Another Baby Is Dawning
Another Baby Is Dawning
Even A Mother Should Know
“Siamo a casa!”
esclamò allegro un esile ragazzo, entrando nell’ingresso della casa.
“E siamo
affamati.” Aggiunse un altro dietro di lui. Era la sua copia esatta, se non
fosse stato per quei vestiti in cui navigava esageratamente dentro, quei capelli
rasta, quell’andamento svogliato…
“E avete
ospiti.” Avvisò il terzo, entrando.
“E non mi viene
più niente da dire…” ridacchiò il quarto ed ultimo.
La ragazza,
sdraiata sul divano, si mise seduta e guardò alle sue spalle.
“E guai a voi se
lasciate tutte le borse a giro nell’ingresso!” Li salutò come sempre, mentre gli
altri – tranne uno –, che avevano appena posato tutto immancabilmente
nell’ingresso, ripresero le borse e le misero in un angolino tutte vicine. “Come
è andata?” aggiunse.
“Siamo
sopravvissuti anche oggi.” Commentò quello con i rasta, l’unico che non aveva
prestato attenzione alla minaccia della ragazza riguardo alla borsa. Si avvicinò
a lei e le si sedette accanto. Presto anche gli altri li raggiunsero e si
accomodarono nel salotto. “Ma, sai,” continuò, passandole un braccio intorno
alle spalle ed avvicinandola a sé. “David Jost non è mai facile da sopportare.”
La ragazza si
sottrasse a lui e lo guardò truce. “Se non togli la borsa dall’ingresso, la
tolgo io e non la rivedrai più.” Sorrise superiore.
Il ragazzo
sbuffò, dandole una leggera spinta sulla spalla e si alzò. Prese la borsa e
tornò verso la ragazza, che gli dava le spalle. Noncurante, fece cadere la borsa
sopra le gambe di lei, che trasalì spaventata e si voltò di scatto, riducendo
gli occhi a due fessure.
“Tom, sai dove
te la infilo la borsa, ora?” ringhiò.
“No, fammi
capire.” La sfidò lui, sedendosi accanto alla ragazza.
“In cu-”
Tom la zittì,
non come avrebbero fatto tutti gli altri miseri mortali, ma come avrebbe fatto
un Sex Gott: posò le sue labbra su quelle di lei e le mordicchiò leggermente. Ma
lei si allontanò subito. Certo, aveva aspettato un momento simile per tutta una
giornata, visto che lui e suo fratello avevano dovuto uscire presto quella
mattina, e lei era rimasta sola a casa. Aveva chiesto qualche giorno di ferie
perché si sentiva stanca, ma aveva nascosto tutto agli altri, dicendo che erano
ferie che doveva obbligatoriamente prendere per legge. Le avevano creduto,
lamentandosi sul motivo per cui a loro queste non erano concesse.
“Non puoi
sperare che ogni volta tu l’abbia vinta facendo così!” L’accusò, rovesciando la
borsa sul pavimento con una spinta. A Tom questo suo gesto risultò totalmente
indifferente.
“Ma ci riesco,
no?” le sorrise soddisfatto.
Lei lo guardò
truce. Sì, ci riusciva. E anche troppo bene. Si morse un labbro per non far
trapelare un sorriso – doveva mantenere la sua posizione – e si alzò per posare
la borsa del rasta insieme a quelle degli altri, quindi tornò al suo posto.
“E tu, Inge?” si
informò il ragazzo dai corti capelli biondi, seduto sulla poltrona affianco a
lei. “Cosa hai fatto?”
La ragazza si
allontanò leggermente dal Tom che l’aveva avvolta in un abbraccio, stringendola
stretta a sé e si sistemò i suoi lunghi capelli rossi e mossi in una coda.
“Be’, ho avuto
anch’io le mie grane.” Sorrise dolcemente, per poi roteare gli occhi fino al
soffitto, alludendo al piano di sopra. Non era vero, si divertiva con Alex, ma
un’eccessiva esposizione all’energia di quel bambino rischiava di provocare seri
danni, come un’immensa stanchezza che si propagava dalla punta dei piedi a
quella dei capelli.
“Ah, già!” si
ricordò il rasta, dandosi una pacca sulla fronte. “Dove è la peste?”
“C’è ancora tua
madre di sopra. È con lei.” Fortunatamente. Da quando Simone era
arrivata, aveva cercato di stare tutto il tempo a lei concesso con quel
diavoletto. La faceva ritornare giovane, le aveva confessato una volta a pranzo.
E chi era Inge per impedirle di distruggersi psicofisicamente a rincorrere un
demonio di cinque anni per la casa per una giornata intera? Nessuno. E infatti
la lasciava divertire con suo nipote, ottenendo in cambio delle preziose ore di
riposo, motivo per cui, in fondo, rimaneva a casa. Chissà, forse Simone
sapeva ed era tornata da loro in anticipo di un paio di settimane
dall’usuale visita successiva apposta. Dopotutto, non si poteva nascondere
niente a Simone. In un modo o nell’altro, quella donna riusciva sempre a
sorprenderla. Inge non sapeva cosa le passasse per la testa, ma si rendeva conto
che ciò che Simone faceva, l’aiutava sempre. In un modo o nell’altro.
***
Tom portò lo
sguardo al soffitto e sorrise, ricordandosi il modo in cui sua madre era venuta
a sapere dell’esistenza di quel piccolo diavolo in casa loro.
Arrivò un giorno
di Febbraio per fare una sorpresa a tutti loro. Aveva già saputo della presenza
della rossa in casa loro – e soprattutto del suo carattere – ma non aveva la
minima idea che quella casa si fosse espansa ulteriormente. La sorpresa, quindi,
la ricevette lei. Quando aveva suonato, suo fratello era andato ad aprire
zampettando dalla cucina, senza sospettare la sua visita. Non appena se l’era
ritrovata davanti, il tipico sorriso di circostanza che mostrava ad ogni ospite
si volatilizzò all’istante, lasciando il posto ad una mandibola pericolosamente
tendente al terreno.
“Mamma!” aveva
esclamato tra la sorpresa e la paura, aprendole il grande cancello di ferro.
“Cosa ci fai tu qui?”
“Sono venuta a
trovarvi, no?” aveva risposto lei ovvia, entrando e posando un paio di borse che
portava con sé. “Ci siamo visti pochissimo in questi anni, presi come eravate
dai vostri impegni!” e lo aveva abbracciato, stritolandolo in una morsa materna.
“Mi concedete solo telefonate.” Si era rattristita, guardandolo puoi
languidamente negli occhi. Da qualcuno Bill doveva pur aver preso… “Ma sono
vostra madre, no? Avevo voglia di vedere sia tu, Bill, che Tom. E naturalmente
anche Inge!” Gli aveva infine sorriso solo come una madre sapeva fare.
Il ragazzo si
era trovato a boccheggiare. Non sapeva che dirle, non avevano mai affrontato
“l’argomento Alex” con lei. Certo, sapevano che sarebbe arrivato il momento, ma
non avevano mai pensato che quel momento sarebbe saltato fuori così
improvvisamente e senza preavviso! Piuttosto si aspettavano la visita di qualche
loro fan, che da qualche tempo a quella parte avevano iniziato a sospettare
della loro collocazione e si aggiravano nei paraggi sfacciatamente. Bill aveva,
quindi, tossito per evitare di far cadere un silenzio pericolosamente e
spaventosamente imbarazzante e lo aveva chiamato.
Tom aveva
risposto svogliato come al solito, ed aveva sceso le scale. Sopra c’era Inge che
stava cercando di far fare il bagno al bambino, e in quel preciso momento lo
stava sciacquando con addosso una avventata maglietta bianca ormai bagnata, che
lasciava generosamente vedere al ragazzo il piccolo ma ben apprezzato reggiseno.
Era sceso contro la propria volontà – spronato da Inge –, prendendo nota mentale
che si sarebbe rifatto alla prima occasione, ma non aveva avuto il tempo di
crogiolarsi in quelle fantasie che i suoi occhi si trovarono fissi in quelli
della madre, a pochi metri da lui. Il suo cervello era andato in black-out e
tutto ciò che riusciva a pensare era il guaio che lo avrebbe indubbiamente
aspettato di lì a pochi minuti. Tutto il resto del corpo non esisteva più. Era
totalmente paralizzato.
Una saccente
vocina – per niente richiesta – dentro di lui lo stava sfacciatamente accusando
di essere un cretino. Dopotutto come aveva fatto in tutto questo tempo – tre
miseri mesi – a non dire niente alla madre? E proprio quell’accusa ebbe la
forza di far ricollegare il suo cervello: il primo pensiero fu l’immagine di se
stesso che strozzava suo fratello per non aver mai la testa di guardare prima
dallo schermo del citofono.
Nemmeno gli
costasse chissà quale spreco di calorie!
“Mamma!” aveva
esclamato dopo quegli istanti di silenzio. Purtroppo, la sua voce non era
riuscita a nascondere il terrore che già si stava impadronendo di lui, a partire
dalla testa fino alle gambe leggermente tremanti.
“Tom, che
succede?” si era insospettita lei, avvicinandosi a lui. Lo aveva analizzato da
capo a piedi e, sempre più sospettosa, gli si era fermata davanti.
“N–niente,
mamma.” Aveva sorriso nervoso. “Cosa dovrebbe succedere?”
Lei lo aveva
fissato ancora un po’, per poi essere interrotta dal rumore di alcuni passi che
goffamente scendevano le scale.
“Alex, no!”
aveva urlato Inge dal piano di sopra, scendendo pure lei. “Aspetta! Ti devo
ancora asciugare i capelli!”
Ma fu
impossibile fermarlo. Il bambino, infatti, aveva barcollato verso il ragazzo,
per poi soffermarsi dietro ed iniziare ad osservare la donna dai corti capelli
biondi che era entrata in casa loro. Aveva piegato la testa leggermente di lato,
inconsapevole del silenzio e della tensione che aleggiava nell’aria. Inge era
arrivata caoticamente nell’ingresso, sistemandosi meglio la maglietta asciutta
che aveva indossato, e si era immobilizzata a sua volta, trattenendo il fiato,
proprio come avevano già fatto loro due.
Il silenzio si
era fatto assordante.
Se Tom avesse
voluto piangere, quello sarebbe stato il momento giusto.
“Chi è lei?”
aveva, poi, chiesto Alex, tirando la lunga maglia di Tom per un lembo. La sua
voce era innocente e ovviamente inconscia del fatto che aveva appena acceso la
miccia di una bomba.
La donna gli si
era avvicinata, sgranando spaventosamente gli occhi ad ogni passo che
l’avvicinava al bambino. Aveva iniziato a balbettare parole incoerenti, che
avevano fatto capire a tutti i presenti che per nessun motivo avrebbe potuto non
riconoscere quei lineamenti. Si era poi inginocchiata davanti ad Alex, che
l’aveva guardata leggermente intimorito, nascondendosi dietro le gambe di Tom.
Poi aveva alzato gli occhi sul figlio che aveva vicino.
“Cosa vuol
dire?” aveva sussurrato in stato apatico.
Inge si era
seduta sugli ultimi scalini e si era iniziata a dare dell’idiota sommessamente
per aver permesso ad Alex di scappare al piano di sotto, coprendosi il viso con
le mani. Bill non aveva osato muoversi, osservando la scena con le gambe
tremanti. Tom aveva guardato sua madre negli occhi con tutta l’aria di voler
cambiare discorso al più presto, un sorriso tirato dei peggiori. La donna aveva,
poi, rivolto lo sguardo a Bill, che le aveva mostrato la stessa espressione del
fratello. Si era, quindi, alzata e con passo incerto si era diretta sul divano,
sprofondandoci dentro quasi fosse come privata di tutte le sue forze. Bill le
era corso dietro, impaurito per la sua reazione e Tom era rimasto nell’ingresso,
mentre Alex lo tirava per la maglia per avere una risposta.
Solo in quel
momento si era deciso a rispondere. E non solo ad Alex. Aveva preso il bambino
in braccio e si era avvicinato alla madre a passi decisi.
“Alex,” aveva
sorriso guardandolo, posizionandosi davanti alla madre. “Questa è la nonna.” E
gli aveva indicato Simone.
Il bambino aveva
sorriso. Non aveva mai avuto una nonna e per lui, evidentemente, quella era
stata senza dubbio una bella novità. La donna, invece, era rimasta apatica per
qualche istante prima di comprendere pienamente le parole del figlio. Infine,
però, si era alzata e aveva guardato il nipote. Tom non era riuscito subito a
decifrare il suo sguardo, sembrava, infatti, inespressivo.
E poi era
successo: Alex aveva allungato le piccole braccia verso di lei e si era
divincolato dalle braccia del padre per abbracciare la nonna. Il viso di Simone
si era illuminato e i suoi occhi erano tornati quelli di sempre, seppur con un
velo di tristezza negli occhi. Ma a guardarla meglio, Tom aveva capito che non
era tristezza, bensì dolcezza. Una rassicurante dolcezza.
Aveva preso Alex
in braccio e l’aveva stretto forte a sé, sorridendo come se stesse riprovando le
stesse sensazioni di quando poteva prendere in braccio i due gemelli. Lo aveva
guardato con soffice e delicata tenerezza e lasciato un piccolo bacio sulla
fronte.
“Ciao, Alex.” Lo
aveva accarezzato. “Sai che sei bellissimo?”
Il bambino aveva
riso, e tutta la tensione si era magicamente dissolta.
Ora, Simone
faceva loro visita almeno una volta al mese per un fine settimana. Alloggiava
nella stanza di fronte a quella di Tom, un tempo di Inge, mentre lei veniva
gentilmente ospitata da Tom nella sua. Solo qualche volta erano loro ad
andare a trovarla, supplicando Jost di concedere loro qualche week-end di
riposo.
“Vado a fare un
salto di sopra.” Annunciò Tom, alzandosi e dirigendosi verso le scale. “Potrebbe
essere svenuta a causa dell’iperattività di quel diavolo.” Aveva voglia di stare
un po’ con la madre, anche se avrebbe detto cazzate su cazzate prima di
confessarlo apertamente.
“Aspetta, vengo
pure io.” Disse Bill, inseguendo il fratello.
Gli altri tre
osservarono i due ragazzi salire le scale e sparire al piano superiore.
***
“Ehi,” mormorò
Gustav poco dopo, posando una grande mano sul braccio della ragazza. “Come
stai?” chiese preoccupato.
Inge lo guardò
confusa.
“Non capisco,”
gli rispose sospettosa. “Perché me lo chiedi? Sto bene.” E gli sorrise.
Purtroppo Gustav sapeva distinguere i suoi sorrisi. E quello era un sorriso di
cortesia che lasciava trapelare delle parole precise: “Non chiedermi altro”.
Il ragazzo la
guardò con uno sguardo eloquente senza dire più niente. Inge lo odiò per questa
sua capacità di capire gli altri. Con lui non riusciva mai a nascondere niente.
Non gli aveva mai detto niente riguardo i propri problemi – lei si teneva sempre
tutto dentro, raramente si apriva con qualcuno - tuttavia Gustav sembrava ancora
una volta aver capito.
“Allora?”
insistette il ragazzo.
Inge sospirò.
“Tranquillo. Sto bene.” Ripeté lei, portando i piedi sul divano e stendendosi
contro il bracciolo, le mani sulla pancia e gli occhi imploranti di chiudere la
conversazione.
“Sai,”
intervenne Georg, che era rimasto ad osservare il breve e silenzioso dialogo tra
di loro. “Penso di aver capito pure io.”
La ragazza,
subito si girò verso di lui, sgranando gli occhi.
C’è ancora
qualcuno che non ne sia al corrente?
Si domandò sarcastica. Possibile che contrariamente a tutto ciò che faceva,
riusciva solo ad ottenere il contrario? Sbuffò, afferrando un cuscino e
stringendoselo al petto.
“Siete
insopportabili quando fate così.” Borbottò. “Troppo saccenti per i miei gusti.”
I due
ridacchiarono e Georg, scivolando sul divano affianco a lei, spostandole i piedi
nudi per farsi spazio, le diede un pizzicotto sul braccio e sorrise
rassicurante.
“Tranquilla, non
diremo niente.”
Lei li guardò
minacciosa: “Sarà meglio per voi.”
Poi Gustav
sospirò, sempre con il suo gentile sorriso sulle labbra.
“Ci spieghi,
però, perché lo vuoi nascondere?” si appoggiò allo schienale e aspettò che Inge
smettesse di mordersi il labbro.
“Perché,” iniziò
titubante. “Ci sono… Complicazioni.”
Georg e Gustav
la guardarono perplessi.
“Vuoi forse…?”
mormorò Gustav, con una vena di timore nella voce.
“Inge!” la
ragazza trasalì, sentendo la voce di Tom che la chiamava dalla cima delle scale.
“Mia madre ti vuole parlare. Vieni?”
“Eh?” rispose
lei, prima che il cervello le metabolizzasse le parole di Tom. “Oh, sì…” e si
alzò, leggermente instabile, buttando il cuscino addosso a Gustav che si era
accorto dei suoi movimenti incerti e stava per aiutarla. Lo fissò per un
nanosecondo, rendendo esplicita la minaccia: guai a te! Camminò
velocemente verso Tom, che intanto stava scendendo, sempre seguito da Bill, e
salì le scale. Raggiunse la stanza di Alex ed entrò, trovando la donna seduta
sul letto del bambino che lo guardava dormire.
“Simone,”
sussurrò Inge. “Che c’è?” camminò verso il letto di Alex e fece per sedersi, ma
la donna la fermò e l’accompagnò nella propria camera, passandole un braccio
intorno alla vita per sostenerla. “Ehi!” si lamentò la rossa. “Che fai?”
Simone sorrise e
non la considerò.
“Guarda che sto
bene! Non sono moribonda!” e si tolse il braccio della donna dal fianco.
“Quanto sei
testarda.” Sospirò lei. “Volevo solo aiutarti.”
“A fare cosa,
scusa?” ribatté Inge. “Guarda,” e si indicò le gambe. “Le vedi? Penso servano
per camminare, sai?”
Simone sospirò
ancora. “Sì, sì. Proprio testarda.” Poi sorrise. “Sei uguale a Tom, sai?”
Questa volta fu
il turno di Inge per sospirare: non le piaceva ricevere così tante attenzioni.
Non era mica invalida! Anche se quel periodo era un periodo decisamente
particolare, non voleva dire che lei dovesse smettere ogni sua facoltà motoria.
Non c’era mica bisogno che tutti le stessero col fiato sul collo. Sapeva da sola
quando era stanca e sapeva da sola quando invece aveva la forza sufficiente per
fare ciò che voleva.
Entrarono
nell’altra stanza e si sedettero sul letto. Inge prese il cuscino e lo mise
contro la spalliera per appoggiarcisi sopra.
“Ecco, lo vedi?”
fece Simone.
“Cosa?” rispose
brusca lei. Non era sua intenzione rivolgersi a Simone con quel tono, ma non
sopportava che lei la trattasse così.
“Hai bisogno di
riposarti.”
“No, ho solo
bisogno di stendermi.” Replicò la rossa.
“E non è la
stessa cosa?” alzò un sopracciglio la donna.
“No.” rispose
decisa Inge. “Non è la stessa cosa.”
“Inge,” roteò
gli occhi. “Perché non metti da parte la tua testardaggine e lasci che ti si
aiuti?” il suo tono era leggermente più irritato.
“Perché non ne
ho bisogno!” insistette lei, muovendo le mani scocciata.
“Scommetto che
non l’hai ancora detto a nessuno.” Disse improvvisamente, senza, però, cambiare
il contesto del discorso.
“E allora?” si
stava arrabbiando. Le faceva sempre questo effetto stare con Simone a parlare di
queste cose. Anche due settimane fa, quando venne per stare un po’ con Alex, le
fece una paternale del genere ed Inge si dovette controllare per evitare di
tirarle qualcosa addosso. Non che fosse insopportabile, anzi! Simone era una
delle persone più belle al mondo. Disponibile, sempre carina… Insomma, era
fantastica, ma quando entrava in questo argomento – e il più delle volte anche
senza entrarci, bastavano i suoi occhi saccenti ed eloquenti in un qualunque
momento della giornata – la ragazza si sentiva messa alle strette, come se non
avesse altra scelta che fare come voleva lei.
Purtroppo Simone
non sapeva che in quella casa c’erano già abbastanza problemi: poco meno di un
mese fa, un giornalista che si era appostato presso la casa dei gemelli, aveva
scattato delle foto di Alex che giocava nel giardino della casa. Quando David lo
venne a sapere, fu terribile. Iniziarono a girare voci su un figlio di uno dei
due Kaulitz – cosa nemmeno sbagliata – ma sollevarono un tale polverone che per
qualche i ragazzi, Alex e Inge compresi, furono costretti a rimanere in casa. Ed
ancora oggi qualche giornalista che li intervistava chiedeva di quel bambino che
correva nel giardino con la palla in mano.
Poi era successo
che Bill si lasciò sfuggire un particolare su un ospite che viveva a casa loro,
e subito quelle sanguisughe di giornalisti collegarono l’ospite al bambino.
Insomma, quelli erano problemi! Non il suo!
Simone sorrise
dolcemente. Si avvicinò e le diede un piccolo bacio sulla fronte.
“Se avrai
bisogno, sai dove trovarmi.” Ed uscì dalla camera.
Inge la seguì
con lo sguardo, sentendosi in colpa per come l’aveva trattata. In fondo era
vero: lei voleva solo aiutarla. Ma Inge non voleva essere aiutata. Il motivo era
semplice: come aveva già detto, non ce n’era bisogno. Si strinse le mani sulla
pancia e abbassò lo sguardo colpevole. Alla fine, però, avrebbe davvero voluto
parlare di questa faccenda con qualcuno. Ma se poi fosse sfuggito qualche
particolare di troppo, bè… No, sarebbe stato meglio aspettare. Certo, ma quanto?
Il tempo non era un fidato amico.
***
“Inge?” chiese
Tom alla madre, vedendola scendere da sola.
“È in camera
mia. Era un po’ stanca.” Spiegò, sedendosi sul divano. Poi, sempre rivolta al
figlio aggiunse: “Perché non vai da lei?”
Il ragazzo
accettò il consiglio e salì le scale. Era qualche giorno – forse addirittura
settimane – che Inge era strana. Non eccessivamente, ma delle volte i suoi
comportamenti erano troppo calmi e cauti rispetto all’Inge ribelle che tutti
avevano imparato a conoscere. Bussò alla porta e l’aprì, facendo capolino nella
stanza. Inge era sdraiata contro la spalliera del letto e lo guardò. Lui quindi
le sorrise, ma notò che i propri occhi, più che sorridenti, si mostrarono
preoccupati.
“Ehi, posso
entrare?”
Inge annuì.
Lui entrò e
chiuse la porta alle sue spalle.
“Perché sei
qui?” gli chiese la ragazza, sedendosi sul letto.
“Se vuoi me ne
vado.” Rispose lui, fingendosi offeso.
“No, tranquillo,
rimani pure.” Fece lei.
Una reazione che
Tom non comprese. Di solito quando lui si mostrava in vena di battute lei non si
lasciava sfuggire l’occasione di stuzzicarlo. Questa volta, invece, non aveva
fatto niente. Anzi, aveva chiesto che restasse. Si sarebbe aspettato, invece,
una risposta del tipo: “e allora vattene, mica ti ho chiesto io di entrare!” E
lui avrebbe ribattuto: “Bene, allora se ti do fastidio, penso proprio che
rimarrò.”
Insomma, c’era
qualcosa che non andava.
“Ehi,” la
chiamò, vedendo che Inge aveva abbassato lo sguardo. “Cosa ti prende?” E si
sedette sul letto vicino a lei.
“È tua madre.”
Confessò la ragazza.
Lui sospirò. “Lo
so, delle volte è insopportabile, è appiccicosa, è fastidiosa, è -”
“No.” Lo fermò,
guardandolo negli occhi. “Non è quello che voglio dire.”
“E allora?” si
informò lui. “Cosa ti ha fatto?”
Inge sembrò
pensarci un po’ prima di rispondere, ma la risposta non fu quella che Tom si
sarebbe aspettato. Ancora.
“No, niente.” E
abbassò lo sguardo sul letto.
“Niente?”
alzò lui un sopracciglio scettico. “Ogni volta che dici che non è niente, è
sempre qualcosa.” La canzonò.
Lei sbuffò e lo
guardò truce, mentre lui le rispondeva con uno sguardo malizioso.
“Ah,” sorrise
scaltro. “Ora ho capito cosa volevi dire.”
Inge lo guardò
per sapere cosa avesse capito e lui mosse il suo piercing con la lingua,
avvicinandosi alla ragazza.
“Volevi dire che
da quando c’è mia madre non hai il coraggio di creare momenti intimi
ovunque come prima, eh?” le prese le spalle e la spinse delicatamente con la
schiena sul materasso.
Inge parve
sollevata da quella risposta e ribatté con il suo solito tono beffardo.
“O forse sei tu
che non ci riesci?” lo sfidò lei, sorridendo come il ragazzo.
“Credi davvero
che io possa imbarazzarmi per certe cose?”
Lei annuì
convinta.
Lui schioccò la
lingua. “Allora vuol dire che non mi conosci.”
“E ora?”
insistette Inge, fingendosi preoccupata.
“Bè,” sogghignò
lui. “Ora ti faccio vedere cosa sono capace di fare, visto che non mi conosci.”
E si tolse la maglietta, per poi chinarsi sopra di lei. Le tolse dei ciuffi
rossi dal viso con una mano e posò le proprie labbra sulle sue. Sembrò quasi che
per un attimo Inge stesse facendo resistenza, ma Tom non ebbe nemmeno il tempo
di pensare concretamente a quell’idea, che lei gli strinse le braccia intorno al
collo e prese l’iniziativa.
Lo baciò con
passione, per poi scendere sul collo. Lui, intanto, portava una mano sotto
l’enorme maglietta – tra l’altro sua – che Inge indossava e prese ad
accarezzarle il ventre. La ragazza ebbe un sussultò a quel tocco, ma presto si
rilassò, continuando a baciarlo, togliendogli l’elastico che teneva i rasta in
una coda.
“Ehi,” sussurrò
con voce calda il ragazzo, abbassando la testa per poterla baciare sul collo, la
mano sempre sul ventre. “Non sarai mica ingrassata.” E ridacchiò, per poi
portare la mano verso il seno.
Inge sembrò
trattenere il fiato per un istante, ma quando sentì la ristata del ragazzo sul
proprio petto, si calmò. Era tanto che loro due non si concedevano un momento di
così profonda intimità, per questo ora, niente e nessuno li avrebbe potuto
dividere.
Ovviamente,
furono le ultime parole famose: la porta cigolò e la persona meno adatta ad
osservare quella scena si presentò davanti a loro, assonnato.
“Alex!” urlò
Inge, spaventata. Diede un colpo a Tom, che rischiò di cadere dal letto e si
allontanò da lui.
“Alex!” ripeté
Tom. “Ma non stavi dormendo?”
“Mi sono
svegliato.” Biascicò il bambino. “Ho fatto un brutto sogno.” E allungò le
braccia per essere preso in braccio.
Tom lo
accontentò e lo mise seduto sulle proprie gambe.
“Allora che si
fa, ora?” gli chiese. “Vuoi venire giù a salutare gli altri?”
Alex annuì,
sbadigliando. Tom scese dal letto con Alex in braccio e si diresse verso le
scale, seguito da Inge.
Era strano. Non
si sarebbe mai aspettato che la sua vita da padre potesse essere così. Certo,
non si era nemmeno mai immaginato la sua vita da padre, ma se mai
l’avesse fatto, di certo si sarebbe aspettato di avere come minimo quarant’anni.
Ma poco importava, ormai. Nonostante la convivenza con suo figlio fosse iniziata
praticamente nel peggiore dei modi, ora tutto si era risolto. E anche bene.
L’unica inconvenienza erano i giornalisti, che ancora giravano intorno alla
casa. Ma prima o poi tutto questo sarebbe stato di pubblico dominio. Purtroppo.
______________________________
Bu! Sorprese,
vero? Ebbene, sì, sono tornata! :)
Momentaneamente
sto scrivendo insieme a Kit2007 anche "Making The Video", quindi questa storia
sarà molto lenta come aggiornamenti, ma qualcosa ho già scritto e quindi pronto
per la pubblicazione. Insomma, che dire? Questo è il seguito di "Just A Kid",
che a sua volta è il seguito di "Sopravvivere", e sebbene quest'ultima non sia
proprio fondamentale per capire le due storie successive, "Just A Kid", invece,
è abbastanza fondamentale, perché sarà proprio da lì che riprende la narrazione.
Be', spero che vi
piaccia. Il tema di cui tratterà questa nuova FF è abbastanza noto, visto come
si era conclusa quella precedente... Ma chissà cosa succederà! :)
Via, e ora vado a
mangiare, visto che la fame si fa sentire!
Al prossimo
aggiornamento!
Ps: il titolo
sarebbe preso da "Cats", con il verso di una delle canzoni più belle e famose: "Another
day is dawning", e in questo caso opportunamente modificato! :D
Ah, ovviamente:
i Tokio Hotel non
mi appartengono e con questo mio scritto non voglio dare rappresentazione
veritiera della loro personalità. No scopo di lucro. u.u
Irina
|