-Operazione: divisione-
Erano passati sette mesi da quando ero entrata in clinica, ancora non potevo camminare, ma pian piano avevo imparato a conviverci, anche con il mio coinquilino-demonio.
Erano sette mesi che ci conoscevamo, erano sette mesi che eravamo diventati uno l’ancora dell’altro, per paura di essere lasciati di nuovo soli.
Akito mi aveva raccontato la sua storia, mi aveva detto che non ero l’unica senza niente e nessuno una volta usciti da lì; aveva detto che lui aveva ucciso sua madre e non c’erano scuse, nessun valido motivo per cui lui avrebbe dovuto ancora respirare quell’aria ovattata di alcool e sigaretta, di piccole bugie che ormai erano diventate la nostra realtà quotidiana.
Trapianto di midollo. L’unica soluzione, l’unica via d’uscita.
Tanta terapia e una vita d’inferno da aspettarlo là fuori; eccoli, i nostri futuri.
Perché nonostante ce lo ripetessimo cento, mille volte di non aver colpe, sapevamo che inevitabilmente avevamo scritto il nostro destino, ed era fatto di rimpianti, di promesse cadute.
-Quando potrò ritornare a camminare, Mama-
-Presto-
Mai.Mai.Mai.
Immobile.
Immobile.
Immobile.
Akito aveva appena subito un’altra -l’ennesima- operazione al braccio e tra poco sarebbe toccato a me. Più cercavo di illudermi dell’idea che no, non ce la stavo mettendo tutta per andare all’inferno -là fuori- mi sentivo sempre più stanca e depressa, quando Akito non c’era.
Per le operazioni necessitavamo di riabilitazioni, esercizi particolari e molto riposo,
quindi finivamo per vederci solo alla sera quando, stanchi, tornavamo nei nostri letti bianchi e chiudevamo gli occhi dicendoci buona notte e sperando di non avere gli incubi ancora, di non svegliarci il giorno dopo tremanti e sudati, l’uno accanto all’altra nel mio letto troppo piccolo per entrambi. E quel letto sembrava la metafora della nostra vita, che ci stava così stretta, ma che era l’unica cosa, l’ultima cosa, su cui contare, l’unica cosa che poteva ancora riunirci e non allontanarci.
Eppure sembrava che quelle operazioni non facessero altro che dividerci.
1:1=2
-No, Sana fa uno! Possibile che siamo ad ottobre e tu non lo sappia ancora?-
Sbagliato. Nonostante io non fossi mai stata brava in matematica, lo so: uno diviso uno deve risultare due. "Uno" è solitudine. E la solitudine è insopportabile, per me."*
-Sana, scusa- soffiasti tu, quando ti vidi per l’ennesima volta sotto le mie coperte.
-Niente- sospirai voltandomi verso di te e guardando il tuo letto vuoto alle tue spalle -hai sognato ancora tua sorella-
-No, mio padre-
-Non preoccuparti, baka!*- stramazzai.
-Le mie povere orecchie, di prima mattina...- mormorò lui, “ironico”, stropicciandosi gli occhi ancora lucidi dal sonno.
-Uffa-
-Cosa c’è?- disse, guardandomi con sguardo duro
-Non mi piacciono le operazioni...- a quell’affermazione il suo viso si illuminò.
-E devi vedere poi quando il dottor Hatashi tira fuori quella sua siringa con l’ago diciotto e ghigna nel buio della sala operatoria, mentre tu sei inerme a causa dell’antidolorifico e dell’anestesia. Chissà cosa succede lì dentro- feci una smorfia -L’infermiera Kaede poi è sempre così sospetta...- ecco la mia smorfia era letteralmente diventata un espressione di reale paura e disgusto.
-Smettila!- urlai coprendomi le orecchie -ti odio! Sei insopportabile! Ah, brutto Akito Hayama! Io...io...io...- okay, forse brutto non è proprio l’aggettivo adatto, anche perché non è possibile che i suoi occhi ti ghiaccino e ti mandino a fuoco in un solo minuscolo istante.
No, vero?
-
Quel giorno vennero molte persone a visitarmi, prima della mia operazione.
Fuka, mi portò un disco con delle canzoni incise da lei, Aya e Tsuyoshi; però io non avevo veramente il coraggio di sentirlo, conoscendo la bellissima voce del mio caro vecchio amico Tsu.
Lui ed Aya non si erano risparmiati le loro romanticherie, rischiando di farmi morire pure di diabete e Fuka da brava mamma apprensiva dei due li aveva colpiti con un ventaglio comprato qualche mese fa a Shibuya, nello stesso negozio dove Mama comprava le sue cianfrusaglie.
Quando arrivò Mama andammo a firmare il modulo per affermare che conoscevamo le possibili conseguenze dell’intervento: allergia, incompatibilità rara, rottura completa del midollo spinale, emorragia interna, morte.
Quando misi la firma su quel pezzo di carta era come se fossi già morta.
Sorrisi, magari uno Shinigami sarebbe venuto proprio a prendermi e avrei potuto fargli tante domande sulla vita, forse.
Eppure avevo una dannata paura di quell’odiosa operazione che non sarebbe mai servita a nulla.
Quando tornai in camera i ragazzi della mia scuola erano ancora lì e in mezzo a loro spiccava una certa testa bionda.
Urlai il suo nome.
Si girò e mi abbracciò forte.
Hisae, quanto mi è mancata?
-Sana... Scusaci- disse sull’orlo delle lacrime, continuando ad abbracciarmi.
Quella muta supplica di perdono, quella straziante assenza dei miei migliori amici, ma loro sono ritornati...
Orgoglio, li puoi perdonare? Paura, li puoi accettare? Rabbia, puoi svanire?
Li posso perdonare?
Là, oltre lo stipite della porta bianca, tra il corridoio luminoso e l’interno della stanza, lo vidi.
Era bello, più di quanto ricordassi.
Lo vidi, il mio primo amore: Naozumi Kamura.
-Ciao, Sana- disse lui.
-Ciao, Nao-
In quella stanza sembrava che il tempo si fosse fermato, come se ci fosse una specie di dimensione bloccata, che mi riproponeva cento volte le stesse immagini; le immagini di chi mi aveva abbandonato, delle mie lacrime, del volto di Mama solcato da profonde occhiaie, delle parole del dottore.
Un attimo e tutta quella magia avversa sarebbe scomparsa, bastava un alito di vento, una parola sbagliata... Un’infermiera m’informò che mi sarei dovuta sottoporre all’operazione in meno di dieci minuti.
Mi diressi come un automa, spingendo le ruote della sedia a rotelle; uscii nel corridoio affollato.
-Hai paura?- mi chiese Kaede.
-No, non ho paura di morire-
Ho paura di vivere; aiuto, aiuto, aiuto.
Quello che mi aspettava in sala operatoria era insignificante rispetto a ciò che era nella stanza numero nove; il mio passato e il mio... futuro. Se mai ne avessi uno.
Ma non importava.
Non importava se la siringa bruciava dentro la pelle e c’era quell’odore di alcool nell’aria, che non avevo mai sopportato. Le ferite erano semplicemente troppo reali per rimarginare come dovevano, le gambe non si muovevano e neanche quell’operazione mi avrebbe fatto cambiare idea. Non c’era niente, aghi, punture, flebo, ferri, cuciture, niente che mi spaventasse più della vita stessa. Ma nel medesimo momento sapevo di essere troppo giovane per morire, avevo ancora davanti una vita da vivere e, alla fine me ne convinsi che no, non l’avrei vissuta per sempre così; ci voleva solo un po’ d’impegno.
Ma c’era quel nero irrazionale.
Quel buio troppo vuoto, quasi asettico.
Non era il buio delle strade di Tokio, mentre torni a casa dopo una sera con gli amici.
Era un buio diverso.
Quel buio in cui vuoi solo sprofondare dentro, quel buio che non ti fa vedere il fondo delle cose.
Non c’erano le luci violette e gialle del quartiere di Shibuya, né i negozi dalle vetrine colorate di dolci e vestiti.
Solo buio, squarciato da quella lampada bianca, insistente.
Dov’è la verità in fondo a questo buio stanco e malinconico?
Quelli furono i miei ultimi pensieri prima che la morfina fece il suo effetto.