva suggerito la McGranitt, ma tu hai insistito
tanto… dicevi che ti piaceva vivere a Londra e che non era il
caso di spendere uno zellino per acquistare un’altra casa quando
l’avevamo già»
Prima del matrimonio, aveva tentato per mesi di farla desistere
dall’idea, senza alcun successo. Sfortunatamente, l’essere
cresciuta in ristrettezze economiche giocava un ruolo fondamentale
nelle idee della sposa. Idee che non venivano minimamente smosse dal
favoloso contenuto della camera di sicurezza dei Potter alla Gringott.
Inoltre, Ginevra adorava la capitale, ben più del minuscolo
paesino di campagna in cui era cresciuta.
Dal canto suo, Harry provava un misto di amore e odio verso quel
palazzo. La commistione di ricordi che associava a quegli ambienti era
troppo eterogenea per propendere da un lato o dall’altro della
bilancia.
«Mi piace ancora adesso. Sirius te l’ha lasciata
perché cancellassi il ricordo dei Black da queste mura. Voleva
venirci a vivere con te, creare una nuova famiglia. Una vera famiglia,
quella che lui non aveva mai sentito di avere e che a te era mancata
troppo presto. Me l’hai detto decine di volte. Harry, ero e sono
più che convinta che questa e non un’altra, sia casa
nostra! Anche se ci sta cadendo in testa» puntualizzò,
schivando rapida un pezzetto di intonaco che precipitava dal soffitto.
«Quell’estate, nei pochi giorni che sei rimasto qui con
noi, passavo le notti fissando il muro e ti immaginavo dall’altra
parte, mentre dormivi»
Le sfuggì un mezzo singhiozzo mentre passava la mano sulla
parete. Lui mise una mano sulla sua e l’abbracciò,
posandole un bacio tra i capelli.
«Non ho dormito molto in quel periodo. E purtroppo nemmeno ti
pensavo, ero troppo concentrato su me stesso e su quello che mi girava
intorno per accorgermi delle tue preoccupazioni. Dovevo avere la testa
davvero piena» si scusò cullandola.
«Già. Avevi un sacco di altri pensieri. Anche non
tuoi» sospirò la donna, sedendo sul letto con i pantaloni
del pigiama in mano. «Ma adesso tutti i nostri pensieri devono
andare alla famiglia che stiamo costruendo, la nostra famiglia! I
nostri bambini!»
«Se avessimo comprato quella villetta nuova di zecca nello
Shropshire, questi problemi non li avremmo avuti. Però Grimmauld
Place esercitava su di te un’attrazione incontenibile!»
insisté lui, tentando l’ennesima sortita.
«Va bene, va bene! È solo colpa mia se siamo a questo
punto! Mia e della mia fissazione per Grimmauld Place! Contento?»
rimbrottò offesa, infilandosi con un brivido sotto le coperte.
«Questo non toglie che io adori questo posto»
Scrollando le spalle, Harry finì di cambiarsi e si distese
accanto a lei. Mancavano giusto quei discorsi a dare una mano ai suoi
ormoni impazziti per la gravidanza. Cercò di avvicinarsi
cautamente a quella creatura rannicchiata sul fianco, che pareva decisa
a starsene lontano dietro le spesse coltri. Quasi gli veniva da ridere:
stava facendo un appostamento in casa propria, nella sua camera, nel
suo letto, a sua moglie! Era assurdo. Riuscì ad avvicinarla
incolume grazie al prezioso aiuto dei suoi istruttori, che durante gli
anni di Accademia gli avevano inculcato l’arte della pazienza.
Profondersi in baci e coccole servì però a ben poco:
nella penombra del talamo, il broncio risentito di Ginny splendeva come
il sole. Non aveva intenzione di cedere. E purtroppo, il signor Potter
sapeva cosa significava.
«E va bene, amore. Troveremo una soluzione per sistemare questa catapecchia…»
La gomitata che minacciò di rompergli una costola lo spinse a
correggere “catapecchia” con “casa”.
Per sua fortuna, il gesto colpì nel segno. Il malumore si
dissolse ed Harry si ritrovò con le braccia occupate dal corpo
dalla consorte, ora raggomitolata contro di lui.
«Potrei chiedere a Annie» propose, sorprendendosi di non aver pensato prima a quella soluzione.
«Annie Corgan? La Battitrice di quando giocavi nelle Harpies?»
«No! Annie, la moglie di Kingsley! L’anno scorso hanno fatto sistemare la casa dove abitano ora da un Archimago
molto famoso. Ti ricordi che sono andata a trovarli quando si sono
trasferiti a Drury Lane? Accidenti, non mi ricordo più come si
chiama quel tizio… È stato bravissimo, ha fatto un lavoro
splendido! Non sai quant’era bella! Luminosa, accogliente,
spaziosa, ordinata, elegante, si-cu-ra!» rimarcò.
«Non saprei, Ginny. Questa casa è molto vecchia, è
piena zeppa di incantesimi che probabilmente non possono essere
annullati, fatture pensate apposta per la sicurezza della “nobile
stirpe dei Black”… senza contare quelli che sono stati
aggiunti dai membri dell’Ordine. Ogni tanto quell’immagine
di Silente nell’ingresso salta fuori ancora!»
«Già. James si diverte un mondo a fargli le boccacce!»
«Temo ci si impiegherebbe meno a buttarla giù e rifarla
daccapo, che non a sistemarla così com’è»
mormorò, suscitando uno sbuffo risentito della consorte.
«Su, Harry. Lasciami provare. Informarsi non costa nulla»
Tipica argomentazione da Weasley da non controbattere in alcun caso.
Arreso e sconfitto, Harry levò lo sguardo sul soffitto
sospirando. Ginny alzò la testa, aspettandosi di vederlo
rincorrere sfuggenti alternative, invece stava sorridendo.
«Ogni volta che mi chiedi di lasciarti provare a fare qualcosa mi lasci a bocca aperta. Letteralmente»
Aveva un elenco di prove a supporto della sua tesi tanto lungo da raggiungere Hogwarts.
«È un sì?»
Piegò la testa per guardarla meglio e le passò una mano fra i capelli, annuendo.
«Sì, signora Potter, è un sì. Stupiscimi ancora»
*Minestra Scozzese: zuppa di verdura con orzo, uova e panna fresca.
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