ARANCIO I
Ci sono
giornate
in cui non si sa che fare. Alzarsi o crogiolarsi nel letto fino alla
morte.
Sebbene la seconda ipotesi fosse allettante, la data imponeva il
rendersi
presentabile al pubblico. Shikamaru
Nara
concetrò tutta la sua attenzione nel focalizzare
l’ubicazione della sua
divisa. Avrebbe
sicuramente preferito
continuare a dormire: le ricorrenze di Konoha erano particolarmente
noiose.
Indossò la divisa da chunin. Sbadigliò e
legandosi i capelli uscì dalla stanza.
La casa era
insolitamente silenziosa; probabilmente gli altri lo avevano preceduto.
Suo
padre, come lui, non era il tipo da dare eccessivo peso alle feste di
stato. Vi
partecipava esclusivamente per il suo grado. Essere jonin implicava
anche
questo e Shikamaru ne aveva fatto esperienza con quella mattina di
sonno privato.
Per sua madre la cosa era differente: Yoshino nutriva un genuino
entusiasmo nei
confronti di quegli eventi mondani. Appeso all’uscio della
residenza Nara vi
era un drappo arancione. L’entusiasmo di sua madre era
decisamente esagerato.
L’ossessione
degli abitanti di Konoha per quel giorno era al limite del maniacale.
Le vie
del villaggio erano invase da decorazioni arancio. Troppo colore.
Troppa
ipocrisia. Ma che cosa poteva farci se loro avevano voluto
così. Prese la via
più breve per il Palazzo dell’Hokage. Il suo scopo
era di arrivare il prima
possibile incontrando il minor numero di persone e edifici con
suppellettili
arancioni. Quel colore, in quel giorno, lo metteva a disagio. Conosceva
il
perché, ma riteneva fosse meglio tacere e continuare a
pensare a fatti propri.
La filosofia del minimo sforzo era il suo credo e non vi avrebbe
rinunciato per
una questione morale.
Shikamaru
poteva
chiaramente scorgere i volti dei Kage. Primo. Secondo. Terzo. Quarto.
Quinto. Sesto.
Aveva trovato interessante come gli abitanti della foglia avessero
eclissato il
governo Danzo non solo non raffigurandolo mai, ma anche non
considerandolo mai
come Rokudaime. In effetti, l’attuale sarebbe stato il
settimo. A Konoha si
aveva l’abilità innata di nascondere gli eventi
spiacevoli fino a perderne
memoria.
«Avete
redatto
il rapporto della missione?»
«Si»
«E
lo avete
consegnato?»
«No.
Il
Rokudaime è attualmente occupato»
«Capisco,
ma provvedete
il prima possibile»
«Sarà
fatto.»
Questa
assicurazione bastò al vecchio per allontanarsi e lasciare
solo il ragazzo in
mezzo al corridoio. Appena l’odioso uomo voltò
l’angolo, il giovane si rilassò.
Da un po’ si domandava da quanto avesse iniziato a
comportarsi da bravo
soldatino. Non se lo ricordava, ma se si guardava attorno vedeva che
tutti
erano a modo loro cambiati anche se sembravano sempre gli stessi. Si
ravvivò la
zazzera bionda, credendo fosse un valido modo per allontanare quei
pensieri
scomodi.
Il biondo
aveva
sempre creduto che crescendo i problemi sarebbero scomparsi, ora, alla
veneranda età di vent’anni, si era accorto di
averli solo sostituiti con le
scartoffie. Aveva ben altri progetti per la sua età, ma il
passato è il passato
e i sogni sono sogni. Quello che si immagina da bambini, spesso, si
rivela
un’utopia. Da tempo aveva imparato a mettere da parte le
fantasie passate. Ogni
giorno che trascorreva il mondo appariva meno bello di come fosse anni
prima.
Non era
nella
sua indole passare il tempo a deprimersi lungo i corridoi del palazzo
dell’Hokage, ma il solo pensiero di tornare a lavoro lo
bloccò. Quel benedetto
rapporto andava consegnato, nella speranza che non fosse mai letto.
Odiava
profondamente quel genere di missioni. Eliminazione. Nemmeno si
ricordava il
volto si tutti quelli a cui aveva tirato un kunai fatale. Persino
l’ultimo non
gli veniva in mente. Lo aveva guardato dritto negli occhi, mirato e
colpito. Un
tiro pulito, un centro perfetto tra le cavità oculari.
Mosse i
primi
passi in direzione dell’ufficio. Quella aveva tutti i
presupposti per
presentarsi come una pessima giornata. Gli stendardi arancione acceso
fuori
dalli vetri ne erano la prova. Ancora trenta passi e avrebbe varcato la
soglia
della stanza, ancora trentacinque passi e si sarebbe trovato affianco
il suo
capo ad assistere a quell’ingloriosa ricorrenza.
ARANCIO
«Cantami,
o Diva, del Pelìde Achille
l'ira
funesta che infiniti addusse
lutti
agli Achei, molte anzi tempo all'Orco
generose
travolse alme d'eroi,
e
di cani
e d'augelli orrido pasto
lor
salme abbandonò»
(OMERO,
Iliade, libro I)
I.
«Vedo
che lavori
molto, Naruto» . Il biondo si voltò sorpreso.
«Shikamaru»
disse come svegliato da un lungo sonno. «Anche tu
qui» e il suo sguardo tornò a
puntare l’arancione di fuori. Alla fine quella trentina di
passi non era
riuscito a farla.
Il moro
accorciò
le distanze, portandosi affianco al compagno.«Non ti
piacciono proprio, eh? ».
«Dovrebbero!?».
Naruto accennò un sorriso sghembo non degnandolo di uno
sguardo. Shikamaru
ormai aveva acquisito una certa esperienza nel gestire il biondo in
situazioni
come quella. Ogni anno quel siparietto si ripeteva con le stesse
modalità e
tempi. Forse il dialogo variava, ma il succo no.
Divagazione.
«Il
grande capo
ci starà aspettando. Andiamo…».
«Non
ti
preoccupare non saremo certo noi in ritardo».
«Quell’uomo
non
perde proprio il vizio…».
«Già…».
Silenzio e
mugugni.
«Mhn…».
«Mhn…ma
ti rendi
conto!?».
Sfogo.
«Che?».
«Questa
festa…».
«Ah…».
«Questa
festa…non ha senso».
«Festeggiano
l’uccisione di Madara. Ti celebrano.».
«Stronzate.»
Solo
mettendo il
sale sulla ferita questa si sarebbe cicatrizzata. Shikamaru sapeva che
solo
dando da dire a Naruto lo avrebbe aiutato a fare pace con il mondo.
«Stronzate.
Io
non ho fatto nulla. Nulla degno di essere celebrato. Lo sai, hai visto:
ha
fatto tutto lui. Da solo. Io…io alzato un polverone senza
combinare nulla di
concreto…»
«Lo
hai ucciso.»
«Mi
sono
limitato a dargli il colpo di grazia. Il grosso lo ha fatto
lui.». Naruto
fissava i drappi arancioni come volesse incenerirli con lo sguardo. Per
una
decina di secondi rimase immobile senza nemmeno prendere fiato.
Shikamaru
comprendeva come l’amico ribollisse di rabbia nel guardare
fuori dalla
finestra.
«Mi
sono trovato
lì nel momento adatto, non mi merito nulla.»
Liquidò così il moro, svoltandogli
le spalle e comprendo i trenta passi che lo separavano
dall’ufficio
dell’Hokage. Shikamaru strinse le spalle fissandolo entrare,
per poi seguirlo,
come era consuetudine negli ultimi anni.
Fu svegliato
dal
brontolio del suo stomaco. Erano giorni che intervallava momenti di
torpore a
rari attimi di lucidità. Non si ricordava nemmeno
l’ultima volta che avesse
toccato cibo. Decise , quindi, che era arrivato il momento di
svegliarsi e
andare a fare qualcosa per affermare il suo essere vivo. Forse avrebbe
ucciso
qualcosa. Si sarebbe alzato, sarebbe corso nel bosco e avrebbe preso
qualcosa,
qualsiasi cosa.
Fece perno
sulle
braccia per sollevare il busto. Il braccio destro rispose
all’impulso , il sinistro
no. Ad essere precisi l’intorpidimento coinvolgeva la parte
sinistra del
torace, la spalla, il braccio, la mano, le dita. Tutto era
addormentato.
Supino, portò
la mano destra a
massaggiarsi la zona vicina al cuore. Il palmo poteva avvertire un
intenso e
febbricitante calore a fior di pelle.
Rimase a
pancia
all’aria ancora a lungo, dopo che il suo stomaco lo
svegliò, ad accarezzarsi il
petto. Si era perso ad osservare le macchie di umidità sul
soffitto. Alcune gli
sembravano dei cavolfiori andati a male, con mezzi di intonaco cadenti
ed
umidicci; altri componevano codici. Tondo grande. Tondo grande. Tondo
piccolo.
Cerchio. Tondo grande. Continuò a decriptare le chiazze
marroni sopra la sua
testa fino a sentire la mano della stessa temperatura del torace. Ormai
poteva percepire
nuovamente la sua parte sinistra. Decise, allora, che era giunto il
tempo di
alzarsi e andare ad uccidere qualcosa, anche se ormai non aveva
più fame.
Trovava
scomoda
quella sensazione di bruciore di quando si cessa di avere fame senza
aver
mangiato nulla.
Fuori era
discretamente caldo. Uscì dal suo rifugio senza maglia. Le
fronde di
vegetazione, umide di mattino, gli stavano lasciando un alone
appicicaticcio
addosso. Si sentiva come grande carta moschicida. Una di quelle che sua
madre
metteva d’estate fuori dalla finestra della cucina. Si vedeva
circondato da
mosche. Ma lì, a parte qualche fastidioso stormo di
moscerini, non c’era nulla.
Forse qualche grassa larva intenta a mangiare le piante
dall’interno, ma nulla
che somigliasse ad una mosca. Troppo spesso la sua mente viaggiava
più veloce
della realtà.
Con quei
suoi
dannati occhi vedeva cose straordinarie. Però, di una
realtà alternativa non
aveva la più pallida idea di che farsene. Lo stavano
ingannando. Prima il mondo
si era preso beffa di lui ed ora anche le parti che componevano il suo
corpo.
Avrebbe preferito il silenzio a quel ronzio di mosche nella sua testa.
Agli insetti
si
sostituì uno scrosciare d’acqua. Probabilmente
nelle vicinanze doveva esserci
un fiume. Si diresse verso la fonte del rumore. Cacciare in quel
sottobosco era
troppo complicato, meglio pescare. Era da una vita che si nutriva di
pesce.
Con la testa
vuota si ritrovò davanti ai salti di una torrente.
L’acqua era eccessivamente
limpida per occultare le sue prede: dei pesci tonti che non sanno che
sopra di
loro vi era il predatore. Li fissò con intensità,
come se il suo sguardo
potesse uccidere anche loro. Quelli se ne rimanevano attorno al un
masso, vivi
ed ignari di tutto. Sorrise. Questa volta avrebbe dovuto sporcarsi le
mani per
uccidere.
Si
avvicinò
ancora, fino ad essere sopra il suo pasto. L’ombra del
ragazzo cadeva al di là della
roccia. Era stato un abile ninja e non avrebbe rovinato la sua caccia
spaventando il cibo con la sua proiezione. Constatò ancora
quanto l’acqua fosse
limpida. Vide la sua immagine riflessa e la ignorò.
Fulmineo, ruppe la
superficie con il braccio, avverrò la vittima e la
portò fuori. Il suo riflesso,
in sua manciata di secondi, si ricompose.
Un giovane
uomo
con in mano un pesce. Un grosso pesce, un pasto adatto per una persona
sola.
Non si riconosceva. Era da un po’ che non si guardava in uno
specchio. Lo
scoprirsi diverso dal ricordo che aveva di sé, lo
lasciò basito. Era magro,
forse a causa della sua dieta fatta di sonno. Aveva il viso scavato.
Una
leggera barba incolta gli copriva il mento e le guance. I capelli erano
arruffati. Lo sguardo incredibilmente vuoto. Non era più
lui. La sua immagine
lo guardava con espressione severa.. Poteva distinguere chiaramente il
limite tra
ossa e muscoli sulle braccia e sul torace scoperto.
All’altezza del cuore vi
era una cicatrice, il segno di un’ustione, più
scura rispetto al pallore
cadaverico delle sue membra. Quella dannata cicatrice lo tormentava da
tempo.
Ma era un ricordo, uno brutto che non si vuole dimenticare.
Fissò la macchia
sul petto. Voleva entravi dentro ed accedere a quelle memorie. Ora che
era
lucido, desiderava sapere che cosa fosse successo, che fine aveva fatto
il suo
vecchio io. Strinse il pungo, fino a sentire le unghie entrare dentro
la carne
del pesce. Non riusciva a capire cosa lo infastidisse maggiormente: se
la
nostalgia di sé, o l’incapacità di far
riaffiorare i ricordi. Scaraventò
l’animale sulla riva. Con un balzò lo raggiunse.
Prese il kunai che portava al
fianco, lo affondò nel ventre della bestia.
Infilò dentro il taglio rosso la
mano e la portò fuori con le viscere del pranzo. Si
guardò attorno. Un grosso
ramo secco sarebbe bastato ad alimentare un piccolo fuoco. Appena
trovò la
legna adatta, la portò vicino alla sponda. Trafisse il pesce
con un rametto
verde e conficcò lo spiedo a terra. Compose dei sigilli.
Serpente, pecora,
scimmia, cinghiale, cavallo, tigre.
«Katon!»
Ora poteva
prepararsi un pasto decente.
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