LaGattaELaLunaefp
Citazione
scelta:
#08. Quell'uomo possedeva la stessa luce che riflette la luna.
Disclaimer:
La canzone citata nella storia ("La
Gatta")
appartiene a Gino Paoli. I personaggi, invece, sono frutto della mia
immaginazione, pertanto di mia esclusiva proprietà.
Io non ho la benché minima idea di come parli e ragioni un
gatto, ma mi piace immaginarlo aulico e supponente.
Questa storia è affettuosamente dedicata a Micia, Burundi,
Boris, Molly e Picci, i gatti della mia inseparabile socia Kam, per
essersi inconsapevolmente prestati ad essere fonte d'ispirazione per
questa mia, anche se non la leggeranno mai.
Quest'opera è pubblicata sotto una Licenza Creative
Commons.
LA GATTA E LA LUNA
"Il
gatto andava qui e
là,(...)
Solo, importante e
saggio,
E leva alla luna mutevole
I suoi occhi mutevoli."
William Butler Yeats,
"Il Gatto e la Luna"
C'era qualcosa di tristemente ironico nel morire in una notte di luna
piena.
La Gatta si lasciò sfuggire un flebile sospiro malinconico,
mentre si acciambellava su se stessa in un angolo della scatola di
cartone rigido. Cercava, invano, di sottrarsi al morso gelido
dell'acqua, che, salmastra e maleodorante, sciabordava incessantemente
contro le pareti della sua zattera improvvisata, penetrando attraverso
gli spigoli già fradici e sciogliendo, goccia dopo
inesorabile
goccia, quel precario rifugio. Aveva soltanto pochi, sbiaditi ricordi
dei momenti che avevano preceduto il brusco risveglio nel
più
cupo incubo della sua ormai breve vita; una mano umana che le
artigliava la collottola pelosa, le sue rabbiose velleità di
ribellione, fra soffi feroci e graffi inflitti a casaccio, il buio
impenetrabile in quella prigione quadrata e poi più nulla,
se
non il silenzio indifferente del cielo nero sopra la sua testa ed il
mugghiare cavernoso dell'acqua, altrettanto nera, sotto di lei.
Se, come tutti i rappresentanti della sua specie, non fosse nata priva
dell'umiltà necessaria per supplicare al fine di ottenere
qualcosa in cambio, avrebbe pregato una di quelle due distese deserte
di inghiottirla anche subito, pur di non sentire più il
pungolo
feroce della paura rodere ogni singolo nervo teso del suo corpo esile.
Invece, non cedette, obbedendo all'impulso ancora più
implacabile di uno strenuo istinto di sopravvivenza. Lei non era un
topo, una di quelle creaturine patetiche, ma appetitose, capaci solo di
dimenarsi tra pietosi squittii e mendicare la loro inutile vita, non
appena cadevano fra gli artigli famelici dell'anello successivo nella
catena alimentare. Lei avrebbe combattuto anche quella volta, come ci
si aspettava da un fiero e letale predatore della sua razza,
benché non avesse ancora la più pallida idea
né
del se, né del modo in cui si sarebbe tolta d'impiccio.
Un impiccio decisamente critico, al di là di ogni futile
dimostrazione di temerarietà felina.
Sollevò uno sguardo guizzante verso l'alto, dove una
repentina
folata di vento aveva sparpagliato tutt'attorno un banco di nuvole
grigiastre, alla maniera di una coda annoiata che scacci dal muso un
pugno di mosche, così da permettere ai bagliori perlacei del
disco lunare di piovere dolcemente su quella scena, ammantandola del
livido chiarore elegiaco che ancora le mancava per essere
impeccabilmente deprimente.
La carezza impalpabile di quel tremolante lucore sulla pelliccia umida
le riportò alla mente la prima occasione in cui quella palla
vagabonda era entrata a far parte della sua esistenza: allora, aveva da
poco spalancato i suoi occhioni ambrati e curiosi sul mondo, per lei
costituito dall'imponente figura di un antico cascinale diroccato.
Nonostante l'aspetto cadente, l'edificio era ancora abitato da una
coppia di esseri umani e una dozzina di galline, che i gatti maschi
più scapestrati del circondario si divertivano a spaventare,
mentre becchettavano qua e là fra l'erbetta rada dell'aia,
acquattandosi all'ombra dei muretti a secco e balzando loro addosso a
fauci snudate, solo per gioco, per strappare a quei goffi volatili
pavidi qualche strida infastidita. Lei sarebbe rimasta ore, immobile, a
studiare le loro mosse da cacciatori consumati, sdraiata a pancia in
giù sotto i tiepidi raggi del sole, in cima ad una balla di
fieno tagliato di fresco, il suo profumo pungente, ma piacevole, ad
invaderle le narici.
Tuttavia, ad un tratto, improvviso come le raffiche ululanti che si
portarono via la calura e i giochi estivi in un turbinio violento,
giunse l'inverno, il più rigido da molti anni a quella
parte,
almeno a memoria di uomo e di gatto. Questo era quanto si mormorava con
un po' di preoccupazione fra i membri più anziani della
famiglia, quando si radunavano tra i muri disadorni del fienile, per
racimolare un briciolo di calore l'uno dal corpo dell'altro e
raccontarsi storie mirabolanti su lontani paesi esotici dai nomi molto
complicati, in cui quelli come loro, diverso tempo fa, erano stati
venerati alla stregua di creature divine, solo perché in
grado
di dare la caccia ai roditori, e non tollerati a malapena, come
accadeva adesso.
A lei non importava granché delle memorie gloriose del
proprio
lignaggio. Si augurava, con infantile e struggente desiderio, di non
doversi svegliare un altro giorno intirizzita dalla punta del naso a
quella della coda, di non essere costretta a trascorrere tediose
giornate d'inerzia con il musetto premuto contro il vetro impolverato
della finestra, guardando l'aia brulla e il cortile di terra battuta
spruzzati di quella poltiglia candida e freddissima, come se un
contadino un po' matto vi avesse rovesciato sopra il contenuto di mille
e più sacchi di farina bianca annacquata. Soprattutto, non
desiderava in alcun modo vivere immersa in quell'oscurità
continua, che la opprimeva, come un panno scuro gettato sulla sua
testa, e distorceva anche le sagome più familiari in
grotteschi
giganti sconosciuti.
Aveva paura del buio, fobia alquanto risibile per
una creatura che la maggior parte degli umani considerava alla stregua
di un sodale del Demonio, ma a lei non faceva ridere affatto. Se ne
stava rincantucciata sotto un mucchietto di paglia secca per tutto il
giorno, in disparte, nella speranza di poter, prima o poi, riaprire gli
occhi ed essere di nuovo accecata dalla tanto rimpianta luce del sole.
Com'era prevedibile, sua madre se ne accorse, per quanto lei si
affannasse a negare, quindi, da quell'assennata ed amorevole guida che
era, decise di spiegarle perché non aveva niente da temere
da
quella notte insolitamente duratura. A mezzanotte in punto, dopo che le
campane della chiesa lì accanto ebbero battuto il loro
ultimo
rintocco assordante, le strinse piano la collottola fra i denti, poi,
incurante del suo vivace dissenso, la portò sul tetto del
fienile, depositandola su una tegola sbreccata al proprio fianco.
Un
refolo frizzante di brezza fischiò fra le travi di legno
scricchiolanti e sotto la morbida coltre delle loro pellicce,
punzecchiando la pelle sensibile della Gatta alla maniera di una pulce
affamata. Si addossò alla figura rassicurante della madre,
insinuando il muso nell'incavo soffice del suo collo, prima di seguire
la traiettoria del suo sguardo, perso nella contemplazione assorta del
cielo terso oltre le loro teste.
"Che guardi, mamma?"
"Tu che cosa vedi, piccola mia?" le chiese di rimando l'altra. La Gatta
titubò, si sentiva sempre molto impacciata e a disagio,
quando
era costretta a rispondere alle domande degli altri, soprattutto quelle
che suonavano tanto ovvie, e alla fine si rivelavano non esserlo mai:
"Le... Le stelle?"
Lo sparuto sciame di puntolini luminosi, quasi al centro di quella
remota prateria blu cobalto, aveva calamitato sin dal principio la sua
attenzione, pertanto le parve una replica abbastanza ragionevole da
dare. Le vibrisse sottili della madre sussultarono in un enigmatico
cenno d'approvazione, che riempì la Gatta d'imbarazzato
orgoglio
per essersi dimostrata all'altezza della situazione, quindi la
più anziana aggiunse, alzando una zampa in avanti: "E di
quella,
che mi dici?"
Le costava ammetterlo, ma non si era affatto accorta di quel grosso
cerchio lattiginoso e butterato, il quale dava l'inquietante
impressione di osservarle con il medesimo, spiccato interesse con cui
loro lo stavano scrutando. Anzi, a dirla tutta, non avrebbe mai creduto
possibile vedere qualcosa di così simile al suo amato sole,
nella tenebra algida e interminabile in cui l'inverno l'aveva
precipitata. D'accordo, la sua luce era solo una pallida imitazione
priva di tepore, ma era di gran lunga preferibile al buio pesto.
Allora, si ritrovò a supporre, in un fil di voce: "Quella
dovrebbe... dovrebbe essere la luna, giusto, mamma?"
"Esatto, piccola" la rassicurò la madre, in un miagolio
complice, prima di asserire, con la disinvoltura lieve di chi conosce
la verità su molte cose per averla appresa grazie
all'esperienza
personale: "Gli uomini ti diranno che è in base alle stelle
che
bisogna tracciare la rotta. Tuttavia, si dimenticano troppo spesso che,
senza il chiarore della luna ad illuminare il nostro cammino, noi non
sapremmo nemmeno in quale direzione muovere il primo passo. Ricorda
queste parole, ogni momento in cui avrai di nuovo paura."
Quanto tempo poteva essere trascorso da quella notte indimenticabile,
nel bene e nel male?
Sebbene la gravità irreparabile della circostanza le avesse
fatto smarrire un'esatta cognizione, aveva buone ragioni per credere
che fosse molto poco, era stata la catastrofica serie di eventi
successivi a rovinarle addosso in maniera repentina e frenetica. Da un
giorno all'altro, l'estate aveva fatto ritorno, ma il sole e i giochi
non erano stati altrettanto entusiasmanti; sua madre se n'era andata,
ritenendola abbastanza adulta da essere in grado di badare a se stessa,
e un gruppo di umani con dei buffi cocomeri insapori sulla testa- lo
sapeva perché ne aveva morso uno, con lo sconsolante
risultato
di schivare all'ultimo secondo una pedata furente- aveva ridotto la
vecchia cascina ad un cumulo di polvere e macerie, mentre lei...
...Beh, lei sarebbe morta affogata, fine della storia.
Aveva mantenuto la promessa, non aveva dimenticato quella frase, eppure
eseguire tutto secondo le regole e i consigli della mamma non sarebbe
servito a salvarla. Il brillio eburneo della luna avrebbe forse
contribuito a mitigare il suo mai davvero sopito timore
dell'oscurità, ma quella sfera screziata e distratta non
sarebbe
rotolata giù dal suo parco giochi cosmico per strapparla a
quel
crudele destino ormai scritto ad inchiostro indelebile, a porgerle il
conforto improbabile di una zampa amica, nell'imminenza della fine.
Per questo, non poté impedirsi di esalare un veemente
gnaulio
stupefatto, nell'attimo in cui una mano umana apparve appena
oltre il bordo della scatola, prima di tastare il cartone mezzo
liquefatto con la netta intenzione di dirigersi verso di lei. Dal
momento che stava sperimentando di persona quale tipo di riconoscenza
gli uomini fossero degni di ricevere da parte sua, contrasse ogni
muscolo ancora sensibile e reattivo del fisico pressoché
congelato e si appallottolò nell'unico cantone asciutto
rimasto,
quindi sfoderò gli artigli e drizzò di rabbia
quel che
restava della sua pelliccia grondante d'acqua, nell'efficace imitazione
di un vaporoso porcospino aggressivo.
Tutt'altro che dissuasa da quella
cocciuta dimostrazione di ostilità, la mano si chiuse
dolcemente
attorno alle sue costole e la issò fuori dallo scatolone,
mentre
una voce maschile, roca ed un po' affannata, si premurava di
tranquillizzarla: "E' tutto a posto, ora ti porto via di qui."
In quale dannato modo poteva ficcargli in quella zucca vuota che, a
costo di essere inghiottita da quella marea putrida e tumultuante, non
desiderava affatto essere toccata
da lui?
Benché gli umani lo ignorino, com'è loro
abitudine nei
confronti di qualsiasi cosa reputino troppo vile per meritare
interesse, i gatti hanno un codice di comportamento non scritto, ma
molto chiaro, al riguardo, al quale si attengono in maniera scrupolosa.
E' sempre e solo il felino a concedere a qualcuno di quei bipedi
spelacchiati, qualora ritenuto meritevole di fiducia, di oltrepassare
le barriere della decenza, permettendogli così di tuffare
quelle
loro dita viscide e mollicce nel proprio prezioso pelame.
Prima di
quella beffarda svolta del fato, la Gatta non si era mai trovata nella
condizione di dover decidere se accordare o meno una tale confidenza ad
uno di loro, i proprietari della cascina in cui era nata oscillavano
fra una tenera sopportazione, finché era stata un grazioso
batuffolino claudicante, e una larvata insofferenza, mentre i
demolitori dell'unico luogo che era stata abituata a chiamare casa non
avevano esitato a infischiarsene di qualsiasi arcano cerimoniale
gattesco, pur di levarsela di torno.
Perciò, combattuta fra
l'obbedienza fedele alle leggi della razza e l'ardente speranza di
vedere almeno l'alba del giorno successivo, si abbandonò ad
una
paralisi cadaverica nella presa dello sconosciuto salvatore. Nel
frattempo, questi si era messo ad arrancare controcorrente, le
frequenti bordate d'acqua fetida e grigiastra che gli s'infrangevano
addosso spumeggiando all'altezza del petto, fino a quando non
riuscì, in un balzo sfinito, a franare supino sulla sponda
del
fiume.
La Gatta rimase stesa al suo fianco, esausta come se fosse stata lei a
trascinarlo fuori da lì, e non viceversa, assaporando in un
fremito d'insospettabile gradimento il contatto con la stabile distesa
di ciottoli lisci della riva. Quando ritenne di aver recuperato forza
sufficiente per poter essere utile all'anonimo benefattore, ovvero non
appena zampe, orecchie e coda si mossero prontamente in risposta agli
stimoli, si risollevò non senza fatica da terra,
zampettò
cauta nella sua direzione e gli diede un colpetto di testa esplorativo
all'addome.
Dal canto proprio, l'umano ricambiò il timido
interessamento erompendo in un chiassoso accesso di tosse secca, che
gli squassò il corpo atletico per qualche secondo e fece
appiattire lei al suolo, coda in resta e sensi all'erta. Poi, l'altro
si puntellò sui gomiti per rimettersi seduto e strizzarsi
gli
abiti intrisi d'acqua fino all'ultima fibra, in un gesto rassegnato,
prima di ansimare: "Per quanto possa valere, io detesto i gatti."
Ecco, l'ennesima dimostrazione del fatto incontrovertibile che gli
esseri umani non sanno davvero comportarsi in maniera decente, nei
rapporti diplomatici con gli altri sudditi del regno animale!
La prosperità della loro tirannide indiscussa perdurava
esclusivamente perché, da svariate ere geologiche, non era
più esistito nulla di abbastanza gigantesco da poterli
inghiottire in un sol boccone ed insegnare loro un po' di sana
modestia, altrimenti ci sarebbe stato di che ridere sotto i baffi.
Nessun felino si sarebbe mai neppure lontanamente permesso di essere
tanto schietto, anzi, maleducato; ci sono modi molto più
sottili, ma altrettanto eloquenti, grazie ai quali è
possibile
manifestare il proprio limpido disprezzo nei confronti di un essere
inferiore. Così, appunto, agì la Gatta:
squadrò lo
straniero a sopracciglia aggrottate, in un misto di riserbo e
alterigia, dimenando la coda a destra e a sinistra per lasciar
trasparire la propria piccata disapprovazione.
Non essendo stato in grado di interpretare il messaggio subliminale
indirizzatogli, l'uomo proseguì, mentre la tosse si placava:
"Sai, quando ero ancora un adolescente, mio nonno mi portava sempre a
caccia insieme ai suoi amici, perché ci sapevo fare alla
grande
con i cani da posta: diceva che mi obbedivano come se fossi stato uno
di loro..."
Qualsiasi considerazione irritata sullo stomachevole egocentrismo di
quelle scimmie nude venne sopravanzata dalla viscerale vampata
d'avversione che ribollì nelle sue vene al solo udire la
parola
cane.
Per fortuna, fino a quel momento aveva avuto ben poche occasioni
d'incontro con la propria nemesi naturale, gli ottusi omologhi
quadrupedi degli umani avevano una posizione decisamente bassa nella
lista delle sue frequentazioni preferite. I rari esemplari che, di
tanto in tanto, gironzolavano nei paraggi della cascina le erano parsi
niente più che mucche bavose e senza corna, con la
deprecabile
propensione ad abbaiare insulti contro qualsiasi cosa si muovesse
all'interno del loro campo visivo.
Il suo verdetto nei loro confronti
era stato immediato ed inappellabile: beceri, inutili idioti.
"Ma a te tutto questo non interessa granché, vero, micetta?"
D'un tratto, l'uomo rinsavì, miglioramento che non
mancò
di stupire positivamente la Gatta, la quale, distendendo i tratti del
muso in un'espressione più indulgente, gli
accordò una
seconda opportunità di fare buona impressione e lo
esaminò con un'occhiata insistente, dall'alto in basso,
senza
ritegno alcuno.
L'umano era giovane rispetto a quelli che aveva incrociato sulla
propria strada fino a quella notte, soprattutto se paragonato ai due
attempati contadini della cascina, dalla pelle ruvida e nodosa quanto
la corteccia di un olivo secolare. Lui pareva piuttosto scattante come
un pioppo maturo, oltre che tenace nella maniera infestante di cui solo
l'edera è capace, almeno a giudicare dalla sua spiccata vena
ciarliera.
Di colpo, un curioso ricordo riaffiorò da uno dei
molti giorni sereni della sua infanzia: si stava esercitando a
zigzagare fra i vasi di begonie in fiore, sul davanzale della casupola
degli anziani, nel tentativo di emulare la camminata sicura ed elegante
della madre, finché un trillo garrulo, cogliendola di
sorpresa,
per poco non l'aveva fatta schiantare sull'aia in un ruzzolone
ignominioso. Cacciati gli artigli nella pietra friabile per mantenere
l'equilibrio, aveva sbirciato all'interno dell'abitazione, impaziente
di scoprire quale fosse la fonte di quel baccano sconosciuto. Quel che
vide la deluse non poco, poiché si trattava di un polletto
mingherlino, della stessa tinta fumosa delle stoppie bruciate, che
zampettava a saltelli su un trespolo di legno e gracchiava parole a
caso nella lingua degli uomini, solo con una vocetta più
squillante.
Sì, il ragazzo umano che l'aveva salvata dai flutti
gorgoglianti
del fiume aveva una somiglianza stupefacente con quel bizzarro uccello,
nei corti ciuffi color carbone arruffati sulla testa a mo' di piumette
ribelli, nel naso a becco dal colorito olivastro, nel brillio vispo
degli occhi scuri e, in particolar modo, nell'inarrestabile parlantina
sciolta.
Difatti, fu di nuovo lui a rompere il silenzio, prima
interrotto soltanto dallo stormire quieto delle fronde dei platani alle
loro spalle. Le strinse una zampa nel palmo della propria mano, con una
cordialità un po' irruente, quindi si presentò:
"Io mi
chiamo Riccardo Maltese, sono un investigatore privato a tempo pers...
Ehm, pieno."
Si bloccò, di colpo, quasi che fosse riuscito a percepire la
gelida sciabolata di disappunto con cui le pupille giallastre della
Gatta lo avevano trapassato da parte a parte, non appena aveva ripreso
a ciarlare di sciocchezze prive di senso compiuto.
Non senza lasciar
trapelare una moderata perplessità, il giovane si
affrettò a spiegare, dopo averle additato la luna, ormai
veleggiante verso il punto più alto della sua scampagnata
notturna: "Diciamo che il mio lavoro assomiglia al suo, in qualche
modo: me ne vado in giro quando il resto del mondo ronfa della grossa
e, da brava zitella impicciona, mi diverto un sacco a spiare i loschi
peccatucci di altri amanti del buio, con la sola differenza che io
vengo pagato per farlo... D'accordo, non proprio ogni volta, ma questo
non c'entra... mentre lei non ha altra alternativa.
A dirla tutta, ero
impegnato anche stasera, ma credo che tu avessi decisamente bisogno di
me, molto più della mogliettina nevrotica dell'assessor
Carmagnola."
Oh, doveva convenire che si trattava di una coincidenza quantomeno
interessante.
Provvidenziale, senza dubbio, se i gatti avessero ammesso la
possibilità che il mondo fosse retto da una
causalità
superiore, infallibile quanto loro.
"Sarà il caso di alzare le chiappe, non ho per niente voglia
di
restare qui fino a quando non sarò diventato un surgelato
Findus..." sentenziò infine Riccardo, prima di scattare in
piedi, rabbrividendo dentro ai vestiti zuppi, e muovere qualche passo
in direzione del sentiero sterrato che serpeggiava fra la sponda del
fiume ed l'alto filare di alberi poco distante.
Sebbene non lo volesse affatto, la Gatta esalò un debole
pigolio
affranto.
Quell'uomo era importuno, sbracato e dotato di un infimo
senso dell'umorismo, ma era anche il suo unico punto di riferimento,
all'infuori della luna, tanto muta quanto lontana; ciò che
restava del suo passato era un mucchio inabitabile di calcinacci, una
madre saggia tacitamente rimpianta ed una mano crudele che per un
soffio non l'aveva annegata. Al contrario dei tanto esecrati cani, che
reputavano onorevole legare la loro vita ad un padrone umano, quelli
come lei avevano bisogno di un luogo in cui riposarsi dopo
un'estenuante giornata di caccia, di cui vantarsi a dismisura nelle
chiacchiere con gli altri gatti conoscenti.
A cui appartenere,
insomma.
Non aveva la benché minima intenzione di trascorrere il
resto della sua esistenza nella pelliccia di una randagia,
appellativo grave quanto un indicibile anatema, che sua madre ed altre
gatte adulte della cascina avevano borbottato a denti stretti,
ammiccando in direzione di una femmina dalla coda mozza e il pelo
infeltrito come un vecchio gomitolo di lana, la quale vagava a debita
distanza da loro, lo sguardo vacuo piantato sulle zampe piagate.
Tutto questo è spaventoso, e ingiusto, aveva
pensato allora,
dinanzi a quel triste spettacolo.
Lo pensò di nuovo, solo con
maggior afflizione, perché temeva di vedere presto se stessa
al
posto di quella gatta macilenta, emarginata e senza futuro.
"Detesto dover dare ragione a Costanza, ma davvero non ho cervello..."
interloquì a quel punto il giovane, scavalcando le sue
fosche
meditazioni, per poi stupirla di nuovo.
Girò rapido sui tacchi,
la raggiunse e, in una presa inesperta che qualunque mamma gatto
avrebbe criticato, se la strinse al petto, fra l'impermeabile
svolazzante e il maglione bagnato.
"Molto meglio, vero, micetta?"
I gatti non arrossiscono.
Sua madre si era raccomandata anche riguardo a questo, dopo averla
strattonata a viva forza per convincerla ad abbandonare la
mietitrebbiatrice, sotto la quale si era nascosta, traboccante di
vergogna, dopo che un amabile gatto tigrato suo coetaneo le era andato
incontro, sull'aia, per porgerle il passero morto che portava in bocca.
I felini, dinanzi ad una situazione che li mette a disagio, possono
reagire solo con una resa di malavoglia o uno sdegnoso rifiuto. Eppure,
per quanto si sforzasse di restare fedele ai dettami della propria
schiatta, non riusciva a trovare niente di così deplorevole
nel
brulichio sotto pelle che le solleticava il muso, mentre si strofinava
piano contro gli abiti dell'uomo.
Costui, intanto, aveva indossato a propria volta quel buffo cocomero
insapore- azzurro, per giunta: l'umano era davvero matto- ed era salito
a bordo di uno di quei loro assurdi trabiccoli a due zampe, rumorosi e
puzzolenti, il quale si era messo faticosamente in movimento dopo una
serie di singhiozzi sincopati, affini in maniera a dir poco inquietante
ai lamenti di un cavallo afflitto dalle coliche.
Mentre sfrecciavano a
balzelloni verso le luci remote della città, il giovane
prese a
canticchiare, fra sé e sé: "C'era
una volta una gatta, che aveva una macchia nera sul muso, e una vecchia
soffitta vicino al mare con una finestra a un passo dal cielo blu..."
Niente di paragonabile ai canti popolari dei gatti, ma pur sempre
discreto; e poi, non si poteva negare che avesse una voce apprezzabile.
"Ti piace? Me la cantava sempre mia nonna, quando ero piccolo: cosa non
si doveva inventare per convincermi a mangiare, poverina...
Non ha mai
ottenuto alcun risultato, però mi è rimasta
impressa, e
mi pareva appropriata..." le raccontò, con una diligenza
affettuosa che le rammentò, in un sussulto nostalgico, sua
madre, per poi riprendere la propria distratta cantilena: "Se
la chitarra suonavo, la gatta
faceva le fusa ed una stellina scendeva vicina, poi mi sorrideva e se
ne tornava su..."
Arrivarono a destinazione prima di quanto avrebbe immaginato. L'umano
fermò il macinino spernacchiante in corrispondenza di una
piazzetta acciottolata, la rientranza di una viuzza tortuosa, lungo la
quale le case, più fatiscenti che antiche, svettavano
ammucchiate l'una sull'altra alla stregua delle spighe bionde di un
florido campo di grano. La Gatta lo vide alzare lo sguardo in direzione
di un abbaino malmesso, tappato da una persiana bucherellata da cui si
erano staccati, o erano stati rimossi, alcuni listelli.
"Quella lassù è la soffitta in cui vivo: non
c'è
il mare, ma solo la pioggia che gocciola dalle tegole scassate che il
padrone di casa non aggiusterà mai; non c'è la
chitarra,
perché è già tanto che io abbia
imparato a suonare
come si deve il citofono... E non c'è neanche il cielo blu,
grazie all'imposta sconnessa che ormai si è saldata al resto
degli infissi ed è praticamente inamovibile.
Uhm, detto
così non sembra poi molto invitante, vero, micetta?"
In un impulso irrefrenabile di qualcosa che avrebbe potuto etichettare
soltanto come follia,
la Gatta miagolò d'impazienza e gli
rifilò un colpetto complice sotto il mento,
perché si
sbrigasse a portarla in un posto magari poco accogliente, ma di sicuro
più asciutto e desiderabile di una scatola di cartone zuppa
d'acqua lercia.
Invece, il giovane si fermò, proprio al centro
dello scialbo cono di luce proiettato sulla scena dal lampione
all'angolo, la sollevò afferrandola all'altezza dei garretti
anteriori, in maniera disagevole per entrambi, fino ad avvicinare il
proprio volto al suo muso, quindi si dedicò all'ennesima
meditazione querula ad alta voce: "Forse dovremmo trovarti un nome
decente, vero, micetta?
Dunque, sei tutta bagnata e rugosa come un
cespo d'insalata... Ecco, potrei chiamarti Lettuce: che ne
pensi?"
A volte, anche i gatti rimangono senza parole.
Infatti, in quel preciso istante, quando i suoi occhi increduli
scorsero quel chiarore giallastro ed artificiale illuminare il
più affascinante e fastidioso tipo di umano in cui si fosse
mai
imbattuta, la Gatta ammutolì, improvvisamente consapevole
che le
sagge parole della madre si erano avverate, seppur in modo del tutto
impensato.
Quell'uomo
possedeva la stessa luce che riflette la luna,
era apparso senza dare spiegazioni, senza essere stato chiamato, per
salvarla dalla tenebra gelida e irrimediabile in cui era sprofondata
tutt'a un tratto la sua vita. Incostante e scanzonato, custode e non
padrone, aveva rischiarato il suo cammino, aveva guidato i suoi passi
senza dirigerli e prometteva di tramontare e sorgere ancora per lei,
per lei sola. Era disposta persino a concedergli il tenero arbitrio di
imporle un nome, tanto le appariva futile ed insensato il pertinace
orgoglio felino dinanzi all'impudente surrogato terreno dell'errante
disco lunare.
Tuttavia, non appena Riccardo ebbe fatto scattare la serratura,
spalancando il portoncino in un cigolio raccapricciante di cardini non
oliati da tempo immemore, lei non perse l'occasione di educarlo fin da
subito riguardo a quali fossero i termini del contratto di pacifica
convivenza e sopportazione reciproca. Si divincolò dalla
presa
con uno gnaulio scocciato, atterrò in un tuffo elastico
sulle
quattro zampe e lo precedette impettita lungo le scale.
Perché
lui poteva anche essere la sua luna personale, ma lei restava sempre e
comunque una Gatta.
Anzi, Lettuce.
FINE
Solito finale tirato via, solita sintassi alla Demostene dei poveri...
Comunque, gioite, lettori miei! Stavolta, niente note!
O forse, qualcuna sì...
Gli eventi narrati si svolgono nella mia città, Pavia, nello
specifico:
A) Il cascinale in cui abitava la Gatta è, o meglio, era la
cascina poco distante dal mio condominio, in cui ho giocato da bambina.
Oggi, nel caso a qualcuno interessi, è un centro
residenziale di
indubbia bruttezza, oltre che tormentato dalle infiltrazioni delle
marcite.
B) Il fiume inquinato e puzzolente in cui la Gatta rischia di affogare
è il Ticino, un tempo chiamato addirittura Il
fiume azzurro...
Sì, un tempo.
C) La mansarda di Riccardo si trova in Via Cardano, strada medievale
del centro storico che amo e in cui non abiterò mai
(ç_ç).
Inoltre, vengono citati i nomi di Costanza, dell'assessore Carmagnola e
della di lui moglie; la storia di costoro e dei loro rapporti con
Riccardo è dettagliatamente spiegata nell'altra mia "It's
Too... Cliché".
Ad ogni buon conto, si tratta rispettivamente del capo dell'agenzia
investigativa per cui lavora Riccardo, nonché sua migliore
amica, e di due ex compagni di liceo.
Spero di non aver dimenticato nulla e, soprattutto, di avervi fatto
trascorrere qualche piacevole momento di lettura.
Ringrazio sentitamente Pagliaccio di Dio, la giudice del "Pieces
of a Journey Contest",
per avermi dato l'occasione di mettermi alla prova; i miei complimenti
di cuore anche alle altre podiste e concorrenti.
Alla prossima!
Giudizio
finale di
Pagliaccio di Dio ("Pieces
of a Journey Contest")
MistralRapsody
- La
Gatta e la Luna
[ PREMIO
ORIGINALITA'
]
Aspetto
grammaticale e
lessicale:
Sono rimasta davvero colpita nel leggere la tua storia, sia dal punto
di vista grammaticale che sotto altri che svilupperò in
seguito. Sulla grammatica, appunto, assolutamente nulla da dire:
perfetta, non una virgola fuori posto o un verbo toppato nel tempo.
Lessicalmente apprezzabile, soprattutto per il registro che hai scelto
di utilizzare -molto alto, terrei a precisare-; un registro non facile
da tenere a bada, ma che tu sei riuscita a domare senza far apparire il
tuo scritto troppo pesante o sgradevole alla lettura. Molto scorrevole.
Punteggio:
10 / 10
Stile:
Hai uno stile pieno di potenzialità. Accattivante, riesce a
far precipitare il lettore nella storia, facendogli toccare con mano il
paesaggio ed i sentimenti dei protagonisti. Solo un punto non
è stato propriamente così piacevole: il corpo
della fic. E' molto pesante, senza spazi e con pochissimi andamenti a
capoverso che rendono il tutto difficile alla lettura, nonostante il
testo in per sè stesso non lo sia affatto.
Il mio consiglio è di cercare di dividere in blocchi la
storia, per riuscire a farla apprezzare come davvero merita.
Punteggio:
8.5 / 10
Originalità
dell'opera e delle idee:
Potrei riassumere tutto il giudizio in una sola parola, ma poi penso
perderei la mia serietà di giudice. Che dire? E' originale
dall'inizio alla fine. Non mi sai mai aspettata una storia con
protagonista una gatta -lasciatelo dire, io adoro i gatti da
impazzire-, nè tantomento che venisse utilizzato il suo
punto di vista. Una storia davvero dolce, apprezzabile tutta; molto
carino ed originale la personificazione della luna in Riccardo che,
dalla descrizione che ne hai fatto, è tutto
fuorchè pallido. Complimenti, davvero.
Punteggio:
10 / 10
Caratterizzazione
dei
personaggi:
Qui il protagonista è a dir poco insolito, devo dire, ma ne
ho apprezzato davvero la caratterizzazione. Hai reso la Gatta tanto
bene quanto si può rendere bene un essere umano, l'hai
dotata di sentimenti, di ragione e di... acume, direi, propri dell'uomo
facendola diventare, appunto, una Gatta con la g maiuscola.
Apprezzabile anche la caratterizzazione di Riccardo, anche se spicca di
meno rispetto alla protagonista e risulta addirittura un po' banale.
Ma, per il resto, assolutamente niente da dire se non brava.
Punteggio:
9 / 10
Punteggio:
37.5 + 4 =
41.5 / 45 PUNTI
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