Tre piccole parole
Disclaimer:
"Numb3rs" e i suoi personaggi non appartengono a me, ma a
CBS – che non l'hanno apprezzato, altrimenti non l'avrebbero
cancellato; allora perché non l'hanno semplicemente dato a qualcun'altro? Per esempio a... me? ;)
Grazie
a: Alchimista, senza la quale
non ce l'avrei fatta di scrivere questa storiella in un italiano
comprensibile. Sei unica!
Spero
che la Shot vi piacerà...
Tre
piccole parole
Colby
non sapeva come dirlo.
Seduto
nella macchina ripassava le maniere diverse. Ci n’erano talmente
tante, ma nessuna sembrava appropria. Si chiedeva come la stesse
prendendo David. Si erano separati davanti casa di Charlie.
Aveva
ancora nella testa le parole che Alan aveva detto quando aveva aperto
loro la porta.
Oh,
ciao! Voi due… avete idea di che ora è? E poi, se cercate Don o
Charlie, venite per nulla. Nessuno dei due è a casa.
Alan
aveva sorriso. Adesso probabilmente non sorrideva più.
La
casa di Robin entrò nel suo campo di vista. Siccome Don aveva spento
il suo cellulare e non era a casa, quell'accogliante dimora era la
più probabile località del suo soggiorno notturno. Probabilmente
avevano passato una bella serata e Colby detestava interromperli
quando facevano qualcosa che lui preferiva davvero non immaginare.
Parcheggiò
accanto al marciapiede, uscì dalla macchina e lasciò chiudere la
porta il più silenziosamente possibile. Doveva almeno avere la
premura di non mettere la procuratrice, per colmo di sfortuna, nei
guai con i suoi vicini che sicuramente non sarebbero stati contenti
di esser svegliati alle quattro di mattina da un agente dell’FBI
rumoroso.
Colby
attraversò il sentiero lastricato verso
la porta. La piccola casa a due piani si stagliava davanti a lui nel
buio. Silenzioso e tranquillo. Una calma che lui stava per
distruggere.
Suonò
il campanello. Non si mosse nulla e dopo qualche attimo si costrinse
un’altra volta a suonare. Poco dopo, una finestra e allo stesso
tempo la porta che dava sul balcone si illuminarono disopra. Allora
era lì la sua camera da letto. Ma come mai Colby trovava
quest’informazione così incredibilmente poco interessante?
Passò
qualche secondo prima di sentire dei passi sulla scala. Infine, Robin
aprì la porta. Era in’accappatoio. Don apparve dietro a lei, con
una T-shirt, jeans neri, e a piedi nudi.
«Colby?»
chiese sorpreso.
«Ciao
Robin. Hey Don.»
Don
gemette. «Caspita, sai che ora è? Cosa c’è?»
Colby
guardò per terra e Robin subito capì che qualcosa non andava.
«Vieni
dentro» si sbrigò a dire, lasciò che Colby entrasse, guardò
una volta in tutte le direzioni fuori e poi chiuse la porta alle sue
spalle lei.
«Siediti.
Vuoi un caffè?» chiese quando si unì agli uomini in cucina.
«No,
grazie» riuscì a rispondere quello, e quando Don si sedette, lo
imitò. Anche Robin si sedette al tavolo con loro.
«Allora?»
lo incoraggiò Don. «Perché sei qui? Ci hanno dato un nuovo caso?»
Siccome non dovevano lavorare né oggi né domani per la prima
volta da quasi due settimane, questo sarebbe davvero un’infamia.
Ma
Colby scosse il capo. «No». Fissò le sue mani che erano unite,
l’una nell’altra in un nodo fermo, e si chiese perché faceva
così tanta fatica. In effetti, non lo stava facendo di certo per la
prima volta.
«Ma…?»
Colby
deglutì a fatica. Un’ultima volta si chiese in che modo avrebbe
potuto dirlo e finalmente si decise per la strada più diretta.
«Charlie
è morto».
Vide
come Don diventò improvvisamente rigido.
«Dovresti
sapere che non si scherza su questa cosa».
Colby
respirò profondamente e guardò l’agente negli occhi.
«Don,
non sto scherzando».
Aspettò
finché Don non ricambiasse il suo sguardo e ripeté le dolorose
parole.
«E’
morto. Mi dispiace».
Per
un attimo, Colby credette che qualcuno avesse congelato la scena in
una lastra di ghiaccio, ma dopo qualche secondo, Don cominciò ad
annuire brevemente e a strofinarsi la fronte.
«Va
bene… va bene… Chi è?»
Colby
aggrottò le sopracciglia. «Don – mi hai sentito? Charlie –»
«Sì,
sì, sì: ho capito. Va bene… Cosa puoi… Cosa puoi dirmi?»
Colby
non sapeva ancora cosa pensare di quello strano comportamento. Ma
d’altro canto neanche lui era nelle condizioni necessarie per
riflettere al meglio. Ma almeno bastavano per ripetere alcune frasi
che continuavano a martellargli i timpani.
«Charlie
è stato coinvolto in un incidente, Don. Era per strada con la sua
bicicletta. Un automobilista ubriaco non gli ha dato la precedenza e
l’ha colpito in pieno lato».
Colby
dovette deglutire. Aveva ancora quell’immagine terribile davanti
agli occhi, un lenzuolo bianco sull’asfalto, sotto cui il corpo
morto si profilava fin troppo chiaramente…
«Pare
che Gary Walker abbia preso il caso appena ne ha sentito parlare»
continuò Colby, accorgendosi in confusione che la sua voce tremolava
un po’. «Ha chiamato David dopo che non è riuscito a
rintracciarti e David ha telefonato me. In questo momento è da tuo
padre».
I
solchi sulla fronte di Don diventarono più profondi. «E gli state
raccontando la stessa cosa? E’ necessario?»
«Don…
voglio dire, deve saperlo, o no?»
«Deve?»
Cosa
diavolo stava succedendo nel cervello di Don? Colby lanciò uno
sguardo che chiedeva aiuto a Robin. Solo allora si accorse che lei
stava piangendo in silenzio, una mano serrata davanti alla bocca, e
in fretta guardò da un’altra parte.
«Certo
che deve saperlo, Don!». Anche Colby aveva aggrottato il fronte.
«Sei sicuro di aver capito ciò che ho detto?»
«Ma
sì!» Respirò profondamente qualche volta finché non fu di nuovo
inquietantemente calmo. «Dov’è? Charlie?»
«In
ospedale».
La
carnagione di Don diventò ancora un po’ di più pallida. «In
ospedale?»
Qualcosa
non andava, pensò Colby. Il comportamento di Don era… strano.
Allarmante.
«Sì,
in ospedale» ripeté con una certa prudenza nella voce. «Come
sembra, è un donatore di organi».
Era
si corresse Colby e dovette lottare contro le emozioni che volevano
opprimerlo. Era, non
è. Charlie era un donatore di organi. Un morto non può più esser
niente, nemmeno un donatore di organi…
Colby non ne sapeva niente. Quante cose ancora c’erano di
Charlie che non sapeva? Non lo avrebbe saputo mai…
La
voce di Don lo fece tornare dai suoi pensieri.
«D’accordo,
bene… Ma che cosa abbiamo contro l’automobilista?»
«Avrà
ciò che merita, Don, te lo prometto!».
«Non
è quello che voglio sapere, voglio… cosa?»
La
confusione sulla faccia di Don superò anzi quella di Colby. Si passò
una mano su gli occhi, ma non poté cancellare quell’espressione.
«Voglio
dire… se non ci fossero conseguenze giudiziali, non attirerebbe
l’attenzione?»
Adesso,
le due facce erano uguali per quanto riguardava la confusione. Solo
Robin sembrava capire man mano.
«Don?»
Ma
guarda? Dove era finita la dura procuratrice?
Quel tremolio nella voce non se lesi addiceva affatto.
«Don,
credo che tu abbia capito male la situazione».
«Perché?»
«Voglio
dire… Lo credi alle parole di Colby sulla morte di Charlie?»
«Naturalmente
no».
Silenzio.
Calò con una pesantezza plumbea e lì si bloccò come se non volesse
mai più andarsene. Nessuno sapeva cosa dire e nessuno diceva cosa
credeva di sapere. Il cerchio vizioso del silenzio si stringeva in
spirali sempre di più piccole finché Colby tirò la sagola di
salvataggio.
«Posso
portarti da lui».
E
in effetti, per Don sembrava davvero essere la salvezza; il suo viso
teso si schiarì un po’. Colby però non era sicuro se con la sua
offerta avesse appena tirato Don nella perdizione.
Non
parlarono durante la corsa. Ambedue stavano per cominciare a parlare
più di una volta, ma ogni volta non lo facevano. Un’eternità dopo
raggiunsero l’ospedale. Entrarono in un edificio annesso,
attraversarono una sala quasi vuota di persone e presero l’ascensore
per andare di sotto.
Colby
stava sempre riflettendo febbrilmente se non dovesse dissuadere Don
da non andare di persona. Ma poi era chiaro a lui che Don, prima o
poi, avrebbe voluto comunque vedere Charlie un’ultima volta. Questo
non impediva a Colby di sentirsi come un traditore, come se mandasse
il suo amico e boss completamente impreparato in una gragnola di
pallottole. Ma l’aveva detto, più di una volta, si era costretto
ripetutamente di dirglielo…
Però
Don non aveva voluto ascoltarlo.
In
realtà Don voleva ascoltare, solo non le cose che Colby tentava di
dirgli. Don avrebbe preferito molto di più sentire cosa stava
succedendo qui.
Mentre
seguiva Colby verso il sotterraneo, il nervosismo di Don aumentava
sempre più. Perché erano qui? E cosa ancora più importante: come
stava Charlie? Era chiaro che suo fratello era in qualche modo nei
guai, probabilmente aveva avuto da fare con la Sicurezza Nazionale o
la CIA o un qualsiasi altro ufficio di investigazione. Don poteva
immaginare solo il che avevano dovuto fingere la morte di Charlie per
proteggerlo.
Ma
perché non lo avevano informato? Don sapeva che avrebbe dovuto
essere contento che tutta la bugia era mantenuta così bene, che non
lasciavano scappare fuori davvero niente, ma il suo desiderio di
sapere cosa succedeva qui non si ridusse di certo per questo.
E
soprattutto: perché Colby lo
sapeva? I pensieri di Don si erano schiariti abbastanza per capire
che David non sapeva niente e che perciò suo padre non stava
realmente ascoltando quella storia assillante. Almeno sperava che
Colby l’aveva solo inventato per farlo sembrare autentico davanti a
Robin. Come la storia con l’ospedale. Certo, era anche
possibile che avevano portato Charlie qui per apparenza, ma anche se
Don non sapeva precisamente cosa stava succedendo, avrebbe preferito
che suo fratello stesse in una casa sicura. Almeno… almeno se
Charlie non fosse stato ferito.
Don
era scosso da brividi. Non aveva idea di che cosa voleva dire tutto
questo, che cosa era successo prima di tutto! Forse avevano assalito
Charlie? Dio, forse avevano addirittura tentato di ucciderlo!
Don
poteva solamente sperare che Colby lo stesse guidando direttamente da
Charlie. Almeno adesso avrebbe finalmente saputo che cosa stava
succedendo e perché tutti dovevano simulare la morte di Charlie. Ma
sperava che Colby lo guidasse direttamente da Charlie. Perché non
importava quale fosse la causa di quest’orrore – Don non sarebbe
stato calmo finché non avesse visto Charlie in buona salute.
Oddio!
Cosa aveva dovuto sopportare fino ad adesso suo fratello?! Forse
l’avevano già inserito nel programma per proteggere i testimoni o
qualcosa di simile? E Charlie sapeva che storia avevano inventato per
garantire la sua sicurezza? Certamente non l’avevano informato; non
c’erano dubbi su questo, Don conosceva questi uffici – non
importa quale fosse la specifica questione – troppo
bene. In ogni caso, una cosa era sicura – prima sarebbe arrivato da
Charlie e meglio sarebbe stato.
«Siamo
arrivati» disse la voce attenuata di Colby all’improvviso come se
avesse letto i pensieri di Don. Erano davanti a una grande doppia
porta accanto alla quale la campanella sembrava stranamente non al
posto giusto.
«Sei
sicuro di volerlo veramente?»
E
bang, così la domanda era stata verbalizzata malgrado tutto. In zona
Cesarini. Adesso Don aveva ancora una possibilità; avrebbe dovuto
capire nel mentre che Colby diceva la verità, che era giusto, per
quanto terribile che fosse…
«Certo
che sono sicuro. Voglio sapere cosa succede, adesso» disse Don senza
ulteriori indugi.
Qualche
attimo dopo, la porta fu aperta. Colby li presentò entrambi e mostrò
i loro documenti mentre Don tentava di vedere la stanza dietro al
patologo. Charlie era davvero qui, da qualche parte? Don stava già
per chiamarlo quando il medico li lasciò entrare.
Malgrado
la luce fioca non ci volle molto a Don per distinguere che non c’era
nessuno lì. Quella era solo una grande sala con parecchi tavoli di
esame, come altre patologie che conosceva già.
Il
patologo li guidò a un tavolo nel mezzo della sala. Sopra c’era un
drappo verde. E sotto, inconfondibile, un corpo umano. I piedi erano
visibili sotto il lenzuolo, e un biglietto era attaccato a uno di
loro. Un’esistenza intera su un pezzettino di carta.
«Dov’è
Charlie?» chiese Don a Colby.
Lui
stesso sobbalzò un po’; la sua voce risuonava nelle mura
sotterranee.
«Don,
è qui. E’ lì sotto».
«Ma…
no…»
«E’
morto, Don».
Don
continuava a scuotere il capo lievemente.
«No,
non è morto. L’avete solo inventato voi».
«Non
abbiamo inventato niente. E’ morto».
Continuava
a scuotere il capo, ma la voce era diventata più bassa e il parlare
più affaticato.
«Tu
menti».
«Forse
potremmo semplicemente…?» prese la parola il patologo. Sembrava
che stesse durando troppo per lui. Teneva già la mano sopra un lembo
della copertina in attesa.
Colby
lanciò uno sguardo preoccupato a Don.
«Sei
pronto?»
Don
avrebbe voluto parlare, ma la sua voce era scomparsa in qualche modo.
Invece fece un movimento con la testa che era da qualche parte tra il
negare e l’annuire.
Il
patologo alzò il lenzuolo.
Don
inciampò facendo qualche passo indietro. Se Colby non l’avesse
mantenuto, sarebbe sicuramente crollato. E forse sarebbe stato
meglio; in quel caso i suoi occhi avrebbero evitato un’ulteriore
vista. Volle chiuderli, ma non riuscì a distogliere lo sguardo.
Dovette continuare a fissare quel viso, quel viso troppo familiare,
le fattezze quasi romane, il naso un po’ curvo, la fronte largo, i
ricci scuri e vivaci, le labbra espressive che così spesso gli
avevano offerto un sorriso, che così spesso gli avevano parlato…
Adesso
erano congelate. Collocate nel marmo immobile che, grigio e freddo,
irradiava una dignità che non conosceva più la vita. Erano
scomparsi la vivacità, il calore del sorriso e degli occhi, tutto
vuoto, tutto… morto.
All’inizio
Don non si accorse di come stesse facendo fatica a respirare. Era
troppo occupato a correre via, via dal patologo, via da Colby, via da
quel corpo con viso pallido sul tavolo d’esame.
Non
Charlie. No, non Charlie. Non poteva essere Charlie. Charlie era
vivo. Don aveva visto Charlie la sera prima. Don aveva parlato con
Charlie la sera prima. No. No, non può essere…
Non
poteva essere! Era impossibile, perché non avrebbe potuto
supportarlo! E doveva andare via da qui, doveva andare via e correre,
correre da qualche parte, via, correre avanti…
Ma
stranamente, i suoi piedi non si mossero di alcun centimetro. Solo la
sua mano all’improvviso diventò indipendente e cominciò il suo
viaggio, muovendosi verso il viso di Charlie…
La
pelle era fredda e non si rifaceva neppure per sogno a suo fratello.
Le dita si fecero indietro immediatamente. Non poteva essere. Questo
non era suo fratello. Era semplicemente impossibile.
Ma
la somiglianza era sorprendente.
Va
bene… tutto logico… pensa a tutto logicamente, come farebbe
Charlie adesso. Se questo non fosse Charlie…
«Chi
è?»
Strano.
Nemmeno lui era rimasto sé stesso. Sembrava aver almeno cambiato la
sua voce con quella di qualcun altro, e precisamente con quella di un
qualsiasi mollusco impaurito.
Almeno,
anche Colby aveva perso tanto della sua forza e della sua prontezza
nel rispondere. «Don, per favore smettila. E’ Charlie. Ha lo
stesso gruppo sanguigno, era per strada con i suoi documenti sulla
sua bicicletta sulla sua strada per casa, e a proposito ha
perfettamente le stesse fattezze di Charlie. Smettila di farti
illusioni. Questo non lo porterà indietro».
«Ma
non è possibile» venne la debole protesta di Don, e con terrore
l’agente dovette constatare che gli vennero le lacrime. No, no, no,
c’era qualcosa di falso qui, paurosamente falso, tutto era falso;
non doveva piangere, non c’era alcuna ragione per piangere, no,
tutto questa era un malinteso…
Però,
non poteva imbrogliare la sua anima. Dentro di sé Don sapeva che
l’incomprensibile era realtà.
«No».
Don
aveva tentato di urlare il suo dolore verso il destino, quasi fosse
una sfida, ma non era uscito più che un bisbiglio fioco. E come se
non fosse stato abbastanza per sancire la sua distruzione, le sue
ginocchia cedettero e le lacrime scesero giù per le sue guance.
«No…»
Teneva
la sua testa nelle mani, sostenendola, e gli occhi chiusi. Non voleva
più vedere niente. Voleva bandire l’immagine di quell’orribile
viso marmoreo dalla sua memoria per sempre. Voleva sfuggire, voleva
andare a casa, voleva andare da Charlie…
Sentì
un fiato accanto al suo viso, un braccio attorno alle sue spalle e
una mano sul suo dorso. Colby. Colby tentava di consolarlo. Se Don ci
avesse riflettuto un istante, sarebbe probabilmente stato
imbarazzato; probabilmente sarebbe diventato furioso, con Colby, con
sé stesso, con tutti. Avrebbe tentato di farsi vedere forte, di
mantenere l’apparenza calma, l’apparenza del grandioso Don che
niente e nessuno poteva sfiorare.
Ma
perché? Se Charlie… se suo fratello veramente non fosse più qui…
perché dovrebbe comunque fare una qualsiasi cosa?
Era
semplicemente impossibile. Era troppo. Don non riusciva ancora a
comprenderlo. Era allo stremo. Non sapeva, non sapeva niente, non
poteva capire cosa stava succedendo e cosa era successo.
Le
domande assillanti, dettagliate sarebbero venute più tardi: cosa era
successo precisamente? Chi ne aveva la colpa? Avrebbe potuto lui
impedirlo? Forse se fosse andato a prendere suo fratello e se non gli
avesse lasciato usare la sua bicicletta…? Forse se avesse tentato
di riparare la macchina di Charlie lui stesso invece di lasciar che
Charlie la portasse dal meccanico…? Sarebbe stato in grado di
impedirlo? Sarebbe potuto continuare a vivere?
No,
c’era ancora tempo per queste domande. In questo momento, le
domande erano molto semplici.
Cosa…
Come…
Perché…
Le
domande erano calcolabili, ma non era lo stesso per le risposte. Solo
una cosa era certa, onnipresente, e non si lasciava scacciare. La
soluzione di tutte le domande, l’origine di tutti i problemi.
Charlie
era morto.
Don
non lo capiva. Non poteva e non voleva capirlo. Tutto ciò che sapeva
era che, con queste tre parole, la sua vita come la conosceva lui, la
vita con suo fratello a suo fianco, in quel momento e con queste
parole quella vita aveva cessato di esistere. Era conscio che stava
ancora respirando, che suo cuore continuava a battere, che al suo
cervello continuava ad arrivare ossigeno. Però adesso non sapeva più
dove fosse il senso di tutto questo, perché il suo corpo continuava
a mantenerlo in vita.
Charlie
è morto.
Ottusamente
Don sentiva le lacrime rotolare
giù dalla sua guancia. Ma non ci faceva attenzione. Non era più lì.
Una parte di lui sembrava essere andata via, scomparsa, come se si
fosse dissolta nel nulla. La causa di questo era facile da
comprendere. Charlie era morto. E nella sua morta aveva preso con sé
una parte di Don. La voragine si spalancava in Don e lasciava dentro
un vuoto che non poteva esser riempito se non dal dolore, un dolore
che gli sembrava impossibile da supportare.
Eppure
non voleva riempire quella lacuna, non voleva riavere quella
parte di sé stesso. Non poteva cambiare le cose passate. Non poteva
riportare indietro suo fratello dal regno dei morti. Ma una parte di
Don, essendo partita con Charlie, almeno non lo avrebbe lasciato da
solo.
Nessuno
poteva più dividerli adesso. Potevano essere infelici, lacerati,
distrutti. Ma nessuno poteva portar via loro una cosa. Sì, gli
avevano preso Charlie, ma una parte di Don sarebbe stata con lui per
sempre, fino alla fine dei tempi. Erano insieme, più di insieme.
Erano più vicini che mai durante la loro vita. Erano una cosa sola.
Fine.
|