Sì,
sono io.
In
vista della fine di Under The Moonlight,
mi sono decisa di pubblicare questa nuova long che – avverto –
non dovrebbe avere più di una decina di capitoli (ma chi lo
sa). È, diciamo, un intermediario tra l'addio alle sorelle
Campbell e un salve alla nuova long che ho intenzione di pubblicare
in Settembre, nella quale sto riversando il cuore.
Pubblicherei
volentieri un nuovo capitolo di Forever&Always,
ma non ho un'idea che sia una quindi spero ancora di ricevere
un'illuminazione divina, chissà mai che arrivi...
Questa
è una fic totalmente diversa
da quelle che ho scritto fin ora: in primis
è più matura, più volgare, anche, ma racconta
tematiche più serie di Brothers and Sisters;
non stupitevi di leggere imprecazioni, accenni al sesso, forse –
non so – anche risse. Si svolge nel Bronx, quindi forse con
questo ho detto tutto.
In
questo primo capitolo (piuttosto corto, i prossimi saranno più
lunghi), che forse è quasi un prologo, apparirà
unicamente la presentazione della protagonista, Liv. Dal prossimo,
invece, si conosceranno anche i Jonas che, surprise!,
non sono famosi. Solo dei semplicissimi ragazzi del New Jersey. :)
Che
altro dire? Spero vi piaccia! <3
Olive&
An Arrow
Chapter
1}
«Dimmi,
Olive...».
«Ti
prego, Regis, chiamami Liv».
«Okay,
Liv, quando hai capito che avresti dovuto fondare una band?».
«Beh,
Regis, probabilmente quando ho capito che sarei finita come mia madre
se non avessi fatto qualcosa e la musica... La musica ha fatto il
resto».
«Uno
scotch liscio», ordinò Liv Monroe, sedendosi sullo
sgabello tremolante del locale sporco e affollato, illuminato a
stento da qualche lampadina lampeggiante e piena di vecchi ubriaconi
arrapati. In pratica un bar comunissimo del Bronx.
Il
cameriere, un venticinquenne con il pizzetto, gli occhi acquosi e
arrossati di chi ha bevuto troppo, gli lanciò un'occhiata
piena di desiderio, soffermandosi sul seno prosperoso della
diciottenne.
«Ma
tu ce l'hai l'età per bere, bellezza?», domandò,
biascicando a stento le parole.
«E
tu ce l'hai l'età per scopare?!», ribatté, acida,
la mora, senza scomporsi troppo, erano diciotto anni che aveva a che
fare con individui simili.
Il
ragazzo incassò il colpo e si voltò, afferrando un
bicchiere lurido, sciacquandolo appena sotto a un rubinetto
arrugginito e versandoci poi dentro una quantità esagerato di
alcolico, ma Liv non commentò, andava bene. Più che
bene.
Si
avvicinò il bicchiere alle labbra e assaporò l'odore
familiare, insieme aspro e dolce, buono e cattivo.
Fece
un respiro profondo e lo bevve tutto d'un fiato, appoggiando dopo il
bicchiere sul bancone polveroso e facendo cenno al cameriere di
riempirlo di nuovo.
«E
i soldi? Non è che ti sbronzi e poi non mi paghi, eh?»,
fece lui, con tono lagnoso che fece subito irritare la ragazza.
Gli
lanciò venti dollari stropicciati sotto agli occhi.
«Vedi
di non rompermi più i coglioni, va bene?», lo minacciò,
accennando di nuovo al bicchiere vuoto e ordinando di riempirlo
un'altra volta. E poi ancora. E ancora.
«Ehi,
bellissima», commenta un uomo di mezza età, strascicando
le parole, «ti va di fare un giro con me, eh?».
Liv
si voltò, scoccandogli un'occhiataccia che avrebbe intimidito
chiunque.
«Fottiti».
Si
alzò e, barcollante, si trascinò fuori dal locale,
legandosi i capelli corti in una coda spettinata.
Se
sua madre fosse stata psicologicamente sotto controllo avrebbe dovuto
chiamarla per dirle di andare a casa, che era tardi, rimproverala per
l'orario e metterla in punizione; ma se Eloise Monroe fosse stata una
madre degna di essere chiamata tale Olive non si sarebbe nemmeno
trovata alle due e mezzo del mattino a girovagare – ubriaca –
tra le stradine secondarie del Bronx.
La
vita di Liv Monroe faceva schifo. Sua madre era un esaurita, la cui
unica occupazione sembrava far figli; chissà poi chi era il
padre... Il suo no di sicuro: Timothy era un uomo che compariva e
scompariva a suo piacimento, a volte mancava di casa anche per degli
anni, poi, quando tornava, passava le sue giornate a dormire sul
divano lercio di casa, ubriaco fradicio, senza quasi parlare ai
figli. Se erano figli suoi.
Olive
aveva quattro fra fratelli e sorelle; Sean era il secondo per ordine
di nascita, quindici anni suonati, un ragazzo che faceva le regole da
sé, la scuola?, un ricordo lontano. Passava le sue giornate a
farsi le canne con la sua banda di amici nel loro posto, il Buco, un
angolo sperduto in un quartiere sconosciuto a moltissimi.
Poi
c'erano Lisa e Timothy Junior, i due gemelli dodicenni, gli unici che
in casa la aiutassero a pulire, a tenere tutto a posta a casa. Infine
c'era la piccola Lauren, di soli due anni, e l'esserino più
dolce che Liv conoscesse. Sua madre quasi non le badava, in un certo
senso la vera “mamma” della situazione era proprio Olive,
strano che Lauren non la chiamasse ancora così.
Di
solito Liv lo reggeva bene l'alcool, quella sera invece si sentiva la
testa scoppiare e, avrebbe scommesso, che avrebbe vomitato da lì
a poco. Fantastico.
Si
appoggiò a un muro pieno di graffiti, facendo un respiro per
recuperare il fiato e cercando di far smettere di girare la città
intorno a lei.
Aveva
bisogno di un bicchiere d'acqua, o di un caffè, non importava.
Entrò
nel primo locale che incontrò sulla sua strada, tenendosi una
mano sulla fronte imperlata di sudore.
Il
bar era relativamente affollato, rumoroso e asfissiante. La
diciottenne sentì il respiro mancarle e si portò una
mano al petto, stanca.
Si
avvicinò al bancone, sgomitando per farsi strada tra ragazzi e
ubriachi e qualcuno fatto di coca ed eroina, e chiese al cameriere di
turno una bottiglietta d'acqua.
Il
barista gliela diede quasi senza guardarla in faccia, troppo intento
a guardare a sinistra, lontano, oltre la folla, verso la fonte della
musica.
Cinque
ragazzi vestiti di scuro suonavano concentratissimi: due la chitarra,
un terzo la batteria e un quarto la pianola, mentre un ultimo, un
ragazzo biondo, cantava con la bocca che quasi baciava il microfono.
Era
musica rock, vecchie canzoni dei Queens riciclate, e dei Beatles,
così come dei Rolling Stone.
Liv
non ascoltava musica. Non era come la maggior parte dei suoi coetanei
che passavano le ore ad ascoltare canzoni ormai conosciute a memoria
con le cuffie nelle orecchie. A lei piaceva la musica, certo, ma non
la ascoltava. Semplice.
Quei
suoni, però, quelle canzoni in quel momento le fecero tremare
l'anima.
Ora
il gruppo estraneo cantava una canzone a lei sconosciuta, armoniosa,
magica.
Scappare,
era il suo titolo. E Liv voleva scappare, andare lontano, via dal
Bronx, da New York, dall'East Coast. Sparire nel nulla. Odiava la sua
vita, odiava il fatto che con ogni probabilità sarebbe finita
come sua madre, a fare la mantenuta, quasi a fare l'elemosina,
facendo un figlio dopo l'altro, senza preoccuparsi di loro, della
propria vita, di nulla. Cercava una via di uscita, una scappatoia per
evadere.
Rise
tra sé e sé, pensando che magari fare musica l'avrebbe
potuta aiutare, dandosi subito della stupida.
L'alcool
giocava brutti scherzi...
Continua...
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