Kikyou cammina con la testa
abbassata, in silenzio e senza guardare niente in particolare. Tutte le volte
che si accorge di voler sputare per alleviare il saporaccio che ha in bocca, si
trattiene e, invece, deglutisce. Non vuole lasciarsi vedere da Nobunaga mentre
sputa.
Non ha bisogno di cantare per
usare il suo potere: potrebbe farlo, ma la gola inaridita le toglie la voglia
di provarci. I pochi youkai che cercano di attaccarli finiscono spazzati via
dalle sue frecce.
Ha freddo, le pulsa la testa e
c’è una parte di lei che vorrebbe rannicchiarsi per terra e mettersi a dormire.
Come può venirle voglia di dormire in una situazione simile?
Quasi non si accorge che sono
entrati in una nuova radura. Si irrigidisce e solleva il capo di scatto, ancora
fresco il ricordo di quel che ha dovuto sopportare neppure un’ora prima. Mette
a fuoco lo sguardo, e la bocca le si schiude in una perfetta O di sorpresa.
A differenza del resto del bosco,
in questa radura cresce un’erba folta e corta, tagliata con cura. Pietre bianche
e lisce ne delimitano il confine e disegnano al suo interno linee e curve. Un
sozu alimentato da una piccola fonte fa udire il suo tonfo monotono su una
roccia. A Kikyou sembra che, per qualche misterioso prodigio, un frammento del
giardino di sensei Nobunaga sia stato trasportato in mezzo alla foresta.
Al centro esatto dello spiazzo
leva orgogliosa il capo un’unica peonia sbocciata.
Il fiore pare a Kikyou splendido
da non sembrare vero, coi suoi innumerevoli petali violetti a dargli la forma
di una piramide, traslucido come una statua di giada. Spicca come una goccia di
sangue su un manto verde.
Kikyou ride e batte le mani
contenta, incapace di trattenersi a quella vista stupefacente.
“Sensei! Siete stato voi! Ma come
avete fatto!? E quando?”
Sorridente, scruta il viso di
Nobunaga, ma l’aria grave di lui raffredda il suo entusiasmo.
“Sono stato qua diverse volte. E’
stato un lavoro lungo e difficile, preparare il teatro per l’ultima prova. E
sì, Kikyou, avevi ragione. E’ per te. E’ sempre stato per te.”
Kikyou drizza le spalle. Nobunaga
la invita a seguirlo con un cenno della mano e si avvicina al cuore del
giardino, poi si inginocchia a pochi metri dalla peonia.
“Ricorda. Finché siamo nel bosco,
la mia vita è nelle tue mani.”
Chiude gli occhi.
Sgocciolano i minuti, lenti come
olio. Un’aura di grande potere si addensa. Non può impedirsi di fare una passo
indietro, quando una donna alta e bellissima si materializza, apparendo
silenziosa da uno squarcio nell’aria. Altera quanto una regina, non la degna di
uno sguardo. Il viso squisito e impassibile si ammorbidisce quando posa gli
occhi sull’uomo inginocchiato davanti a lei.
“Mio amato.” Dice.
Lei si ricorda di tutta la sua
vita.
Ricorda quando, assieme alle sue
sorelle, l’uomo l’aveva messa nella sacchetta. Erano tutte una addosso
all’altra, e ridevano e sussurravano i loro ruvidi sussurri soffregandosi pelle
a pelle. Il viaggio era stato breve e poi la mano gigantesca dell’uomo le aveva
sepolte, sole, nella terra umida. Del buio non ha mai avuto paura. Il buio e la
terra sono accoglienti, l’hanno sempre cullata con braccia morbide. Non ha mai
capito perché gli esseri umani ne hanno paura, e in fondo non le è mai
importato capirlo. Era passato del tempo, e aveva imparato a riconoscere il
passo dell’uomo. La venuta dell’uomo spesso coincideva con la dolce acqua. A
volte la terra che la teneva sepolta veniva rimestata, quando arrivava l’uomo
col suo passo rumoroso, e poteva capitare che la luce la toccasse qualche
istante. Neanche l’uomo l’aveva mai spaventata. L’uomo si prendeva cura di lei,
le parlava e a volte cantava, e nella sua voce c’era una dolcezza che le faceva
venire voglia di uscire dalla morbida terra. Quando l’uomo parlava, ma non a
lei, non c’era mai quella dolcezza nella sua voce.
Lei non sapeva come uscire dalla
terra, però. Finché (era passato altro tempo), un dolore strano l’aveva
afferrata in una morsa, continuo e più forte. Ma c’era la voce dell’uomo, così
lei non aveva avuto paura, neppure quella volta, neppure quando la sua pelle si
era crepata fino a rompersi. Neppure quando il dolore l’aveva spezzata e aveva
creduto d’esser morta, aveva avuto paura. C’era l’uomo là fuori da qualche
parte che la aspettava.
Aveva imparato con stupore la
forma del suo nuovo corpo. I suoi piedi, piccolini ma intrepidi, avevano
assaggiato la terra che le dava la vita. Aveva levato la testa, spingendo un
pochino per volta, cocciuta; avrebbe sempre amato la terra che l’aveva
protetta, ma adesso voleva conoscere la luce solo poche volte intravista. E anche
l’uomo che parlava e cantava e portava, assieme al suo passo rumoroso, l’acqua
che la dissetava.
Era stata svelta. Era stata
forte. E vedere la luce era stato bello come aveva immaginato. Aveva teso verdi
dita minute verso la faccia gialla e aveva riso di gioia perché era bello
essere viva ed essere giovane e stare sotto la burbera faccia gialla.
Quando poi l’uomo era venuto le
aveva sorriso e le aveva detto che era stata brava e che era fiero di lei e
l’aveva accarezza con la punta di un dito e la sua carezza era stata così lieve
e così tenera che si era scossa tutta. Qualunque cosa! Qualunque cosa avrebbe
fatto e dato, per ricevere altre carezze e altre lodi.
Era passato altro tempo, stagioni
fredde nelle quali si addormentava e tornava all’abbraccio materno della
morbida terra, e stagioni calde nella quali era sveglia e vispa, e l’uomo
veniva sempre, e lei cresceva e diventava robusta e alta. Aveva steso le
braccia come una donna che si sveglia, tante braccia che crescevano in numero e
lunghezza, e aveva imparato a spalancare i palmi verdi alla burbera faccia
gialla che amava quanto la morbida terra, persino quando la baciava tutto il
giorno, nella stagione in cui stava a lungo in cielo, e alla fine della
giornata le sue braccia erano stanche e piegate. Ma sapeva che i baci della
burbera faccia gialla erano i soli baci che conosceva e che faccia gialla non
sapeva amare in nessun altro modo. Eppoi c’era l’uomo che le portava acqua e
parole gentili, canzoni e carezze leggere, alla fine di quelle giornate, e lei
si sentiva scoppiare, di vita e di qualcos’altro.
C’erano le sue sorelle vicino a
lei. Non tutte, perché alcune non erano state capaci di uscire dal letto della
morbida terra, e si erano assopite poco a poco finché le loro voci non erano
sparite del tutto in un sonno senza più risveglio.
Le sorelle che non si erano
addormentate per sempre le facevano compagnia, e a volte fra loro ciarlavano;
specie quando il vento giocava a rincorrersi da sé solo tra le loro braccia e
di tanto in tanto rifilava loro uno spintone che le faceva gridare di
eccitazione e spavento.
Ma le sue sorelle parlavano fra
di loro più che con lei, perché lei era la preferita dell’uomo. Tutte lo
sapevano ed erano gelose. Lei era stata la prima a uscire dalla terra, lei era
più alta di loro, più forte di loro, e a lei l’uomo dedicava più attenzione e
più affetto che a tutte loro.
Era passato altro tempo ancora:
sette volte le quattro stagioni, e lei aveva capito che qualcosa di nuovo le
stava capitando. Sulla sua testa la cosa nuova e misteriosa si stava
ingrossando e appesantendo. Lei non se ne era preoccupata, era forte abbastanza
da sopportare molte volte quel peso. Anzi, era euforica e agitata perché sapeva
che la cosa nuova e misteriosa era il compimento, la ragione ultima della sua stessa
vita; e le nuove e più amorevoli cure dell’uomo avevano alimentato la sua
certezza.
La prima volta nella sua vita in
cui aveva conosciuto la paura era stato il giorno in cui l’uomo aveva scavato
la morbida terra attorno a lei e aveva messo in una sacca la terra assieme ai
suoi piedi, che nel passare delle stagioni si erano fatti robusti e lunghi, e
l’aveva portata via dalle sue sorelle e dal posto verde che era stato il suo
mondo. Non capiva perché l’uomo aveva voluto portarla via dalla sua casa e aveva
combattuto la paura con la fiducia che nutriva per l’uomo che l’aveva accudita
da sempre.
L’uomo era entrato in un bosco
buio e pieno solo di alberi. Gli alberi non erano cattivi, non proprio, ma
erano forti e vecchi e mal sopportavano qualsiasi presenza salvo la loro.
Tenevano fuori persino burbera faccia gialla, accontentandosi di lasciargli
scaldare solo le loro più alte fronde. La sua paura sarebbe diventata terrore,
se l’uomo non avesse cominciato a cantare (senza aprire la bocca, però)
costringendo gli alberi e le altre cose nel buio a lasciarli passare.
Erano arrivati in uno spiazzo che
assomigliava al posto verde che era stato il suo mondo. Un anello di pietre lo
circondava, e nel disegno di quelle pietre c’era l’impronta dell’uomo, così
come nella terra dove lei affondava i piedi c’era la sua impronta. Il buio del
bosco non poteva oltrepassare le pietre e burbera faccia gialla l’aveva baciata
non appena erano entrati nello spiazzo. Lei aveva subito alzato la testa che
non si era accorta di aver chinato. Non era mai stata tanto contenta dei baci
della burbera faccia gialla.
L’uomo l’aveva liberata dalla
sacca, e aveva messo i suoi piedi e la terra in un buco al centro dello
spiazzo. Per tutto il resto del giorno si era preso cura di lei, aveva posto vicino
ai suoi piedi altra terra, ricca e scura, le aveva dato da bere, l’aveva
accarezzata, le aveva detto di essere coraggiosa, le aveva detto che era bella,
e lei si era scordata la paura, gioendo di tutte le sue attenzioni.
Quando se n’era andato, non aveva
sofferto la solitudine, anche se non c’era nessuna delle sue sorelle. C’erano
altre cose. C’erano cose che non aveva mai conosciuto, cose di cui lei non
sapeva il nome e che erano capaci di parlare con lei e di ascoltarla. Le cose
le parlavano e parlandole le insegnavano. I nomi, per esempio. Che tutto aveva
un nome. Burbera faccia gialla si chiamava sole (ma per lei sarebbe stata
sempre burbera faccia gialla). Gli alberi erano salici. Il posto verde in cui
era cresciuta, e pure quello dove l’uomo l’aveva portata, si chiamava giardino.
E, no, non sapevano come si chiamasse l’uomo. E lei? Lei non aveva un nome? Le
cose avevano riso e le avevano detto che sì, certo che aveva un nome!
Lei si chiamava weize, che significa ‘regina dei fiori’,
ed era una peonia.
Una volta abituatasi alla sua
nuova casa, Weize era stata molto felice del cambiamento, perché dove stava ora
poteva imparare tantissime cose che altrimenti non avrebbe mai saputo. E poi
c’era la cosa nuova e misteriosa (a volte se n’era quasi dimenticata, persa nel
turbine di cambiamenti che aveva catturato la sua vita) che cresceva e … e
cosa?
Le voci del bosco avevano
chiamato la cosa nuova e misteriosa ‘gemma’ e Weize aveva pensato che non
potesse esserci un nome più giusto, e
le avevano detto che presto sarebbe sbocciata.
Così era stato. Dopo una notte
insonne di travaglio e fatica e gioia era fiorita. Voleva fiorire e
nient’altro: tutta la sua vita precedente era stata la preparazione di
quell’unico evento. E voleva fiorire in quella mattina perché sapeva che l’uomo
sarebbe venuto e voleva ringraziarlo per tutto quello che aveva fatto per lei
nell’unico modo che conosceva.
Aveva udito il suo passo
familiare. Aveva steso i suoi mille petali viola e non aveva avuto alcun timore
nella perfetta certezza della sua bellezza.
E l’uomo era arrivato e quando
l’aveva vista erano stati perduti entrambi. Si era inginocchiato, le aveva
sorriso, aveva cantato e il suo canto era poesia e la sua poesia non era da
meno della bellezza di lei e lei sapeva cos’era quel che rendeva bello il suo
canto.
Era stato come sbocciare di
nuovo. C’erano occhi da aprire per vederlo come non aveva mai fatto. Poteva
guardarlo dall’alto perché gli occhi si aprivano in un viso, e sotto il viso un
corpo simile a quello dell’uomo eppure dissimile: candido e tiepido; occhi
verdi, capelli di fuoco e bocca rossa; membra sottili, dolcezza nei fianchi e
morbidezza del seno. Avrebbe avuto tempo, dopo, di prendere confidenza col suo
nuovo corpo: e non era certo quella la prima volta che le succedeva qualcosa
del genere. La sua felicità era per una cosa soltanto: avere una bocca per
poter parlare, e, dopo tutti quegli anni, chiederglielo.
“Qual è il vostro nome, mio
amato?”
L’uomo era restato in ginocchio.
“Mi chiamo Nobunaga. E tu conosci
il tuo nome, Kashin?”
Aveva sorriso.
“Io so di chiamarmi Weize e so
che vi amo, Nobunaga. E voi mi amate, mio amato?”
L’uomo aveva chinato la testa
come per una sconfitta.
“Ti amo, mia amata.”
E Weize gli aveva carezzato il
volto rugoso e gliel’aveva sollevato, poi l’aveva fatto alzare, gli aveva preso
le rugose mani, che da sempre conosceva, le aveva guidate su di sé e gli aveva
chiuso la bocca con la sua bocca nuova.
Ognuno dei suoi giorni era ricco
come un anno della sua vita precedente. Aveva imparato cos’era e cos’erano le
cose che le avevano parlato prima della sua ultima fioritura. Youkai. E lei era
una regina. Regina tra i fiori e regina tra gli youkai, superiore in bellezza e
superiore in potere, poiché quel che le aveva dato vita era quanto di più forte,
esclusivo e spaventoso youkai e umani potessero conoscere e condividere.
Fin nei più remoti angoli del
bosco poteva spingere il suo sguardo, e dai più remoti angoli del bosco
venivano per renderle omaggio, prostrarsi ai suoi piedi e baciare la terra
nella quale affondava le radici – sì, conosceva ora tutti i nomi e tutta la
propria vita, fin da quando era stata un seme.
E il suo amato Nobunaga andava
tutti i giorni da lei e le cantava poemi ispirati dal suo amore, e lei
ascoltava e imparava e gli parlava dei segreti degli youkai. Poi venivano altri
segreti da conoscere assieme, ed estasi che le ricordava un po’ – ma molto più
grande e forte – i baci della burbera faccia gialla.
Sarebbe dovuto essere tutto
perfetto e non capiva da dove veniva l’ansia crescente che non smetteva di
tormentarla.
Proprio su questo si stava
interrogando la mattina in cui aveva visto il suo amato entrare nel bosco
accompagnato dalla ragazza pallida. Ne era stata sbalordita e non solo. Un
pungolo bruciante, aveva sentito, e si era chiesta se era quello che provavano
le sue sorelle quando Nobunaga dedicava a lei la maggior parte delle sue
attenzioni.
Col cuore in gola, aveva
assistito impotente gli youkai cercare di uccidere il suo amato, traendone
furore e spavento: il suo potere era inutile, poiché confinato dal cerchio di
pietre della radura. Non le era mai capitato di preoccuparsi dell’incolumità di
Nobunaga, perché lui sapeva proteggersi facilmente da tutti i pericoli che
abitavano il bosco dei salici. Ma quella mattina era diversa. Il suo amato non
si difendeva, aveva messo la sua vita nelle mani della sciocca ragazzina
pallida. Se gli fosse successo qualcosa, gli youkai e la ragazzina avrebbero
assaggiato la violenza della sua vendetta: pietre o non pietre, avrebbe trovato
il modo di raggiungerli e di farla pagare a tutti quanti.
Ma la ragazzina pallida sapeva
combattere abbastanza bene, doveva dargliene atto. Weize aveva capito che il
suo amato stava venendo da lei, seppur seguendo un percorso lungo e tortuoso. E
perché si era fatto accompagnare dalla ragazza? L’ansia era cresciuta a
dismisura dentro di lei. Poco prima che arrivassero si era nascosta, ma quando
Nobunaga le si era avvicinato e si era inginocchiato non aveva potuto
resistere.
In tutta la sua inumana bellezza
gli era apparsa, perché la gioia di potergli solo rivolgere la parola le era
avvinghiata dentro, come le sue radici erano avvinghiate al terreno.
E “Mio amato.” Aveva detto.
Lo sconcerto di Kikyou la lascia
paralizzata e incapace di pensare. Lo spirito della peonia ha preso vita
diventando Kashin. Non ha mai neppure immaginato che potesse esistere una tale
bellezza. Deve imporsi di non inginocchiarsi vicino al suo sensei per la
riverenza che le ispira. Poi il senso del saluto con il quale il Kashin si è
rivolta a Nobunaga si fa strada nella sua mente. ‘Mio amato’? Un velo di sudore
sulla schiena la fa rabbrividire. Negli occhi della youkai brucia un violento
fuoco verde che le fa accapponare la pelle talmente è intenso.
“Perché non mi rispondete, mio
amato? Che cos’avete? Siete forse arrabbiato con la vostra Weize?”
Nobunaga resta immobile, il
respiro cadenzato, le palpebre abbassate.
Weize per un attimo pare
perplessa, poi si rizza in tutta la sua statura, e le si rivolge con un tono
tanto sprezzante quanto era tenero quello che ha usato per parlare a Nobunaga.
“Ho dimenticato l’educazione e me
ne scuso.” Comincia, senza dare la benché minima impressione di scusarsi di
alcunché. “Hai protetto il mio amato e devo ringraziarti per questo, ragazza
pallida. Ora, dimmi. Sai per quale ragione mi sta ignorando? Il mio sguardo vi
ha seguiti per tutto il tempo e sono certa che non sia stato ferito. Dunque,
perché non mi parla? Ti prego di rispondermi.”
L’imperioso portamento e la
regalità di Weize fa tremare le labbra di Kikyou alla ricerca di una risposta
che non possiede.
Scrolla la testa e parla mossa da
un’ispirazione improvvisa.
“Io ti conosco. Ti ho già vista.
Nel giardino di sensei Nobunaga. Sì. Ho innaffiato le piante di peonia che lui
seminò nell’anno in cui giunsi al tempio. Tutte. Ma non tu. Mi disse … lui mi
disse di innaffiare … di innaffiare tutte voi. Tranne te.”
Lo sguardo di Weize sembra
passarle attraverso.
“Non hai risposto alla mia
domanda, ragazza pallida.”
“Mi chiamo Kikyou.”
Un sopracciglio alzato.
“Porti il nome di un fiore.
Ubbidiscimi, dunque. Dei fiori, come di questo bosco, io sono la regina.”
Kikyou deve lottare contro lo
sconcerto che non si lascia allontanare e anche tenere a bada la paura, perché
il potere del Kashin è tangibile e indispettirla potrebbe rivelarsi pericoloso.
“Perché sensei Nobunaga ti ha
portata qui? Quale ragione …?”
“Che importanza ha? Perché il mio
amato mi sta ignorando? Rispondi!”
Occhi scuri incrociano occhi
verdi. Kikyou si piega in una riverenza.
“Permettetemi di scoprirlo, mia
regina.”
Il Kashin la scruta piena di
sospetto, poi annuisce secca.
Kikyou leva il suo canto,
lasciandolo rimbalzare tra Weize e Nobunaga, la voce incerta, l’orecchio teso,
alla ricerca di quel che il suo sensei vuole farle capire.
Le pupille le si dilatano per il
panico quando tocca le radici del Kashin. Radici affondate fin nel profondo
nella tamashii del suo sensei.
“Sono stata portata qui per
ucciderti, Kashin.”
Una voce di ragazza, tremante ma
bella, carezza il suo orecchio e svanisce.
“Cosa?” Onigumo inclina il capo
in ascolto.
Weize si mette a ridere di una
risata colma di disprezzo.
“Mio piccolo fiore, è molto
sciocco da parte tua covare simili pensieri e, soprattutto, condividerli con me
a voce alta.”
Torce la mano affusolata che un
attimo prima era posata lieve sulla sua bocca e Kikyou viene scaraventata a
terra in un battito di ciglia.
“Provaci, ragazzina.”
Kikyou torna in piedi con una
torsione. La sua avversaria ha un sorrisetto divertito e attende a braccia
conserte.
“Non te ne sei accorta, Kashin?”
dice, invece di attaccare. Ingaggiare battaglia col Kashin potrebbe esserle
fatale.
“Di cosa mi sarei dovuta
accorgere, piccolo fiore?” Divertita. Ma forse la luce verde dei suoi occhi ha
tremolato?
“Lo stai consumando. Non dirmi
che non ti sei resa conto che lo stai consu …”
Kikyou si ritrova sbattuta a
terra sulla schiena, senza fiato, le costole le scricchiolano. La barriera
sacra che ha provato a levare per proteggersi è finita sbriciolata in un
istante.
“Non so di che parli, piccolo
fiore.”
Kikyou solleva il collo,
sbattendo le palpebre per scacciare i puntini luminosi che ballano nel suo
sguardo. Si rialza in piedi, usando l’arco per fare leva. Sfila una freccia
dalla faretra e la lascia partire con tutta la sua velocità e la sua letale
perizia. La freccia si incendia di luce bianca, ma si blocca a mezz’aria per
spezzarsi con uno schiocco secco.
“Ti ho vista combattere, piccolo
fiore. Sì, sei abile. Ma non abbastanza, credimi.”
“Sensei Nobunaga ha affidato a me
la sua vita fino al termine della mia prova. Non dirmi che non sapevi quello
che …”
Weize le balza contro, buttandola
a terra per la terza volta. Il volto bellissimo e contorto dalla furia è a
pochi pollici dal suo, i polsi imprigionati in una morsa. Kikyou invoca tutto
il suo potere e le basta appena per impedire al Kashin di fracassarle le
braccia.
“E’ malia, mia regina. Non amore.
E lo sta uccidendo.”
“Bugiarda!” ringhia. “Noi ci
amiamo! Non me lo porterai via! Sarò io a uccidere te!”
Kikyou riprende il suo canto
interrotto.
Non si è mosso. Nulla si è mosso.
Aspetta, il respiro lento, i peli delle braccia ritti per la tensione. Non se
l’è immaginato. Aspetta.
Poi sorride.
Il canto di ragazza è
ricominciato.
Weize trattiene al suolo con
violenza la ragazza pallida. Se non stesse usando il suo potere per
proteggersi, l’avrebbe già uccisa. Ma non importa. E’ una questione di tempo.
Non sarà in grado di resistere ancora per molto e neppure lotta per sfuggirle.
Il piccolo fiore non potrà
sopravvivere a lungo; e questo perché, come tutti i fiori …
Weize si irrigidisce, il pensiero
spontaneo nato nella sua mente la trafigge come se fosse la punta della freccia
che ha spezzato poco fa.
Il piccolo fiore, ragazza
pallida, Kikyou, torce la bocca nella
smorfia di un sorriso, parlandole attraverso il suo canto.
“Lo hai capito, vedo, Kashin. Lo
sai, no? Quanto vive un fiore, intendo.”
Weize si ritrae con un urlo di
angoscia, cadendo sui gomiti e pedalando coi talloni per allontanarsi da
Kikyou.
“No! Ragazza malvagia! No, no!
Malvagia e bugiarda!”
Gli occhi scuri e gelidi della
ragazza la imprigionano.
“Lo hai sempre saputo, Kashin. Lo
hai sempre saputo, ma hai preferito ignorarlo. Lo chiami amore?” La ragazza
malvagia ride con un disprezzo non dissimile a quello che lei le ha riservato
poco prima. “Se fosse amore ti saresti fermata.”
Weize si ricompone, chiudendosi
al dolore per non mostrarlo alla ragazza malvagia che la vuole uccidere.
Non tremerà e non avrà paura. Non
ha mai avuto paura con il suo amato accanto e se dovrà morire oggi non lo farà
tradendo quello che è sempre stata.
Si rizza in piedi, gettandosi i
capelli all’indietro.
“Ti sbagli, Kikyou. Puoi crederlo
se vuoi, ma sbagli. L’amore non è fatto per lasciare andare chi si ama.”
La ragazza malvagia si rialza
anch’essa.
“Dagli il nome che preferisci,
Kashin, ma lo stai uccidendo. Quel che c’è fra voi non è permesso, né tra la
mia gente, né tra la vostra. Tu lo sai il perché. Per quanto lui sia forte, il
suo bisogno lo sta distruggendo. Per quanto tu
sia forte, il tempo della fioritura è già finito. Con tutto il tuo potere, non
potrai tenere a bada la morte ancora per molto.”
Weize trema, ferita dalle parole
gelide della ragazza.
“Sei crudele. Io l’ho amato da
sempre. Non posso fare altro, perché quello che sono non si può cambiare. Cosa
faresti tu al mio posto, piccolo fiore?”
Kikyou non le risponde, immobile.
Weize alza la faccia verso la
burbera faccia gialla e sorride. No, non c’è ragione di avere paura davanti a
questa ragazza.
“Hai ragione, piccolo fiore.”
Annuisce, come se Kikyou le avesse risposto, il volto baciato di continuo dalla
burbera faccia gialla. “Io sono quella che sono e non posso essere diversa,
proprio come te.”
Incrocia di nuovo i suoi occhi in
quelli scuri della ragazza.
“Io sono stata fatta per amare,
anche se tu credi che non ne sia capace. E tu, che invece sei umana, sei stata
fatta per il vuoto. Perciò, anche se oggi tu mi ucciderai, io piangerò per te,
piccolo fiore.”
La ragazza non riesce a
nasconderle il suo stupore. Weize sorride mesta e si inginocchia vicina al suo
amato, accarezzandogli il braccio.
“Davvero il mio amore vi sta
uccidendo, mio amato? Mi dispiace. Perdonatemi! Non è mai stata mia intenzione
farvi del male. Se devo morire per voi, morirò. Sarò coraggiosa. Voi mi avete
sempre detto quanto io sia …” La gola stretta, non riesce a andare oltre.
Stringe il braccio che sta accarezzando, si avvicina alla bocca del suo amore
per baciarlo un’ultima volta. “Non potete dirmi addio, almeno, mio amato? Non
vi chiederò niente di più. Solo quest’unica cosa.”
Freme, piena della speranza di
sentire la sua voce. Sfiora le sue labbra con le labbra.
Nulla.
Si alza un’ultima volta, le
spalle dritte di fierezza, e annuisce.
“Ho capito.”
“Fai quel che devi, piccolo
fiore.”
Cammina a passo svelto nella
direzione del canto. Vuole sbrigarsi, vuole trovare la proprietaria di quella
voce prima che si azzittisca. Vuole vedere. Vuole ascoltare.
Vuole.
Ora che il Kashin le ha dato il
permesso e se ne sta diritta di fronte a lei, vicina al suo sensei
inginocchiato, e la fissa con occhi verdi e lucidi, Kikyou esita. E’ così bella
e così … così …
Scrolla la testa. No: è solo la
malia del Kashin, nient’altro. Deve stare attenta a non farsene irretire come
ha fatto Nobunaga. Ma adesso, come farà?
Il Kashin le sorride per la prima
volta da quando si sono incontrate e il suo sorriso ha il potere di
trasformarle il viso in qualcosa di ancora più bello, luminoso e impavido.
“Non sai come fare, piccolo
fiore? Se mi uccidi ucciderai anche lui, giusto?”
Kikyou annuisce, troppo sorpresa
per rispondere.
“Il mio amore ha fatto radici
dentro il mio amato. C’è solo una cosa da fare, dunque. E se lui ti ha portata
qui, vuol dire che è convinto che tu ne sia capace.”
Kikyou si piega per la seconda
volta in una deferente riverenza: ma questa volta non c’è inganno nel suo
gesto.
“Siete davvero coraggiosa, mia
regina. Ora capisco perché sensei Nobunaga vi ama.”
Kikyou si abbandona alla musica,
lasciandosene catturare, e intreccia il suo canto con la danza.
Miko-mai.
C’è una radura e quando Onigumo
scosta i rami di un salice la scena che gli si presenta non ha alcun senso, e
lui si chiede se per caso non è impazzito come l’ubriacone gli ha detto che
sono impazziti i pochi sopravvissuti usciti dal bosco.
Cosa ci fa qua un giardino? Un
giardino piccolo, ma completo in ogni suo aspetto, compreso uno di quegli
odiosi sozu che con il loro tonfo
continuo gli han sempre allegato i denti.
E poi c’è un vecchio prete con il naso schiacciato che
se ne sta in ginocchio a occhi chiusi.
E c’è, e questo è interessante,
una ragazzina dai folti capelli neri, vestita di bianco, che gli gira la
schiena. E’ lei la cantante la cui voce l’ha attirato sin qua. Ulteriore
stranezza, sembra che la ragazza stia parlando mentre canta (e come ci
riesce?), rivolgendosi a un invisibile interlocutore. Onigumo strizza gli occhi
in due fessure: no, non c’è nessun altro. Che succede?
Ma la silenziosa domanda viene
subito dimentica, perché in quel momento la ragazzina solleva un braccio al
cielo e, piegandosi nella movenza più aggraziata che Onigumo ricordi di aver
mai visto in vita sua, comincia a danzare.
E’ come se le radici del Kashin
fossero abbarbicate alla musica del Fato. La voce di Kikyou e i suoi passi
disegnano un intrico nella terra in cui Weize è piantata, risalendo fino a
toccare la tamashii di Nobunaga. Il tumulto combinato delle passioni del suo sensei
e del Kashin la colpiscono con tale violenza da farla urlare e perdere
l’equilibrio. Si sente un pescatore che affronta la più violenta tempesta su
una fragile barchetta.
La ragazza fa qualche passo di
danza, ma cade a terra con un grido. Scuote la testa e sembra che rialzarsi in
piedi le costi fatica. Apre e chiude le mani a pugno.
Poi leva di nuovo il canto e lo
splendore della sua danza gli strappa un rantolo rauco dalla gola.
Kikyou afferra la prima radice
del Kashin, sciogliendone il viluppo attorcigliato attorno all’anima del suo sensei.
Dolore come lame le si conficca nei polpacci, più intenso a ognuno dei suoi
passi di danza.
La ragazza sta ballando intorno
al vecchio inginocchiato, ma Onigumo ha occhi solo per lei. Non ha mai veduto
niente di altrettanto meraviglioso. Se solo riuscisse a guardarla in viso. Se
solo …
Appena sotto al canto, il
sommesso brusio si fa risentire.
Per ciascuna delle radici che
riesce a strappare, il dolore si fa più straziante, tormentandole il cuore come
non avrebbe mai creduto. Lacrime le scorrono lungo le guance e tutta la forza
del suo addestramento è ridotta a niente. Sposta lo sguardo da Nobunaga a
Weize. Molti dei petali della peonia si sono arricciati, perdendo il loro
vigoroso violetto per diventare di uno spento color marrone.
Ma il Kashin non sembra
spaventata. La sua bellezza è intatta e quando si accorge che la sta fissando,
le sorride per incoraggiarla.
Kikyou avverte qualcosa
rivoltarsi dentro di sé. Scuote la testa, pur senza smettere di ballare e
cantare.
“No, non ci riesco, non posso.
Non credevo che ...”
Il Kashin le muove incontro e
solo allora Kikyou si accorge che numerosi squarci si aprono sulle sue caviglie
e sui piedi. Lascia dietro di sé impronte sanguinolente sull’erba mentre le si
avvicina per sorreggerla, prendendole un gomito.
“Stai facendo bene, piccolo
fiore. Non fermarti adesso.”
E poi Weize le mozza il fiato per
l’incredulità quando, con voce soave e sicura, affianca al suo canto uno dei
canti di potere di sensei Nobunaga.
La ragazza incespica, ma ritrova
l’equilibrio in qualche modo. Però ha rallentato i suoi movimenti. Se dovesse
girarsi verso l’albero dietro il quale è nascosto, se i suoi capelli si
scostassero al momento giusto, allora forse potrebbe …
Il brusio nelle sue orecchie
aumenta di qualche ottava. Onigumo irrigidisce di scatto le spalle, le narici
dilatate come un animale, il suo sopraffino istinto di sopravvivenza all’erta
come non mai. Dimentica la ragazza per una manciata di secondi, dardeggiando
l’oscurità alle sue spalle. Il gelo del bosco gli serra lo stomaco.
Sostenuta dal canto del Kashin,
Kikyou sente nuovo vigore scorrere dentro sé e riesce a recidere le ultime
radici.
Weize le sorride mentre il suo
corpo impallidisce.
“Mi dispiace! Mia regina! Weize!
Mi dispiace, oh mi dispiace tanto!”
Il suo nuovo corpo sta
scomparendo e, anche se lei sa che non ce ne saranno altri, non è spaventata.
Nei pochi giorni della sua fioritura ha conosciuto il compimento della sua
vita. Cosa può chiedere di meglio, un fiore?
La sua voce si affievolisce,
incapace di proseguire il canto d’amore che il suo amato cantò per lei la
mattina in cui la vide sbocciata. Le guance del piccolo fiore sono solcate di
lacrime, poiché si è presa carico del dolore di tutti loro. Le sorride.
Vorrebbe dirle che non la odia, che le è grata per avere salvato il suo amato.
Schiude la bocca, ma proprio in quel momento un gelo nuovo la ferisce. C’è
qualcosa nascosto dietro a un salice. Qualcosa di morto e che, come tutte le
cose morte, era fin’ora riuscito a sfuggire alla sua vista, ma che adesso sta
prendendo vita.
L’immagine che si presenta alla
sua mente è quella di un bruco: uno di quei grassi, bianchi bruchi ciechi,
ottusi e sempre affamati, tutti zampe e denti, uno di quei mostri che Nobunaga
teneva lontano dal giardino in cui ha trascorso la sua infanzia. Oh sì, certo,
quei bruchi a volte diventavano delle bellissime farfalle. Ma non questo: ciò
che è destino debba nascere da questo bruco è nero e informe, mostruoso oltre ogni
immaginazione, ed è un pericolo. E c’è un fiore in particolare, che questo
bruco vorrà divorare a qualsiasi costo.
Weize prova a sollevare il
braccio, ma si accorge di essere caduta in ginocchio senza accorgersene. Kikyou
sta ruotando su se stessa negli ultimi passi di danza, il canto sta
raggiungendo l’apice.
“Attenta, piccolo fiore!” la sua
voce è inudibile. “Nessun fiore è destinato a vivere a lungo. Stai attenta!
Attenta all’Oni!”
La danza e il canto della ragazza
sono di una tale, struggente bellezza, da lasciarlo paralizzato. Cos’è questo
nodo nel fondo della gola? E adesso la ragazza sta per voltarsi proprio di
fronte a lui. Vedrà il suo viso. Eppure il gelo è più fitto che mai, gli entra
nelle ossa, il brusio nelle orecchie cresce e cresce, diventa un ronzio, gli
trapana il cranio, quasi sembra che ci siano parole e lui non deve udirle,
altrimenti …
La gola strozzata, Onigumo geme
un rauco “No!” e si schiaccia le mani sulla faccia un momento prima che la
ragazza si volti del tutto.
Guarda. Guarda la tua morta sposa, morto dentro. Guardala e datevi l’un
l’altra l’unico amore che vi meritate.
Le mani schiacciate in faccia
come un bambino, Onigumo divarica un po’ le dita.
Kikyou intravede soltanto il
Kashin, tra le lacrime che le velano gli occhi, crollare in ginocchio,
sorridente alla morte. Poco prima di svanire per sempre, ritornando alla terra
che le ha dato la vita, la sua espressione cambia e muove le labbra come per
dirle qualcosa.
Attenta, piccolo fiore. Nessun fiore è destinato a vivere a lungo.
Non capisce se aggiunge altro. Il
corpo pieno di ferite si accascia e Kikyou assapora, indifesa, la sua morte.
Le sue dita si divaricano, contro
la sua stessa volontà, il bisogno di sbirciare è irresistibile, vedere i
lineamenti della ragazzina vestita di bianco, chissà chi è, chissà com’è fatta,
chissà …
Con un ringhio, Onigumo si torce,
scostando la testa come se avesse ricevuto un pugno, cade a quattro zampe e
gattona, goffo, allontanandosi dal giardino e dalla ragazza che sta ballando.
Guarda, Onigumo. Guarda. Morto dentro, guarda.
“Ah-ah, no, non va bene, no non
oggi, ci sarà già un’altra volta oggi no, no, no …”
Borbotta le sue smozzicate
negazioni senza avvedersene e scappa quasi strisciando dal più grave pericolo
che abbia mai conosciuto.
Nobunaga solleva le palpebre e si
poggia il palmo sul petto, dove pulsa un vuoto doloroso e desolante.
Kikyou è inginocchiata e sta
piangendo in silenzio accanto alla peonia annerita e morta fino alle radici.
Nelle mani a coppa regge la corolla, tutta grigia e marrone e consumata. La
culla piano e lui la sente mormorare tra le lacrime.
Si avvicina e coglie qualche
parola tra i singhiozzi.
“Mia regina perdonatemi, mi
spiace, non volevo! Oh, guardate cosa vi ho fatto, io …”
Le posa la mano sulla spalla, ma
Kikyou se la scrolla via con un grido, travolgendolo con un’occhiata piena di
rabbia.
“Non mi toccare!”
E poi si rannicchia come se
dovesse proteggere il fiore morto che tiene tra le mani.
Nobunaga afferra la spalla
sottile della ragazza con più decisione. Stavolta lei non si sottrae,
limitandosi a piegarsi di più su se stessa.
“Kikyou.” Mormora, si china su di
lei, le scosta i capelli e le asciuga le lacrime dalle guance con il pollice.
Weize è la sola che saprebbe
riconoscere tutta la dolcezza del suo gesto.
“Kikyou.” Insiste. “In piedi.
Avanti. Alzati.”
Scrolla la testa, muta; poi posa
la corolla avvizzita accanto allo stelo morto e annuisce.
Onigumo ha corso carponi,
ignorando i palmi sbucciati, e malfermo sulle gambe ha ritrovato l’equilibrio,
senza smettere di correre neppure per un attimo. Ha i capelli ritti, ansima e
corre come se tutte le sue vittime lo stessero inseguendo: deve uscire da
questo bosco prima che il vociare nelle sue orecchie diventi intelligibile.
Altrimenti …
Lacrime asciugate, capo
orgoglioso levato, sguardo perso a scrutare lontano.
“Hai superato tutte le prove alle
quali ti ho sottoposto, miko Kikyou. Da questo momento in avanti tu sei una
miko, la più giovane che abbia mai addestrato. Dimmi: conosci ora il nome dei
tuoi più temibili nemici?”
“Sì, sensei Nobunaga.” Voce
composta, fredda quanto lo sguardo.
“Sono forse gli youkai, miko
Kikyou?”
“No, sensei.”
“Sono il dolore, la perdita, la
paura?”
“No, sensei.”
Ci sono parole nelle sue
orecchie: Onigumo si sforza di non ascoltare e corre, salta per schivare radici
che vogliono fargli lo sgambetto, ignora rami che gli frustano la faccia ed ecco
che forse c’è una luce là in fondo; in mezzo a quei tronchi finisce la tenebra
stregata del bosco dei salici …
Non vuoi vedere? Non vuoi sapere? Sì che lo vuoi. Chiedici pure, non
avere paura, chiedici il suo nome, noi che conosciamo il nome di tutte le cose
e possiamo insegnarlo a chi ci compiace. Devi solo chiedere: chiedi il suo nome.
“Dimmi i loro nomi, dunque.”
“I nomi dei miei nemici più
temibili, sensei, sono amore …”
“No, oggi no no non oggi …”
Ma c’è una parte di lui che vuole
chiedere, che vuol sapere, ed è così strano! Lui, per cui i nomi non hanno mai
significato niente.
Il suo nome, Onigumo. Il suo nome è …
K …
“ … e desiderio. Perché non c’è
barriera che li possa fermare, addestramento per tenerli lontani, disciplina
che li possa governare, equilibrio che non possano frantumare, e nella breccia
lasciata dalla devastazione del loro passaggio, qualunque cosa può entrare:
cupidigia, gelosia, pena, tristezza, paura, speranza, abbandono, gioia, bisogno
e tutte le altre cose di cui gli youkai si sfamano. E a me non sarà concesso di
conoscere …”
Lo sguardo di Kikyou è angosciato
ma fermo.
“… nessuna di queste cose.”
Urla a squarciagola per
nascondere al suo orecchio le voci invisibili e con un ultimo salto delle gambe
robuste si slancia attraverso i due salici. La luce improvvisa lo acceca e non
c’è più terra sotto i piedi, perché un declivio improvviso e imprevisto segna
la fine del maledetto bosco. Onigumo cade urlando e mentre cade il suo urlo si
trasforma in risata. Sbatte la testa e vede le stelle e ride, rotola su se
stesso, incapace di frenare la sua caduta e ride, sa che potrebbe spezzarsi il
collo e ride, mentre si rovescia di nuovo su se stesso, le gambe per aria e le
braccia davanti alla faccia e ride, e di nuovo ricade, la caviglia sbatte
contro qualcosa di duro, un sasso, la cucitura del suo stivale cede del tutto e
gli vola via e ride, tira indietro la lingua appena in tempo, prima che
l’ennesima botta gli faccia serrare i denti come una morsa col rischio magari
di mozzargliene via un pezzetto e oh! l’idea è troppo esilarante per non farlo
ridere e ridere!
Sbatte sul fondo del breve
pendio, ricadendo seduto a gambe larghe, illeso, le ossa scosse da capo a
piedi: la violenza della caduta tutta scaricata sui testicoli gli mozza la
risata in gola.
Sbianca, a un passo dallo
svenire, il dolore è una palla di piombo nel ventre, la bocca aperta e i
tendini del collo tirati in un urlo silenzioso, la mano sullo scroto e si
accascia piangente, sbuffa per riprendere fiato, ritrovandosi quasi a masticare
l’erba, oh dolore! Ma, solo pochi minuti, e tra gli sbuffi si infila suo
malgrado un cigolio sottile. Un po’ alla volta, Onigumo si rimette a ridere.
Percorrono una strada più breve
per riguadagnare l’uscita del bosco e lo fanno in silenzio, immersi ciascuno
nei propri pensieri.
Fuori alla luce, a raggiungere lo
spiazzo dal quale si sono incamminati la mattina, oltrepassato uno dopo l’altro
i tre torii, i rossi cancelli di
accesso al santuario shinto, a entrare nel recinto di pannelli di legno che
chiude il perimetro della radura sacra, accostandosi alla fonte: Nobunaga per
primo e poi lei.
Kikyou si lava le mani, prima la
sinistra, poi la destra, poi assieme, sfregandosele con forza fino ad
arrossarle; si china, trattenendo i capelli perché non le ricadano in faccia, e
procede all’abluzione rituale: l’acqua le ripulisce la bocca degli ultimi
rimasugli dell’orribile sapore del vomito.
Entrambi purificati, raggiungono
la campana del tempio. Nobunaga la invita con un cenno: Kikyou afferra la corda
ricavando un rintocco sonoro, china il capo due volte e batte le mani; di nuovo
suona la campana e si prepara ad allontanarsi, ma si trattiene, sapendo che
manca ancora qualcosa. Fruga all’interno della manica, prendendo la ciocca di
capelli che aveva deciso di conservare – le sembra sia passata una vita e non
poche ore! – e la posa accanto alla scatola delle offerte. Ripreso il cammino,
sono infine in vista del tempio vero e proprio, il Jinja: Nobunaga si lascia alle spalle le statue in pietra dei
koma-inu, i cani leone preposti a proteggerne l’entrata dagli spiriti maligni,
e le fa strada nell’unica stanza immersa in penombra.
Kikyou resta attonita per un po’,
scrutando con cura il proprio riflesso nello specchio sacro che riposa
all’interno del tempio. L’immagine è diversa da stamane – lei è diversa. La
gravità e il distacco nel suo volto e nello sguardo, la postura diritta e
solitaria: sì, il suo addestramento è davvero completo. Reprime un brivido,
lascia che gli insegnamenti appresi in tutti gli anni passati allontanino quel
che prova
(struggimento?)
e allenta i nodi della sua bianca
veste da apprendista.
Quattro i tentativi prima di
riuscire ad alzarsi da terra. Per tre volte si è accasciato, l’inguine pulsante
a spedirgli nella pancia e nelle vene sofferenza di ogni colore. E tutte le
volte, senza preoccuparsi di peggiorare il suo tormento, si è messo a
ridacchiare, piangendo ma ridendo; perdendo i sensi alcuni minuti e belando la
sua risatina ancor prima di aver ripreso conoscenza.
I suoi passi sono una tortura, il
sudore gli finisce negli occhi in grossi goccioloni, ma seguita a scoppiare a
ridere e ride come non gli pare d’aver mai riso, neppure da bambino. Le sue
sorelle e suo fratello: loro ridevano a quel modo, a volte, ma avevano imparato
presto a nascondersi da lui quando lo facevano, perché avevano scoperto a loro
spese che ridere così se lui era a portata d’orecchio scatenava una degli
incontrollabili scoppi di rabbia che di tanto in tanto lo coglievano.
Eppure adesso che assaggia la
stessa risata, non può fare a meno di pensare che sia piacevole.
Prosegue per più di due ore, il
sole inclinato nel tardo pomeriggio, il martellio nell’inguine ormai
sopportabile, e la sua allegria non si è spenta. Lo coglie alla sprovvista di
tanto in tanto e quando succede Onigumo solleva la testa al cielo ridendo, le
braccia ciondoloni nella sua andatura dinoccolata ma agile.
“Visto? Non sono quel che hai
detto, vecchia pazza.”
E continua così, parlando da
solo, sbuffando, imprecando quando un sassolino o un ramoscello gli pungono la
pianta del piede indifesa, ma traendo divertimento persino da questi piccoli
incidenti che, in un altro giorno, lo avrebbero fatto imbestialire.
Si sta avvicinando alla città di
Ishimatsu: di questo passo la raggiungerà prima di sera! Ride anche di questo e
girando la testa vede un solitario contadino con un cappello di paglia a tesa
larga, attardatosi nei campi vicino alla strada che sta seguendo, fargli un
saluto sorridendo alla sua immotivata allegria.
Onigumo gli risponde con un ampio
gesto del braccio, ghignando e sventolando le dita in un gesto quasi lezioso.
Il contadino si leva il cappello e fa un piccolo inchino. La mano destra di
Onigumo scivola dietro la sua schiena.
Gli hakama sono rossi, mentre
l’hitoe da miko è bianco ma di una fattura diversa da quello che indossava
poc’anzi. Kikyou aggiusta le pieghe delle sue nuove vesti e si lascia scorrere
tra le dita il liscio nastro bianco col quale tra poco si annoderà i capelli.
Senza smettere di agitare il
braccio sinistro, Onigumo sfila dalla cintura il pugnale e lo lascia volare a
piantarsi nel petto del contadino sconosciuto che piomba fra il grano fitto
senza neppure un grido.
“Benvenuta a voi, miko Kikyou.”
Kikyou volta la schiena alla miko
imprigionata nello specchio.
“Bentrovato a voi, houshi
Nobunaga.”
La faccia del contadino ha
conservato il sorriso col quale gli ha dato il benvenuto e forse non si è
neppure accorto di essere morto. Ci sono di sicuro molti modi peggiori per
crepare, già.
Il ghigno di Onigumo si dilata.
“Begli stivali.” Sibila, e ride.
Sono una volta di più nella
radura dalla quale tutto è cominciato. Nobunaga guarda la giovane ragazza e
deve serrare le palpebre perché davanti allo sguardo gli è danzata l’immagine
fantasma di Weize.
Perciò, incapace di trattenersi,
tradisce se stesso.
“Non andartene domani, Kikyou.”
Kikyou non aggrotta neppure la
fronte.
“Sensei, da domani non sarò più
una vostra allieva, quindi non ho ragione di restare. Come voi stesso avete
predetto, lascerò le mie stanze e il tempio per non tornare.”
“Potresti rimanere comunque, come
miko. Hai ancora molte cose da imparare: infiniti sono gli equilibri possibili
e tante le strade per smarrirli e per ripristinarli. Tu sei troppo giovane per
conoscere queste cose … e …”
Nobunaga abbassa la testa,
umiliato, quando si accorge di stare balbettando, e il viso di Kikyou si
illumina di un sorriso che la restituisce alla sua vera età.
“Non abbiate paura per me,
sensei. Sarete orgoglioso della vostra allieva, vedrete.”
“Ma io già lo sono, Kikyou.”
Torna seria per aggiungere.
“Vi chiedo un ultimo favore:
assegnatemi come miko al mio villaggio natio.”
“C’è già una miko nel tuo
villaggio, Kikyou.”
“Non più. E’ morta di tifo più di
un mese fa.”
“Capisco. Sarà come desideri,
dunque. C’è altro?”
“In quanto miko, rivendico il
diritto di scegliermi un’allieva a cui insegnare quel che so.”
Nobunaga annuisce in silenzio.
“L’anno passato mia madre mi
scrisse che mia sorella Kaede stava dimostrando anch’ella un considerevole
talento nelle arti delle miko. Designo lei a essere mia allieva e la addestrerò
al nostro villaggio.”
“Se non sbaglio tua sorella ha
compiuto da poco i sei anni, vero?”
Tocca a Kikyou annuire e Nobunaga
continua con dolcezza.
“E’ stato poi tanto terribile
crescere qua, Kikyou?”
La ragazza sgrana gli occhi,
imbarazzata.
“E i tuoi genitori? Quando è
stato?”
“Mia madre fra i primi.” Ribatte
capendo subito il senso della domanda. “Mio padre mi ha scritto di averla
seppellita lui stesso. Lui ha resistito più a lungo. Ventun giorni fa. Il
messaggero è partito con la sua missiva subito dopo.”
“Mentre Kaede …”
“Lei non si è ammalata, grazie ai
Kami.”
“Potreste restare entrambe …”
riprova lui.
“Vi ringrazio, sensei, ma
preferisco occuparmene io.”
“Come vuoi: ma stai attenta
perché, vedi?, non sei ancora tornata a casa, ma tua sorella ti sta già
insegnando ad amarla.”
Kikyou ha un’aria sorpresa.
“Insegnando? Sarà lei la mia
allieva, sensei: io insegnerò a lei. Io a lei, non lei a me.”
Il silenzio attonito che segue la
sua ultima dichiarazione viene rotto quando entrambi si mettono a ridere,
spazzando via l’oppressione lasciata della giornata.
“Ho detto davvero una cosa del
genere? Oh, sensei, sono più provata di quanto credessi!”
Il giorno successivo, salutata
per l’ultima volta la sua allieva prediletta, Nobunaga sarebbe restato a badare
al giardino fino a sera, contemplandone la bellezza perfetta eppure spoglia,
tastandosi di tanto in tanto il petto per saggiare le cicatrici rimaste dentro
di sé e leggendo il proprio destino nell’intreccio delle radici e dei fiori.
Avrebbe sospirato passandosi la mano tremolante da vecchio sul viso e sapendo
che avrebbe dovuto restituire alla terra la sua vita quello stesso inverno.
Forse chissà, così avrebbe rincontrato il suo amore.
Masashiro è in ritardo, perciò
cammina alla svelta. Il sole è quasi tramontato e lui deve rientrare in città
prima che faccia buio, altrimenti quei bastardi lo terranno fuori dai cancelli
fino all’indomani. Distratto da questo pensiero nella testa, la manata lo
colpisce tra le scapole cogliendolo del tutto di sorpresa, buttandolo in avanti
e mancando poco dal farlo cadere rovinosamente in terra. Il dolore e la
sorpresa lo fanno gridare e gira su se stesso, la mano sull’elsa del coltello,
pronto a ridisegnare in modo fantasioso i connotati dell’uomo che si è permesso
di giocargli un tiro del genere.
Le dita contratte si rilassano
non appena riconosce nella luce morente il suo misterioso aggressore.
Deglutisce e qualsiasi problema potrebbe avere con le guardie alle porte di
Ishimatsu finisce all’ultimo posto nella lista delle sue preoccupazioni.
“Proprio una giornata benedetta
dalla fortuna, già. Dunque, cosa aspetti? Non si salutano gli amici?”
“Onigumo …” Masashiro annaspa
alla ricerca di qualcosa di poco impegnativo da aggiungere: non può farci
niente, Onigumo gli mette sempre addosso i brividi. E dannazione, ma è
possibile che le loro strade dovessero incrociarsi in questo modo? “ … non ti
aspettavo prima di un paio di giorni, almeno.”
Onigumo gli sorride, mettendo in
mostra i suoi grossi denti. Ha un’aria strana: Masashiro non capisce cosa sia,
però sa che gli fa più paura del solito.
“Ho preso una scorciatoia. Sì,
davvero un giorno molto fortunato: incontrarci proprio qua ne è un degno
coronamento. Chi l’avrebbe mai detto, eh?” e gli rifila un’altra pacca sulla
spalla.
Onigumo non è mai così espansivo,
euforico. E i suoi occhi, che di solito sono sempre cupi, spenti, da
ricordargli pozze di sabbie mobili, gli brillano di una luce strana. La paura
di Masashiro diventa terrore quando capisce che in questo momento Onigumo
potrebbe ucciderlo senza ragione, per il solo gusto di festeggiare a modo suo
la sua oscura allegria.
“I compagni di cui mi avevi
parlato? Sono rimasti più indietro, lungo la strada?”
Onigumo esplode in una risata che
è un grido, come avesse sentito la battuta più spassosa della sua vita. Le
ginocchia di Masashiro tremano e sfiora senza volere l’elsa del coltello.
“Sì, l’hai detto! Erano un
bagaglio inutile e li ho lasciati indietro lungo la strada, sìsì.”
“Ma cosa fai con quel coltello,
eh?”
Fa un sorriso sciocco e apre le
mani vuote. “Nulla. Piuttosto, vogliamo andare? Immagino che vorrai riposare in
una bella locanda in città, vero? Avanti, ho già in mente un alloggio adatto.
Ti piacerà!”
Onigumo scrolla la testa su e
giù, invitandolo con la mano a procedere, e Masashiro si avvia, rilassandosi
appena. L’ha scampata bella, ne è sicuro: c’è qualcosa addosso a Onigumo,
stasera, come un’ombra, un riflesso, che trasforma i suoi intestini in acqua;
ma se starà attento …
Ricordandosi uno dei passatempi
preferiti di Onigumo, aggiunge.
“E ci sono delle ragazze davvero
graziose, tra l’altro, pronte a farci compagnia per un prezzo ragionevole. Se
il colpo che avevi in mente è andato bene come credo, non avrai difficoltà a
comprarti una nottata piacevole. Immagino che dopo un viaggio faticoso un po’
di svago sia quello che …”
La grossa mano di Onigumo gli
serra una spalla costringendolo a ruotare su se stesso. Con un gridolino di cui
fa in tempo a vergognarsi, Masashiro chiude gli occhi, sicuro che sia arrivata
la sua ora. Onigumo gli stringe l’altra spalla con la mano libera. Masashiro
schiude le palpebre, trovandosi a scrutare lo sguardo smorto e cupo dell’altro.
Ma non sono solo i pazzi a cambiare umore da un momento all’altro in questo
modo? Sì: però Onigumo non gli ha mai dato l’impressione di essere pazzo. Quasi
lo preferirebbe.
“Non ho mai pagato per possedere
una donna.”
“Ce-certo, Onigumo, scusami non
intendevo dire …”
Gli stringe le spalle con più
forza.
“Né mai avrò bisogno di farlo.”
E poi Masashiro vede l’esatto
momento in cui la vita sembra ritornare una volta ancora in quegli spenti occhi
marrone, illuminandoglieli. Onigumo gira la testa a sinistra, come attratto da
un richiamo.
“Forse.”
Gli lascia le spalle, gli
aggancia un braccio al collo e lo trascina a grandi passi verso la città.