Fandom: Sherlock Holmes;
Pairing: Holmes/Watson;
Rating: Pg1;
Genere: Generale.
Warning: Flash-fic, Missing Moment, Pre-Slash;
Beta: Acardia17;
Summary: Il cielo era incendiato dai colori del tramonto,
quando – dalla finestra della nostra camera alla Locanda della Corona – Watson
ed io vedemmo giungere la carrozza del dottor Roylott.
(Per la June Challenge
di holmes_ita)
Note: Scritta per la June Challenge
di holmes_ita, su
prompt “L’avventura della fascia maculata”,
contenuto in “Le avventure di Sherlock
Holmes”. I dialoghi in corsivo sono tutti tratti dal racconto originale.
Partecipa alla challenge “A
tutto campo!” del Marauders
Archive.
Dedica: Erigerò un altare a fiorediloto, koorime e Acardia17, tre pie donne
che mi hanno aiutato tantissimo, le prime due sopportando tutte le mia ansie
ossessive-compulsive e l’ultima – ma non certo per importanza! – per essersi
prestata a betare ‘sta cosuccia, dato che la mia Beta “ufficiale” si sta
godendo le meritate vacanze.
DISCLAIMER: Tutti i personaggi delle saga di Sherlock Holmes non sono opera
mia, bensì della mirabile penna di Sir Arthur Conan Doyle. Dato, però, che i
diritti d’autore sono ormai scaduti, stappiamo tutti insieme lo spumante ed
appropriamocene beatamente! XD Ah, ovviamente non mi paga nessuno, anche perché
altrimenti il succitato autore si rivolterebbe nella tomba, poverello.
Alla Locanda della Corona
Le canzoni sono nei
tuoi occhi
le vedo quando sorridi
ne ho avuto abbastanza degli amori romantici
mi arrenderei, si, mi arrenderei per un miracolo,
una droga miracolosa.*
Il cielo era incendiato dai colori del tramonto, quando –
dalla finestra della nostra camera alla Locanda della Corona – Watson ed io
vedemmo giungere la carrozza del dottor Roylott. Potemmo persino udire il ruggito
di quest’ultimo, destinato al povero ragazzo che guidava il veicolo, reo di
avere avuto qualche difficoltà ad aprire il cancello.
Mi voltai all’indirizzo del mio amico, che fissava la
lontana figurina del patrigno della nostra cliente con evidente ostilità;
l’aveva avuto in antipatia sin dal momento in cui aveva scorto i lividi sul
polso della signorina Stoner, opinione aggravatasi quando quell’energumeno si
era permesso di far irruzione a casa nostra e minacciarmi.
Il sole morente incupiva i suoi occhi chiari di una tinta
quasi indaco e marcava la piega già carica di disapprovazione in cui si erano
storte le sue labbra carnose. Con disappunto, mi accorsi che mi stavo
attardando ad osservarlo ben più del dovuto, proprio come mi era già capitato
quella stessa mattina, quando ero entrato in camera sua per svegliarlo ed,
invece di adempiere il mio intento, ero rimasto lì impalato ad ammirarlo, sino
a che il mio sguardo doveva essere divenuto tanto bruciante da costringerlo ad
aprire gli occhi.
«Sa, Watson»,
esordii poi, ripensando a quanto fosse oscura la faccenda in cui ci eravamo
invischiati, «In verità ho qualche
scrupolo a portarla con me questa notte. Esiste un pericolo ben preciso».
«Posso esserle di
qualche aiuto?», mi domandò lui, sollecito.
«La sua presenza
potrebbe essere preziosa», ammisi.
«E allora verrò
certamente», replicò con determinazione.
Tra tutti i gentiluomini in cui avrei potuto imbattermi e
dividere il mio appartamento, non credo che sarebbe potuto capitarmene uno più
onesto e coraggioso del mio Watson. Mi stavo tragicamente abituando alla sua
presenza costante accanto a me.
La mia mano si mosse per accarezzargli uno zigomo con il
dorso delle dita, ma la ricondussi subito alla disciplina, e dissimulai lo
scatto improvviso sfilando la pipa dalla tasca interna della giacca. «É molto gentile da parte sua», dissi,
accennando un fugace sorriso.
Watson non fece mostra di aver notato alcuna esitazione nel
mio gesto. «Lei parla di pericolo.
Evidentemente in quelle stanze ha visto più di quanto abbia visto io»,
asserì, distogliendomi da quei pensieri.
Così lo invitai a riflettere su quanto entrambi avevamo
notato a Stoke Moran: il finto cordone del campanello, l’inutile foro
d’areazione – del quale confessai di sospettarne l’esistenza sin da prima d’averlo
trovato, ricevendo in cambio il suo consueto «Ma mio caro Holmes!», che mi strappò un sorriso soddisfatto.
Adoravo l’espressione che assumeva ogni qual volta esclamava quelle parole –,
ma soprattutto lo indussi a meditare sul letto inchiodato al pavimento.
«Comincio vagamente a
capire dove vuole andare a parare. Siamo arrivati appena in tempo per impedire
un astuto e orribile piano», considerò quindi, e io non potei che
concordare con lui.
«Dice bene; astuto e
orribile. Quando un medico si da al crimine, diventa il peggiore dei criminali.
Ha il sangue freddo e le cognizioni necessarie. Palmer e Pritchard furono tra i
primi nel loro campo. Quest’uomo colpisce ancora più a fondo ma credo, Watson,
che riusciremo a colpire anche più a fondo di lui. Comunque, prima che la notte
sia trascorsa, dovremo assistere a eventi veramente orribili; per amor del
cielo, fumiamoci tranquillamente la pipa e, per qualche ora, pensiamo a
qualcosa di più allegro».
Il dottore annuì e replicò: «Ordinerò la cena, se non le
dispiace», poi, dopo un mio cenno d’assenso, tirò il cordone del campanello. Qualche
minuto più tardi, la moglie del padrone della locanda bussò alla porta e Watson
ordinò per entrambi, benché non fosse necessario.
I piatti ci furono serviti sul tavolino accanto alla
finestra e mi accomodai di fronte al mio amico nonostante non avessi alcuna
intenzione di toccare cibo. Il mio coinquilino cercò di convincermi ad
assaggiare qualcosa senza ottenere alcun successo; in quel momento il buon
profumo di quel pasto non aveva per me alcuna attrattiva. Vorrei poter dire lo
stesso per quanto riguarda Watson, ma i suoi gesti mi affascinavano in maniera
quasi morbosa, forse perché teneva una postura militaresca e composta perfino
in quel contesto. Quando il mio sguardo s’incatenò ad una goccia di vino
scivolata sul suo mento e Watson arrossì accorgendosene, la situazione cominciò
a farsi davvero paradossale e mi innervosì oltremodo. Non riuscivo in alcuna
maniera a controllarmi, ed era una cosa che non potevo tollerare.
«Va tutto bene, amico mio? Si è incupito all’improvviso», mi
fece notare Watson, toccando un nervo scoperto.
«É tutto a posto», risposi, forse più bruscamente del
necessario.
«É preoccupato per il caso?», mi domandò allora e, benché
trovassi seccante la sua insistenza, una parte di me fu grata della sua
ingenuità.
«Ero solo sovrappensiero, ragazzo mio» lo rassicurai,
liquidando il discorso, poi mi versai un bicchiere di vino e ne annusai il
profumo vagamente fruttato.
«É ottimo», mi assicurò. «La padrona mi ha riferito che sono
loro stessi a produrlo. Potremmo acquistarne qualche bottiglia da portare a
casa» propose distrattamente, e in effetti era uno dei migliori vini caserecci
che avessi mai assaggiato.
«Sarà perfetto per innaffiare i piatti della signora Hudson»
concordai.
Continuammo a chiacchierare di argomenti senza peso, mentre
il cielo imbruniva rapidamente e le prime stelle facevano la loro comparsa. Lasciammo
che il buio calasse nella stanza, non curandoci di accendere la luce, e di
conseguenza il nostro parlare si fece più fitto e sommesso. Quindi ci chinammo
l’uno verso l’altro – in tutta onestà, non ricordo nemmeno di che discutemmo,
questioni di poco conto – finché non mi ritrovai con la testa troppo vicina
alla sua e mi interruppi bruscamente.
Perplesso, Watson cercò il mio sguardo, ma i miei occhi
caddero sulle sue labbra socchiuse. C’era una piccola spaccatura su quello
inferiore, seccato dal sole e dal vento. Detestavo come simili inezie
riuscissero a rapire la mia attenzione. Avrei voluto succhiare quel taglio e
poi lenirlo con la lingua, e mi ero di nuovo accostato a lui più del dovuto, quando
fortunatamente scorsi un bagliore con la coda dell’occhio; la nostra cliente
aveva posato una lampada sul davanzale della propria finestra.
«Ecco il segnale»,
esclamai, balzando in piedi per allontanarmi da lui, grato alla tempestività
della signorina Stoner.
Afferrai una canna, che quella notte sarebbe stata la mia
arma, ed un attimo dopo stavamo scendendo le scale per incamminarci verso Stock
Moran. Da quel momento in poi, nient’altro, nemmeno – anzi, soprattutto – la vena pulsante di
tensione sul collo di Watson, avrebbe dovuto distrarmi.
FINE.
*La strofa d’introduzione è tratta dalla bellissima e
sherlockianissima canzone “Miracle Drug” degli U2.