Aveva deciso di prendersela con calma
quella mattina e ne
aveva tutti i motivi. Il primo era che la band era in pausa dal tour
per
qualche giorno e lui voleva godersi un po’ di aria di casa -
e per casa, questa
volta, intendeva sua madre e la sua sempre amatissima nonna, e
quell’ambiente
tanto controverso in cui era cresciuto, quel Devon combattuto tra il
ruolo di
noiosa contea del Sud-Ovest e quello di scenario di vite sfrenate di
giovani
poco inclini a tutto.
Il secondo motivo per cui indugiava
sotto le coperte era la
pioggia. Quel tempo conciliava sonno prolungato, specie se farcito di
una
notevole emicrania, souvenir della rimpatriata con vecchi amici del
TCC. Era
stato davvero piacevole rivederli. Spesso lo assaliva la sensazione che
a stare
sempre in movimento ci si perdesse buona parte delle emozioni che le
cose
semplici potevano regalare.
Il terzo e più forte
motivo per cui non aveva alcuna voglia
di alzarsi era che non si trattava esattamente della mattina di un
giorno
qualunque per la sua patria. Già, perché da tutte
le parti, là fuori, si stava
ripetendo la solita farsa: milioni di cittadini chiamati alle urne per
- di
fatto - non avere alcuna influenza, su niente. Perché
l’ultimo grado della
piramide era proprio quel cittadino che si illudeva di cambiare
qualcosa
apponendo una X su un foglio pieno di nomi insignificanti.
“Quanto sono tutti
fottutamente uguali...”, pensò per
l’ennesima volta fissando il soffitto della propria stanza. A
cosa sarebbe
servito sprecare una mezz’ora della propria vita per andare
al seggio più
vicino? Avrebbe cambiato qualcosa? No, lo avrebbe fatto sentire ancor
di più in
fondo a quella stramaledetta piramide che lo ossessionava ormai da
anni. Forse
aveva un’idea di come cambiare realmente le cose... o forse
pensava di averla e
invece non sapeva un bel niente, non aveva mai saputo un bel niente.
Si girò di nuovo. Sul
comodino la copia non ancora terminata
di The Fourth Reich di Jim Marrs, l’autore che gli aveva
fatto nascere alcune
delle sue paranoie più fisse, ma che adorava proprio per
questo. Afferrò il
volume che non aveva avuto tempo di leggere causa tour perenne,
prolungato,
intenso, sfiancante. E poi... tutto il resto dei casini... fece una
smorfia.
Non aveva ancora cominciato a leggere che già si era
distratto. Nella sua mente
frullavano gli ultimi mesi, litigi, lacrime, depressione. Ma anche quei
palasport fottutamente stracolmi di gente che pendeva dalle sue labbra,
dalle
loro canzoni; quelle migliaia di fan che sapevano perfettamente a
memoria ogni
testo - e non di rado era capitato che lui sbagliasse mentre il coro
proseguiva
imperterrito.
Ora un sorriso si allargò
sul suo volto pallido. Tutto ciò
continuava a farlo sentire vivo, in ogni momento della giornata,
dell’anno,
della vita: forse l’unica ragione per cui valeva davvero la
pena vivere, la
musica.
Tese l’orecchio al silenzio
della casa prima di tornare ad
assorbire teorie complottistiche e quant’altro. Marilyn e la
madre erano andate
a votare nonostante le proteste di Matt.
«Calci in culo,
altroché voti!» aveva detto nel tentativo di
dissuaderle, ma loro avevano persistito nel dovere di cittadine
coscienziose.
Coscienziose. Appunto. Buon termine con cui rovinarsi l’umore
di nuovo. Lui troppo
spesso non era stato coscienzioso, specie ultimamente, e...
«Oh, ‘fanculo
Bells!» si disse. «Menatela ancora un po’
e
poi sì che potrai veramente andare a scrivere i testi a
Celine Dion!».
Afferrò nuovamente il
libro, costretto a sfogliare le pagine
per ritrovare il segno perduto. Ma dopo due righe
qualcos’altro lo obbligò a
fermarsi: lo squillo del telefono. Sbuffò pensando di non
rispondere; il
chiamante, però, insistette per molti altri, fastidiosi
squilli.
“Ciao Jim, a dopo!...
forse...” pensò buttando il libro sul
letto.
«Pronto!»
esordì con voce impastata di noia dopo essersi
trascinato a passi lenti verso l’ampia sala.
«’Cazzo
è successo, Bells?» domandò Dom
dall’altra parte.
«Che un mio fottuto
compagno di band mi rompe le palle alle
nov... - Guardò l’orologio: erano le undici. -
beh, alle undici di un piovoso
giovedì mattina di una giornata magnificamente
libera.»
Dom sorvolò. Non gli
venivano battute brillanti in risposta.
«Vieni con me a votare?» chiese piuttosto.
«Mi prendi per il
culo?» replicò il cantante con voce acuta.
«Sai benissimo come la penso in merito. E comunque me
l’hanno già chiesto mia
madre e mia nonna. Ho detto di no e non ho intenzione di dire
sì a te. A
proposito: che cazzo ci vai a fare?».
«Vediamo... ipotizziamo...
rimorchiare? Mmm... Brown o
Cameron? Beh, Cameron è più giovane in effetti...
potrei provarci con lui!». Il
tono del batterista era sarcastico ora.
«Oh no, ti supplico,
così mi spezzi il cuore! Vuoi farmi
ingelosire?»
«Come potrei? Sai che tu
sei l’unica donna per me...
«Ti offro una cenetta
romantica sul Tamigi una sera se vieni
con me a votare, tesoruccio...»
«Oddio... questa voce sexy
mi sta eccitando... fottiti,
Dominic James Howard!».
Scoppiarono a ridere per
l’enfasi da facile doppio senso che
Matt aveva messo nell’imperativo.
«Ehi, Miss Paranoia, ci
vediamo stasera almeno o vuoi fare
il pensionato palloso di Teignmouth?»
«Se non rompi le palle con
le elezioni sì, potremmo vederci.»
Una chiacchierata leggera da amici
fraterni concluse la
telefonata. Matt appoggiò la cornetta e si diresse verso il
bagno, proprio nel
momento in cui la porta di casa si apriva.
«Alzato Matt?»
urlò sua madre dall’atrio.
Il ragazzo mugugnò un
«Sì!» prima di chiudersi la porta alle
spalle ed entrare in doccia.
Pioveva ancora quando quella sera
uscì per incontrare Dom e
gli altri. L’appuntamento era un tranquillo bar vicino al
molo, non troppo
dentro la zona del casino di Teignmouth, ma nemmeno troppo fuori da
quella
stessa area che li aveva formati psicofisicamente durante
l’adolescenza.
Raggiunse il locale a piedi, sotto un enorme ombrello giallo e blu.
Lì i fan
schizzati non erano un problema: gli abitanti si erano ormai abituati a
vederli
girare per la città come ragazzi normalissimi e, a parte
qualche turista di
passaggio, nessuno andava troppo oltre il saluto e, magari, lo scambio
di un
paio di battute.
Entrò e si diede una
rapida occhiata intorno per cercare la
compagnia. Gli altri non erano ancora arrivati. Un tavolo
nell’angolo sarebbe
andato benissimo: lo puntò e si sedette scompostamente su
una delle quattro
sedie.
Lì lo trovarono Chris e
Dom qualche minuto dopo, mentre, con
le braccia incrociate sul petto, fissava il vuoto. Bassista e
batterista si
scambiarono un’occhiata tra il confuso e il divertito.
«Ha vinto Blair. Vieni a
festeggiare con noi?» domandò Chris
chinandosi per parlare all’orecchio di un Matt ancora assorto
nei propri
pensieri.
Il cantante sobbalzò:
«Ehm... oh... eh? Chi ha vinto? Cosa?
Blair? Ma... ma se non...»
«Appunto idiota,»
intervenne Dom, «non era candidato! Cosa
prendi da bere?».
Ordinarono mentre un’altra
manciata di amici si univa al
loro tavolo.
Giocherellando con il suo calice di
vino vuoto, estraneato
dalle chiacchiere degli altri e dalle noiose canzoni che stavano
passando alla
radio, Matt guardò l’ora: undici e mezzo. Si
sentiva stanco. Forse sarebbe
tornato a casa. Sì, ma a fare che cosa? Dormire... aveva una
gran voglia di
dormire negli ultimi giorni. Che qualche bastardo dell’FBI
gli avesse messo un microchip
per averne il controllo ed era questo a prosciugare le sue energie?
Chissà, magari
l’ultimo disco era andato bene perché qualcuno
lassù in cima l’aveva voluto...
poi ripensò ad Exogenesis, quel pezzo che sognava da anni di
scrivere. Per la
seconda volta in un giorno mandò a quel paese se stesso: un
disco come quello
non poteva essere pilotato.
All’improvviso
tornò alla realtà. «Bellamy»,
qualcuno lo
aveva detto, qualcuno dallo studio di chissà quale noiosa
emittente su cui il
barista si era sintonizzato. E siccome da qualche anno a questa parte
il
Bellamy in oggetto era sempre (sempre? Sì, ormai sempre!)
lui... ma era troppo
tardi. I Biffy Clyro avevano già preso il posto di quella
voce di donna che lo
aveva nominato.
Guardò Chris, seduto
accanto a lui, momentaneamente in
silenzio: «Mi hanno nominato ma non ci stanno passando.
Perché? Ho le palle
piene che continuino a blaterare sulla mia vita... non sanno un cazzo
dei fatti
miei. Poss...»
«Ehi, amico,
calma!» il collega gli posò una mano sul
braccio. «Che cacchio hai oggi? Sei un gattino attaccato alle
palle!».
Matt scosse la testa e si
sforzò di sorridere. Si tenne per
sé l’ipotesi del microchip che viveva come un
parassita dentro il suo corpo e
che lo portava all’equazione meno energia uguale meno buon
umore.
«Avranno detto che sei
l’uomo più sexy del rock... l’hanno
detto anche i Brit Awards per cui, cazzo, deve essere vero!»
Matt non ebbe tempo di rispondere
perché la sua attenzione
fu richiamata da qualcun altro: «Ehi, Matt, ma ti sei
candidato?». Era il
barista del locale, amico di vecchia data della band.
«A che? Ai Brit Awards? No,
mi ci hanno nominato!»
«No, cretino! Parlo delle
elezioni di oggi!».
Il cantante guardò
divertito l’uomo che gli si stava facendo
incontro. «Pacco... anche tu? Non sono nemmeno andato a
votare!»
«Ma loro hanno votato
te!».
Matt si alzò; i compagni
di tavolo lo fissavano trattenendo
una risata fragorosa. «Loro chi? ‘Cazzo stai
dicendo? Quanto hai bevuto
stasera?»
«Meno di te, idiota! Matt,
ti hanno votato, l’hanno appena
detto alla radio!».
Sul volto del cantante ora era
dipinta un’espressione di
perplessità, era troppo confuso persino per associare quello
che l’amico gli
stava dicendo alla risposta che stava cercando pochi minuti prima.
Teneva gli
occhi incollati sul barista, ma non riusciva a scorgervi tracce di
scherno.
“Mi sta prendendo in giro.
Deve starmi prendendo in giro!
‘Cacchio si è fumato?”. Si
girò verso i compagni di tavolo: tutti avevano
un’espressione indecifrabile. Sospirò.
“Mi sta allucinando - quel microchip mi
sta allucinando! Dove me l’hanno impiantato? Sono una cavia
di qualche fottuto
esperimento e impazzirò. Addio ragazzi, addio Muse, adesso
gli alieni vengono a
riprendersi l’amico Matt.”
Il barista lo scosse per le spalle:
«Ancora dei nostri,
Primo Ministro?».
Matt sospirò nuovamente.
Un’occhiata intorno non lo aiutò
affatto a capire se l’allucinato fosse lui o tutti gli altri.
«Vieni con me»,
gli disse il barista spingendolo gentilmente
verso una postazione Internet. Davanti agli occhi vacui di
un’inerte Matt, aprì
la pagina della BBC.
«Prime proiezioni dai
seggi. Pare che un grandissimo numero
di votanti non abbia assegnato alcuna preferenza ai candidati in lizza,
scegliendo invece di scrivere “Matthew J. Bellamy
(Muse)” sulla scheda
elettorale.»
Matt guardò quelle parole
senza trovare alcun senso logico.
“Matthew J. Bellamy...
dovrei essere io. E poi Muse tra
parentesi... sono io! Naaah... dai...”.
«Hai visto?» lo
riscosse il barista.
Matt finalmente realizzò,
annuì e scoppiò a ridere. Non
aveva senso, quella storia non aveva nessun senso, ma tanto valeva
divertircisi!
«Siete stati
voi?» domandò il cantante all’amico
pensando
all’incipit “Prime proiezioni” e
supponendo che gli scrutini fossero partiti
dal Devon, in cui magari Chris e Dom avevano organizzato qualcosa di
scemo pur
di convincerlo a candidarsi alle elezioni successive.
«Oddio, non credo, non so
gli altri, ma nemmeno io sono
andato a votare.»
Matt continuava a ridere, ora
appoggiato scompostamente
sulla tastiera del terminale.
«Allora?» chiese
il resto della compagnia schierata ora alle
sue spalle. Il cantante si limitò ad indicare lo schermo e
rise ancora,
fragorosamente, forse istericamente.
Il barista si allontanò
per un istante, per poi tornare con
una bottiglia di champagne: «Al nostro futuro Primo
Ministro!» esordì,
stappandola e versandone un po’ in faccia a Matt.
Quest’ultimo rideva
imperterrito. Non che avesse bevuto più del solito... era
forse solo
allucinato, ma non se ne curava più.
«A me, a voi, a noi, a chi
cazzo vi pare!» urlò
impossessandosi della bottiglia per fare la doccia a chiunque gli
capitasse a
tiro.
Altro champagne, altre docce, poi un
brindisi vero, un
altro, e un altro ancora. Avevano saputo fare peggio di
così, molte volte,
specialmente nei primi anni di tour, comunque il livello fu notevole:
il
tranquillo bar della cittadina costiera rimase aperto fino
all’alba perché i
clienti euforici potessero continuare a festeggiare.
Quando i colori sgargianti del nuovo
giorno illuminarono la
città e la pioggia aveva smesso di accarezzare il profilo
della costa inglese,
i ragazzi si trasferirono in spiaggia a celebrare ciò che
era rimasto incelebrato
precedentemente. Avvolta dall’aria fredda di una mattina non
ancora
completamente iniziata, la compagnia si riscaldava a suon di alcohol.
Matt
continuava a ridere - praticamente non aveva mai smesso - e lo stesso
facevano
i suoi amici.
«Ehi, tesoro, svegliati,
c’è una chiamata per te.»
Il ragazzo socchiuse gli occhi.
Chiamata? Che volevano? Chi
lo cercava? Si era addormentato da nemmeno cinque minuti e
già lo
svegliavano... prima o poi sarebbe andato in standby per una settimana
intera!
«A meno che non sia la
regina», biascicò, «chiunque
può
aspettare.»
“Oddio, anche lei potrebbe
aspettare, in effetti!” concluse
tra sé rigirandosi nel letto.
Marilyn lo scosse: «No, non
è la regina, ma penso sia
comunque importante. È la Sede Centrale del Comitato
Elettorale. A proposito,
piccolo Bellamy: cos’è questa storia di tutti i
voti che hai preso? Perché
sistematicamente mi tagli fuori da tutto?».
Matt si tirò a sedere
sull’orlo di un’altra risata
isterico-incredula: «Boh! Quando capirò ti
spiegherò, tranquilla mamma.»
Dopo un paio di colpi di tosse per
scacciare sonno e
stanchezza dalla voce, si precipitò ad afferrare la cornetta.
«Signor Bellamy, gradirebbe
spiegarci cosa sta succedendo? È
una trovata pubblicitaria del vostro manager, della vostra casa
discografica,
oppure un metodo stupido per “rovesciare il
sistema”?». L’interlocutore, tono
freddo di chi è abituato a comandare, scandì le
ultime parole con particolare
enfasi sarcastica.
«Non so», rispose
placidamente il cantante.
«Non sa. Bello! E cosa
dovremmo fare noi di questi
ottomilionienovecentomilarotti voti?».
Matt addocchiò
l’ora sul display del telefono per capire se
gli scrutini erano già terminati: tre e mezzo. Non aveva
dormito giusto i
cinque minuti che pensava, e per di più non si ricordava
nemmeno come aveva
fatto a tornare a casa. Ringraziò dentro di sé
l’anima gentile che lo aveva
riaccompagnato.
«Nemmeno questo
so», proseguì infine. «Potreste ad
esempio
propormi di candidarmi.»
«Eccolo... era qui che
voleva arrivare, eh? E se glielo
proponessimo, lei si candiderebbe?».
Il cantante fece un rapido sorriso a
quella disponibilità
troppo immediata. «Non so», si limitò a
ripetere.
«E c’è
qualcosa che lei sappia, signor Bellamy?».
Matt non rispose preferendo studiare
la tattica
dell’avversario.
«Senta, signor Bellamy:
facciamo che lei adesso prende e
viene qui a Londra e ne parliamo faccia a faccia, OK?»
«Oh-hoh!
“Facciamo che lei prende... viene... fa...” si
ricordi che potrei essere il suo Primo Ministro un giorno!»
ribatté il giovane
dopo essersi mordicchiato un dito per non scoppiare a ridere in faccia
a
quell’interlocutore così irritante.
«Le auguro buona
giornata», si limitò a rispondere
l’altro.
«Aspetti
aspetti!» Matt dovette nuovamente trattenere una
risata e questa volta fu il labbro inferiore a subirne le conseguenze.
«Quanti
voti ha detto che ho preso?»
Il funzionario del Comitato
Elettorale si schiarì la gola
prima di dire: «Ottomilionienovecentomilaqualcosa.»
«Wow!».
L’espressione di trionfo nella voce del cantante era
genuina. «E le giuro che non mi sono autovotato, non sono
nemmeno andato a
votare! Non pensa sia fantastico?». Un ulteriore morso al
labbro per non
ridere.
«Le auguro buona giornata,
Bellamy. Ci raggiunga qui in
giornata, è urgente.»
Terminata la chiamata, Matt si
poté sfogare nell’ennesima
risata che ora conteneva divertimento, sarcasmo, confusione, e ancora
incredulità e isteria. «Eh, mamma... pare proprio
che
ottomilionienovecentomilapassa persone abbiano votato per me. E ora il
Comitato
si trova col culo a terra perché suppongo non sia mai
successa una cosa
simile.»
La donna continuava a fissarlo, ora
anche sul suo volto
un’espressione divertita. «E non solo!»
concluse Marilyn. «Pare che i candidati
abbiano preso briciole al tuo confronto. Qualche centinaio di migliaio
di voti,
ma niente più.»
Risero insieme questa volta.
Dopo alcuni minuti Matt
lasciò la madre per andare a
prepararsi in vista del grande appuntamento ufficiale.
“Ottomilionienovecentomilapiù
voti... wow, sono un bel po’!”
pensava mentre entrava nella sua stanza. Sorrise ancora nel
constatarlo. Prima
di dirigersi verso l’armadio per cercare vestiti per quanto
possibile
“normali”, si chinò a raccogliere The
Rise Of The Fourth Reich che era caduto
dal comodino. Fu a quel punto che si trovò faccia a faccia
con la copertina del
libro e la foto dell’autore in primo piano. Il sangue gli si
gelò nelle vene.
Era come se quegli occhi saggi lo stessero scrutando, interrogando,
accusando,
invitando a pensare.
“E perché
così tante persone hanno votato te senza che
nemmeno ti candidassi?” sembrava domandare Marrs.
“Sei sicuro che l’azione sia
così spontanea e genuina?”. Matt
respirò a fatica, congelato nella propria
posizione, incapace di distogliere gli occhi da quella copertina.
“Attento”, diceva
ancora l’autore, “non pensi ti stiano usando? Qual
è il loro scopo? Non pensi
sia un modo gentile per metterti fuori scena? O forse semplicemente
farti
fuori...”.
«Basta!»
urlò il cantante scagliando il libro nell’angolo
più lontano della stanza.
Si girò: intorno a lui era
tutto buio, l’unica illuminazione
quella dell’orologio digitale che dal comodino segnava
06/05/2010 03:41 am.
Sotto la sua guancia il morbido conforto del cuscino di piume, la testa
effettivamente oppressa dall’emicrania post-sbornia con i
vecchi compagni del
TCC, accanto alla sveglia The Rise Of The Fourth Reich, ma questa volta
gli
occhi di Jim Marrs erano inermi.
“Dove ti porteranno le tue
paranoie?” si domandò. Non era
certo che andare a votare quel giorno sarebbe stata la cosa giusta,
tuttavia
ora sapeva che non avrebbe mai occupato il posto di timoniere
dall’alto della
piramide; mai, perché tanto sarebbe semplicemente caduto nel
sistema, non se ne
poteva fare a meno. Accantonò definitivamente il
suggerimento di molti amici e conoscenti
che lo invitavano a candidarsi a qualche carica perché,
secondo loro, lui era
sempre stato una valanga di idee nuove, fresche, brillanti, e questo
avrebbe
solo giovato alla politica. No. La sua lotta personale per migliorare
il mondo
era la musica e avrebbe dato la vita pur di continuare a farla.
«Tanto il voto che ci
concedono è inutile...» mormorò
sconsolatamente.
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