Dream On 0.2

di SinnerCerberus
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Apro gli occhi. Un soffitto bianco è sopra di me, proprio dove doveva essere. Sposto lo sguardo ed esamino l'ambiente che mi circonda. Sono in una stanza, a giudicare dai mobili si direbbe una camera da letto. Sono steso su un letto freddo e duro, nella stanza c'è un armadio in un angolo, una televisione su un comodino posizionato su un muro, un vecchio computer a terra ed una scrivania. Qualcosa non va, però. La televisione non ha uno schermo, posso vedere tutti i circuiti all'interno. La finestra è sbarrata da una pesante placca di metallo fissata con numerosi e spessi bulloni, ma nonostante tutto la luce riusciva a filtrare dalla finestra. Capisco dunque che è giorno. Dal letto partono centinaia di cavi che si immergono in tubi di ferro collegati a chissà cosa. Sono al centro di una ragnatela di ferro, ed il letto è il mio ragno. Le ossa mi fanno un male terribile. Mi siedo sul letto e continuo a guardarmi in torno. Perché tutto ciò non mi sorprende? Perché per me è tutto terribilmente normale? Mi massaggio le tempie, e rifletto. Ieri non ero qui. Ero altrove, facevo qualcos'altro, e sono andato a dormire da qualche altra parte. I ricordi sembrano esserci, ma sfocati, ed appena li focalizzo sfuggono dalla mia mano, scivolano via. Chiunque fossi stato ieri, non avevo questo cazzo di dolore alle ossa. La casa mi è familiare, ma non provo la tipica sensazione di appartenenza. La conosco ma non sembra essere mia. Di conseguenza, dovrebbe essere di qualcun altro. Mi stringo la testa e mi arruffo i capelli - ah ho dei capelli! - e mi alzo. Se incontrerò qualcuno, mi presenterò e gli spiegherò la situazione. Cioè, mi sono appena svegliato in camera tua e non ricordo nulla di ciò che ho fatto ieri. No, no, no. Ciò non può funzionare. Mi rendo conto che effettivamente non conosco il mio nome. Come posso presentarmi a qualcuno se non conosco il mio nome? Cerco di andare indietro, ma la mia memoria non è che un colabrodo, mi sfugge tutto. Ho un passato, ma più cerco di ricordarlo, meno riesco ad afferrarlo. La cosa più strana è che tutto ciò mi sembra perfettamente normale. Sento il bisogno di continuare la mia routine. Un pensiero in un qualche angolo della mia testa mi suggerisce che effettivamente sarebbe ora di andare a scuola. Insomma, io mi sveglio senza sapere chi sono e voglio andare a scuola. Mi fa quasi ridere. Esco dalla stanza, dò uno sguardo in giro, e sembra essere tutto in ordine. Silenzio tombale però. Vado in giro a curiosare e noto effettivamente che non c'è nessuno. Un perfetto appartamento vuoto, perché effettivamente è un appartamento, e non ci sono mobili. Tranne, ovviamente, quelli della stanza dove mi sono svegliato. La casa è polverosa, come se non pulissero da tempo, eppure si vedono chiaramente quadrati chiari sui muri, privi di polvere e sporco. In quei punti dovevano trovarsi dei mobili, evidentemente. Ora non ci sono, non capisco perché avrebbero dovuto toglierli. Entro in quella che presumibilmente dovrebbe essere la cucina, lo capisco da un fornello ed lavandino staccati e poggiati a terra, rovinati. Le tubature del lavandino erano come strappate, mentre cammino calpesto una vite, e mi rendo conto della presenza di piccoli pezzi come bulloni, pietre o pezzi di ferro. Oltre quello, non è che una stanza vuota. Dalla cucina si affaccia un balcone. Dò uno sguardo all'esterno e vedo solo un ambiente urbano. Il crepuscolo soffocato dai gas assume una colorazione verdastra. Sto assistendo ad un'alba verde. Non riesco a credere che la sensazione di obbligo alla ciclicità di routine mi stia obbligando a proseguire come se nulla fosse. Che razza di persona sono se sento il bisogno di proseguire normalmente, se accantono automaticamente ogni problema insolito per proseguire per la mia strada? Mi viene da accantonare anche il fatto che sia strano, non sembrano nemmeno miei pensieri. E' quasi un istinto, una forza innata che mi spinge a continuare e rende scivolosi i miei ricordi. Vado in bagno ed osservo la mia figura allo specchio. Vedo un ragazzo con labbra carnose, occhi castani a mandorla e pelle abbronzata. Ho i capelli folti e lunghi. C'è un elastico sul lavandino, e con un gesto automatico lo prendo e mi faccio un codino. Evidentemente è un'abitudine che non sono riuscito a lavare via. Apro il rubinetto e vedo che in questa casa l'acqua c'è, quindi non è completamente abbandonata. Mi sciacquo nella speranza che l'acqua fresca mi chiarisca le idee, e magari mi faccia passare il dolore alle ossa, ed alle articolazioni. E' ora di decidere cosa fare. Tra i tanti flussi di possibilità e di eventi, ci sono infinite vie da prendere. Principalmente potrei aspettare che qualcuno arrivi e potrei chiedere spiegazioni, ma scelgo di continuare, di andare avanti secondo i miei bisogni ed istinti. Ed io sento di dover andare a scuola. Utilizzo il treno per raggiungerla, so automaticamente dov'è la stazione e dove e quando effettuare i cambi. Ho dimenticato le mie esperienze e le mie conoscenze, ma allo stesso tempo riconosco gli oggetti, la routine. So cos'è una sedia. Quindi non sto partendo da capo. E' strano rendersi conto delle piccolezze che si pensano quando si perde la memoria. Dopo numerose fermate, scendo alla mia destinazione, e prendo la strada per la scuola. Vengo accompagnato da una folla di studenti, tutti vanno nella stessa direzione. Un manipolo di gente pieno delle più varie persone. Mi sento stretto ed accaldato quando cammino, gente sudata o poco lavata si stringe tra di loro e si affretta per arrivare puntuale. La scuola ha due entrate. Scendendo dalla stazione si raggiunge prima l'entrata secondaria ma io, in qualche modo, preferisco entrare da davanti. E' una scuola priva di specializzazione. Quando arrivo, riesco a notare, nonostante la mia confusione tra sudore altrui e dolore alle ossa, dei particolari sfuggevoli. Il cancello è deforme, tubi di ferro si intersecano col marmo per formare due enormi porte. Le ante sono aperte, ma non simmetricamente. Riesco ad intravedere la cancellata sinistra; sono sculture in bassorilievo confusionarie. Dalle parti della serratura c'è un disegno particolare, sembrano mani, o zampe. Le persone sudaticce ed indaffarate continuano per la loro strada, ignorando tutto e tutti. Ignorano il cancello, ignorano me ed il mio dolore alle ossa. Mi lascio trascinare dagli altri, tralascio i dettagli ed entro a scuola. L'edificio è grigio, assomiglia quasi ad un carcere. Le mura all'interno sono bianche e noto che in ogni angolo c'è una statua di marmo greca o un manichino flaccido. Prima di chiedermi troppe cose, decido di non riflettere. La mia classe è composta da trenta persone circa, l'aula è ampia ed io naturalmente non riconosco nessuno. Mi siedo, ed attendo lo scorrere degli eventi. I primi dieci minuti passano in un silenzio religioso e stupefatto, almeno la metà degli studenti non sa perché si trova a scuola. Come me. Sono circondato da persone bizzarre, mi diverto ad osservarli. Di fronte a me è seduto un ragazzo alto, slanciato, dai capelli rossi e lo sguardo furbo. Ha le gambe rilassate e distese, le mani dietro la testa ed attende l'inizio della lezione con fare beata. Vicino alla cattedra c'è un tipo che non riesce a stare fermo, con la testa squadrata, molto pallido e con pesanti occhiaie. Cammina da una parte all'altra della stanza con fare nervoso, disordinandosi i capelli biondi e sussurrando cose che solo lui può sentire. Vicino la finestra c'è una ragazza castana dal volto perfetto ed inespressivo, fissa un punto indefinito, pare inanimata. Di fianco a me c'è un ragazzo dai capelli tinti di nero e pesante trucco sugli occhi. Sembra stia rimuginando qualcosa, si tocca il mento e pensa intensamente, spesso accenna ad un sorriso. Nonostante tutto è un bel ragazzo. Arriva il professore, un uomo alto, panciuto ma giovane, con gli occhiali ed uno sguardo particolarmente irritato. Non procede con l'appello, dopo pochi minuti semplicemente si alza e comincia a spiegare. – Cominciamo con una domanda casuale.. Tu! Tu, ragazzo dai capelli rossi, hai idea di dove ci troviamo? La domanda colpisce un po' tutti. Dopo qualche attimo, il rosso risponde titubante: – Siamo a scuola? – Bravo il mio piccolo genio, certo che siamo a scuola. Intendevo, la città, il paese, il luogo in generale! – – Ma professore, non avevo capito, non si era spiegato! – Poco importa, se m'ero spiegato o meno. Avanti, marmocchio, rispondimi. Non vorrai mica un voto basso. – L'insegnante cammina da una parte all'altra dell'aula con fare imponente, toccandosi le punta delle dita, si sente sicuro, potente, aggressivo. Il ragazzo un po' confuso ed impaurito, nonostante la sua aria inizialmente beffarda, adesso è sottomesso ed impacciato, e decide di non far innervosire ulteriormente il professore, che sembra poter impazzire da un momento all'altro rispondendo – Siamo a Neapolis, professore. – La risposta è giusta. – Complimenti, genio. Sai perché si chiama così? – Ed il silenzio che ottiene è più che eloquente. Capiscono tutti che era solo un pretesto per insultare il primo malcapitato. Lui continua – Bravo, bravo il mio genietto rosso. Ci rendiamo conto dell'ignoranza che ci circonda? Come può andare avanti questa generazione se è popolata da bambini ignoranti! Quanti anni hai, cinque? Stiamo parlando della tua terra, impara! Il professore inveisce sul rosso sputandogli addosso un ritrito di rimproveri da adulto stanco del mondo. Sebbene si trovi in difficoltà, io preferisco starmene zitto, proprio come gli altri. Davvero.. come può questa generazione andare avanti se è popolata da bambini ignoranti, da povere pecore? Non ho intenzione di sporcarmi le mani per qualcuno che non conosco, e che non mi ringrazierebbe nemmeno. – Professore. – Sento dietro di me. Tutta la classe si volge a guardarlo, e così anch'io. Così lo vedo; un ragazzo elegante, con un camicia e pantaloni neri, ed un'unica cravatta rossa. I capelli pettinati in modo da coprirgli un occhio, lunghe ciocche rosse brillano tra i suoi capelli castani e mossi. L'occhio visibile, il suo occhio destro, non dava emozioni, sembra apatico. – Io sono nuovo di qui, non sono di questo paese.. mi sarebbe utile saperlo, può spiegarlo? Può anche rinfrescare la memoria agli altri. – Dice con un vago accento francese. Il professore lo guarda infastidito e – Va bene, e sia.. Ma se trovo qualcuno distratto, lo decapito. – Non voglio sapere se è un uomo di parola, dunque gli dò retta e presto attenzione. – Attualmente siamo su un'isola artificiale chiamata Neapolis, ispirata ad una florida città Italiana. L'Italia era una penisola, ma non perdete tempo a cercarla sulle mappe da internet, è sprofondata negli abissi in seguito ad un maremoto da almeno duecento anni. Quanto tempo fa era.. Sì, accadde nel 2050, quindi praticamente centosettant'anni fa. Quest'isola artificiale è stata costruita sott'ordine di mafiosi e camorristi, la ricchissima malavita del paese, per poter avere un luogo di ritrovo, una città a cui appartenere, che rievocasse la politica, la struttura e l'ambiente Napoletano. Ovviamente l'isola era piena di infiltrati, c'erano più più poliziotti che camorristi, ed al primo passo falso furono tutti sbattuti in galera. L'operazione venne chiamata "operazione Partenope II", tenetelo a mente. Prima che possiate formulare qualche stupida domanda, vi illuminerò io: nel 1988, ci fu la prima operazione Partenope per estirpare la camorra dall'Italia, ma come potete aver dedotto, miei stupidi studenti, non andò buon fine. Difatti, quell'anno.. – Mentre il professore spiega e ci insulta, decido di dare uno sguardo all'elegantone con la frangia, rischiando una possibile decapitazione dell'insegnante. Come immaginavo, è distratto e non segue per niente la lezione. Si limita a guardare dritto, con quello strano sguardo sguardo vuoto. Però c'è da dire che suo tentativo di salvare lo studente rosso è riuscito perfettamente.. chissà se fossi intervenuto io, cosa sarebbe successo. Probabilmente niente, avrei fallito. Lascio perdere la lezione e mi concentro su cose un po' più rilevanti. Per esempio, perché diamine mi sembra così normale. Perché nonostante io riconosca l'anormalità della situazione, niente memoria, niente domande, niente appello, niente professore che spiega seriamente ma bensì insulta i primi che capitano, io senta il bisogno di andare avanti, e smetterla con queste dannate domande. Accantono già le domande e mi perdo nella contemplazione dei miei compagni di classe, e noto una ragazza, particolare, bionda, tra i primi banchi alla mia sinistra. Sembra posata ed educata, ha i capelli lisci e lunghi, elegantemente pettinati, ed un volto pulito ed immacolato, da quel poco che ho potuto vedere. Mi persi nella contemplazione di quell'opera d'arte e mi svegliai diverse ore più tardi. Sembra proprio che io mi sia addormentato. E nessuno se ne è accorto. Parlo al rosso – Ehi, quand'è che si va a casa? – Lui mi guarda indispettito, guarda pigramente l'orologio e risponde – Tra un'ora. – – Bene.. e perché non c'è nessun professore? – Ah boh, sono ore che non c'è più nessuno. Ma dove sei stato nelle ultime ore, sulla luna? O su Marte? O su.. – Torno al mio posto senza dargli la possibilità di continuare, non voglio litigare ma neanche farmi insultare. Mi guardo intorno, i ragazzi si rilassano e perdono tempo. La ragazza bionda fa finta di ascoltare le chiacchere delle compagne di classe, ma si limita ad annuire, senza rispondere o intervenire. Sorrido stupidamente. In ogni caso, non posso bighellonare, del resto ho dimenticato chi sono. – Scusa se ti chiamo ancora, ma sai chi sono? – Chiedo al rosso. – No. – Fu la sua risposta pronta. – Sei un personaggio famoso? Se no, levati dai piedi. Esito qualche attimo, e lui aggiunge – Anzi, levati dai piedi anche se sei un personaggio famoso. Sono troppo di cattivo umore, dopo lo sproloquio del prof. – Mi allontano pronto, e chiedo in giro, ignorando che dovrebbe essere strano. Però nessuno ci fa caso, ed ormai ciò che è strano sfugge dalle percezioni, lasciando solo una sensazione di normalità. Con me non funziona del tutto, quindi potrei anche reputarmi ad un livello più alto degli altri, penso tra me e me sogghignando. Ma non c'è tempo per i miei superbi vaneggiamenti. Nessuno mi dà una risposta positiva, nessuno pare conoscermi. Evito di chiederlo al ragazzo truccato dai capelli neri, che mi ispira una certa soggezione. Arrivo infine a chiederlo all'elegantone francese, lui mi guarda e fa – Non posso credere che hai aspettato tanto per chiederlo alla persona giusta. Persona giusta? Sa chi sono! Non riesco a credere di esser riuscito ad arrivare alla soluzione del mio problema, così presto. – Non so chi tu sia, anche se mi lasci un certo senso di deja-vù – Ah, lui e i suoi termini francesi! – però.. Mi guarda, col suo occhio apatico, e se solo fosse stato un minimo estroverso, mi avrebbe permesso di capire tutta l'emozione che gli scorreva nelle vene. Invece no, lo capisco solo dal suo sommesso – Neanche io ricordo chi sono. In quel momento suona la campana, l'effetto sorpresa è paragonabile ad una doccia d'acqua fredda, come il cliché dell'allarme antincendio americano, uno spruzzo continuo freddo e silenzioso. Il suono strillante della campana copre ogni voce, tutti si alzano e si preparano, tranne noi, in silenzio, ci guardiamo e restiamo immobili. La classe è vuota appena la doccia fredda si esaurisce, e come risvegliato da un improvviso sonno, come se tipo il tempo si fosse bloccato, lui riprende: – Non è strano? – Tu sei strano. – Rispondo a bruciapelo. – Idiota. – Con questo, lui quasi mi ignora e con naturalezza continua – Neanche io ricordo il mio nome, e finalmente trovo qualcuno con lo stesso problema. Ascoltami, è inutile chiedere in giro, non avrai nessuna risposta. E' come se il ricordo della tua persona fosse stato cancellato, e resta solo il tuo corpo. –Uhm.. ho capito. – Rispondo io, pateticamente. Diamine, ti sta aiutando, sta facendo un discorso intelligente, che ti costa riuscire ad essere al suo pari? Non mi esce mai nulla di buono. Annuisco anche con la testa. – Ma mi stai ascoltando sul serio? Dove ti sei svegliato oggi? – Che diamine dovrei dirgli? La mia mente è così confusa, piena di immagini, di stupidaggini, della bionda, dell'insegnante, del rosso, della bionda, bellissima, della scuola, del cancello, del mio letto con i cavi, della televisione rotta. – Non so dove mi sono svegliato, mi sono svegliato in un posto strano, alle sette e ventisei, non so che dirti, cioè. Prima di tutto c'era questo televisore che non funzionava, non è che non funzionava ma non aveva proprio lo schermo e dubiti funzioni senza schermo. Non l'ho acceso quindi non so dirti niente nel particolare. Però non mi fiderei. Potrebbe succedere qualcosa di brutto, tipo una scintilla fuori posto che fa esplodere tutto, quindi stai attento alle scintille. Comunque mi sono svegliato in questa casa vuota, tipo appartamento, senza mobili, tranne la televisione rotta, ma è un mobile la televisione? Perché si dice TV oltre a televisione? E perché.. – – Ti prego, basta. – Mi interrompe lui. Riesco a sentire la voce che sfiora la disperazione, ma dal volto non traspare nulla. – Ho capito che non sai spiegarti, credo che non ti chiederò mai più di raccontarmi qualcosa. Ascoltami, ho una teoria, una specie di piano. Vedrai che qualcosa accadrà. – Si alza, preso dall'enfasi. – In pratica.. – Comincia ad abbozzare, ma una forte accozzaglia di insulti da parte di un bidello lo interrompe. L'uomo più largo che alto, tuona con imprecazioni e bestemmie, esortando ad allontanarci per permettergli di proseguire il suo lavoro, sparendo il più lontano possibile. Il mio interlocutore si vede costretto a sparire, molto più velocemente di me. – Aspetta – Lo fermo. – Si può sapere come ti chiami? – Si gira, mi guarda col suo occhio inespressivo col suo dannatissimo accento franche mi risponde – Ne so quanto te. –




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