Tavola III - Disposizioni generali
La cornetta
incastrata fra l’orecchio e la spalla, il vapore della pentola
negli occhi ed una manciata di spaghetti pronti per essere calati. Dal
soggiorno, la voce della tivù arrivava come sempre troppo alta.
«Ma sei scema?!?» tuonò sdegnata la donna, sganciando la pasta nell’acqua bollente.
«Mamma, per favore non cominciare…» sospirò Amelia all’altro capo della cornetta.
Si era pentita all’istante di averla chiamata a quell’ora.
Quando sua madre cucinava era piuttosto irascibile. Non che durante
altri orari fosse diversa, ma tra le diciannove meno venti e le
diciannove e trenta si rischiava il linciaggio. Una parentesi temporale
dove era consigliabile evitare di darle qualunque notizia.
«No, per favore niente! Sei sempre la solita! Ti fai tirare in
giro da tutti! C’hai trent’anni passati, te lo ricordi? Eh?
Ma si può essere più cretini?» sbraitò,
rimestando rapidamente con un forchettone.
L’acqua salata schizzò sulle piastrelle, colando in lunghe lacrime fumanti.
«Ma mamma, fammi…»
«Ma che cosa, Melly? Fai sempre così, non sei buona a
farti valere! Ti fregano tutti e passi sempre per l’oca che sei!
Che cavolo hai studiato a fare se non sei capace di fare niente? Mai!
Eh? Era meglio che andavi a lavorare!»
La signora Veneziani si domandava da anni se l’averle fatto
frequentare con tanta assiduità l’oratorio e altri enti
gestiti da ecclesiastici non si fosse rivelata una scelta
controproducente. Non voleva che sua figlia crescesse senza morale, dei
valori, ma era venuta su così buona e pacata che forse,
più che al Politecnico, sarebbe stato meglio mandarla suora. Di
clausura magari, così nessuno avrebbe notato quanto riusciva ad
essere stupida.
«Insomma, mamma! Se non avessi accettato quella clausola non
avrei potuto firmare il contratto! Avrei mandato a monte la più
grossa occasione della mia vita! È il mio primo lavoro. Ci
sarà il mio nome, la firma» protestò debolmente.
«Si tratta di una condizione sine qua non! Dovevo dire di sì!»
«Oh, smettila di usare quelle parole lì che non ci capisco
niente!» sbottò risentita, armeggiando col sugo. «Te
dovevi dirgli di no! Che non potevano obbligarti a stare lì per
sempre che stai a dieci chilometri da casa. Ti fai mettere i piedi in
testa, sei sempre lì a fare quello che ti dicono gli altri e non
ci pensi mai»
«Veramente sono un po’ più di dieci
chilometri» osservò abbattuta: in quel momento avrebbe
desiderato essere dall’altra parte del mondo e non tanto vicina a
casa.
Lei ed il signor Carew avevano finalmente terminato la stesura del
documento che la vincolava come esecutrice di tutte le opere di
ristrutturazione di Villa dei Gelsi. In quelle sere avevano rivisto
decine di condizioni, di cavilli, di specifiche, ma quella che la
obbligava a risiedere a palazzo per tutta la durata delle opere no. Per
espressa volontà del Duca, quel vincolo era fondamentale: o lo
accettava o non se ne faceva niente. E per Amelia quel lavoro
significava troppo per tirarsi indietro.
«Allora! Dieci, quindici… cosa cambia?»
«Sono parecchi di più, mamma» sospirò.
Cercare di averla vinta su chi non sentiva ragioni era inutile.
«Te non ci dovevi stare! Adesso che arriva tuo papà lo
senti! Te ne dice quattro! Domani vieni a casa! Ma dico io se si
può essere così stupidi…» e
così dicendo diede un’altra girata furiosa alla pasta.
«Chi? La fessa?» biascicò una voce senza troppo interesse.
Mezzo infilato nel frigo c’era il fratello minore di Amelia, un
lungagnone di venticinque anni, con cui condivideva la camera. I sei
anni che li dividevano rendevano la comunicazione tra i due prossima
allo zero. E gli affettuosi soprannomi che le riservava ne erano
la prova.
«Sì, tua sorella! Ha fatto un contratto che lei deve
restare là dove l’hanno chiamata! Cosa là, la Casa
dei Gessi» rispose, agitando il cordless.
Non sentì Amelia strillare nel telefono nel tentativo di correggerla.
«Chi se ne frega. Lasciacela. Quanto manca?» chiese, indicando il fornello con la bottiglia di birra gelata.
«Cinque minuti. Ti va bene il sugo alla bolognese?» chiese, cambiando repentinamente tono di voce.
Il figlio scomparve con una smorfia vaga, diretto al divano, ignorando il sorriso affettuoso della donna.
«Allora, dicevamo?» proseguì un’addolcita
signora Veneziani che, rammentando il problema, riprese immediatamente
a strillare. «Ah, sì. Che ti sei fatta fregare anche
stavolta! Melly quando ti deciderai a crescere e a guardarti in
giro?»
«Ma come te lo devo dire? Non potevo fare diversamente!» insisté.
«Lo dici te! Perché non pensi a quello che fai, ti va bene
quel che ti arriva, anche se fa schifo e dici di sì, che
è quello che volevi! Stai lì ad aspettare che le cose ti
capitano addosso»
«Non è vero»
«Te adesso vai da quello là e gli dici che vieni a casa»
«Il contratto è firmato, mamma. Devo restare. Non insistere»
«Sei una cretina» l’accusò.
«Si sta scaricando la batteria. Ci sentiamo. Salutami tutti» tagliò corto.
Non ascoltò il saluto e le ultime rimostranze di sua madre.
Sapeva che i suoi genitori avrebbero preferito che avesse interrotto
gli studi alla seconda superiore, quando aveva aperto la ricevitoria
all’angolo della strada. Le avevano fatto la testa quadrata a
forza di rimproveri, che la scuola non serviva a niente, un pezzo di
carta non diceva nulla di chi si era davvero. Aveva tenuto duro ed
aveva proseguito negli studi, guadagnandosi borse di studio e bei voti.
Il rispetto dei suoi genitori, mai. Le volevano bene, ne era convinta,
ma erano cresciuti con una mentalità vecchia e chiusa nelle
fabbriche della periferia. Un mestiere come quello
dell’architetto era incomprensibile per loro, figurarsi quello
dell’Archimaga.
Rimase a fissare lo schermo del cellulare per un tempo indefinito,
aspettando che anche quell’ultima tacca sul display sparisse,
indicando il prossimo spegnimento. Sullo scrittoio intarsiato a cui
sedeva, aveva tracciato un Reticolo Energetico,
che ora trovava ripugnante ed inutile. Desiderava che
quell’aggeggio non suonasse mai più. Avrebbe potuto
abbandonarlo sul fondo della borsa, ma sapeva di non poterlo fare.
Lasciò il telefonino sulla scrivania e si diresse al salone per
la cena. Vide il maestro di palazzo salire dalle cucine, portando il
solito ampio vassoio coperto. I passi cadenzati riecheggiavano nel
grande vano verticale. Lo attese in cima alla scalinata.
«Prego, signorina. La cena è servita»
Lei aggiustò gli occhiali sul naso, avvicinandosi all’uomo che attendeva il suo ingresso nella stanza.
«Grazie» disse, levandogli le portate dalle mani e scendendo le scale.
Jarvis la seguì passo passo e nonostante non spiccicasse parola,
poteva indovinare che fosse contrariato dal suo gesto. Contrariato e
non incuriosito. Dubitava che qualsiasi cosa avesse fatto
nell’arco di quella settimana appena trascorsa, incluso
respirare, fosse stata di suo gradimento.
«Signorina Veneziani, cosa sta facendo?» disse finalmente quando la vide varcare la soglia delle cucine.
Con tutta tranquillità, la donna posò il vassoio sul tavolo della cucina, fra i piatti degli altri domestici.
«Vede, signor Carew, nella stipula dell’appalto sono stata
definita in più punti come “professionista alle dipendenze
del Duca”. È corretto?» spiegò, spostando le
vettovaglie accanto a quelle dello stalliere.
Evitò di rivolgergli lo sguardo mentre parlava. Si conosceva
troppo bene: se avesse scorto un minimo dissenso sarebbe scoppiata in
lacrime e in quel momento era l’ultima cosa che desiderava fare.
Doveva prendere in mano le redini di una situazione che stava piegando
dalla parte sbagliata.
«Sì» confermò l’uomo.
«Se sono alle dipendenze, sono una dipendente. È ancora
corretto?» domandò ancora, fingendo di valutare la
disposizione del bicchiere sulla tavola.
«Sì» annuì di nuovo.
«Voi tutti siete alle dipendenze del Duca, vero?» s’informò.
«Sì» sibilò seccato il maggiordomo, avendo intuito ciò che stava accadendo.
«Allora, visto che siamo tutti dipendenti, cenerò con voi.
Se non avete nulla in contrario» e con un enorme sforzo,
cercò lo sguardo di ciascuno dei presenti, in ultimo quello di
Carew.
Nessuno osò opporsi. Ang le tirò la manica, invitandola a sedere mentre le versava un po’ di vino.
***
Continuava a domandarsi se l’idea che le era balenata la sera addietro fosse stata quella giusta.
“Visto che siamo tutti dipendenti, cenerò con voi”.
Come le era venuto in mente di avanzare una simile pretesa? Non se lo
spiegava. O forse sì. Da quando aveva messo piede a Villa dei
Gelsi, aveva consumato i suoi pasti in quell’immenso salone al
primo piano, seduta ad una tavola deserta ma capace di ospitare
comodamente una ventina di commensali, con l’unica compagnia del
signor Carew. Ammesso che di compagnia si potesse parlare: il
maggiordomo se ne stava in piedi accanto a lei per tutto il tempo,
impalato come un baccalà. Nemmeno la guardava o faceva domande
sul suo operato. Si limitava a servirla senza nascondere la sua
malavoglia.
A ben pensarci, Amelia cominciava a nutrire il sospetto che quello che
aveva trovato nel piatto per i primi giorni, fosse stata una sua
trovata. Era intimamente inorridita, fissando prima il piatto di pasta
al pomodoro poi la cotoletta con le patatine che le aveva messo
davanti. Buonissime, per carità, ma rappresentavano il suo
incubo peggiore: menù da gita scolastica. Sperava di non aver
più a che fare con simili portate. Le associava a
sgradevolissimi ricordi di trasferte con compagni interessati a
qualunque cosa tranne la meta della gita e docenti frustrati che li
guidavano indolenti. Per non parlare delle ubriacature moleste, degli
acquisti assurdi, dei danni provocati negli alberghi, poi debitamente
taciuti a casa.
Ora che sedeva con il resto della servitù godeva di cibi
decisamente più decorosi e di un minimo di conversazione.
Tuttavia, notando la mole di piatti e tegami sporchi, sentiva il
bisogno di darsi da fare per non passare da semplice ospite.
«Dovrei dare una mano in cucina» meditò fra
sé, anche se non era affatto certa che gliel’avrebbero
consentito.
Mettersi a fare la donna di servizio nel poco tempo libero era fuori
questione: le era parso di aver udito le due domestiche borbottare
irritate al suo indirizzo, quando avevano scoperto che la mattina
rifaceva il letto. E comunque, il maestro di palazzo
gliel’avrebbe impedito. O almeno, avrebbe criticato ogni faccenda
da lei ultimata. L’aveva visto comportarsi a quel modo con le due
donne che parevano tutt’altro che incapaci di portare a termine
in modo doveroso i loro compiti.
«Andiamo, Amelia!» si rimproverò, sbattendo i palmi sui braccioli della poltrona. «Sei un’Archimaga, non una sguattera! Anche se quello godrebbe un mondo nel darti il tormento da mattina a sera per come usi lo straccio»
Tornò a concentrarsi sulle pagine ingiallite del cabreo.
«Hai fatto la servetta troppo a lungo e per gente che non lo
meritava, per continuare a comportarti così anche ora! Sei
un’Archimaga?
Sì! E allora, atteggiati come tale! Ringrazia, sii educata, ma
fai del tuo e non degli altri!» ribadì con quanta
più fermezza poteva.
Quell’iniezione d’amor proprio le permise di riprendere con
molta attenzione la lettura del documento. In quel punto si faceva
cenno ad un Libro Mastro in cui erano contenuti gli Incantesimi Fondativi
della dimora e quelli impiegati successivamente, a partire dai
più antichi, datati intorno al 1523, a quelli più
recenti. Era curioso che se ne accennasse in una raccolta di lettere
risalente a più di due secoli dopo la posa della prima pietra.
Evidentemente, la reale natura dell’edificio non doveva essere
stata taciuta a dovere nei dintorni, cosa cui si era posto rimedio
successivamente. Non si trattava di un episodio isolato: nella maggior
parte dei casi i maghi o le streghe erano stati personaggi ben noti
alle comunità, ricchi possidenti i cui poteri erano conosciuti
da chiunque. Nasconderli sarebbe stato inutile.
Ripensò a quando da bambina immaginava le dimore di queste
figure come grandi e tetri castelli, con tetti cadenti, muri incrostati
di ragnatele, pipistrelli in soffitta e cantine traboccanti di draghi.
In realtà nessuno stregone degno di quel nome si sarebbe mai
azzardato a vivere in topaie del genere. Piuttosto un monolocale in
un’anonima periferia! Ma mai e poi mai, in un luogo così
malconcio e cadente da mettere a repentaglio la sicurezza degli
strumenti e degli ingredienti magici. Sarebbe stato da sconsiderati! Le
fiabe nel cui sfondo si scorgevano castelli stregati erano nate per
impaurire per primi i figli dei maghi. Il professor Martini ne sapeva
qualcosa. Era una sorta di ricatto morale: se fossero andati a vivere
in un posto del genere sarebbero stati additati come dei falliti e non
avrebbero meritato di far parte della comunità dei maghi. Il
mago rispettabile possedeva una dimora dignitosa.
Levò gli occhi sulle scansie, in cerca del Libro Mastro. A quel punto, studiarlo era fondamentale quanto rilevare l’edificio.
«Forse c’è qualcosa sui sigilli» pensò.
Ne aveva trovati cinque fino a quel momento, tutti posizionati
all’esterno del muro a sud. Quattro erano di pietra, di chiara
fattura stregonesca. Erano tondi, delle dimensioni di un palmo e
coperti da fitte incisioni che mantenevano attivi i sortilegi. Recavano
tutti la data 1669, anno in cui dovevano essere stati aggiunti i due
corpi anteriori con le cucine, i locali per i domestici ed il grande
cancello d’ingresso. Ma il quinto era diverso: completamente
liscio, di un metallo simile al bronzo e posizionato fuori
dall’asse che i primi creavano tra di loro. Doveva essere stato
posato con la faccia incisa nel terreno. Un’operazione insolita
che, per quanto ne sapeva, veniva eseguita solo per i sigilli infranti,
anche se questo non ne aveva l’aspetto né le
caratteristiche. Il granato che usava per rilevare le protezioni
incantate aveva preso a vorticare furiosamente prima ancora di toccarne
la superficie. Era attivo. Molto strano. Aveva bisogno di fare un paio
di test per comprendere la natura del manufatto e della stregoneria che
racchiudeva: quando si aveva a che fare con oggetti magici si poteva
scambiare per oro il carbone.
Fece scorrere le pagine, in cerca delle tavole illustrate. C’era
una raccolta piuttosto corposa di immagini della villa e dei suoi
dintorni. Una in particolare l’aveva colpita. Il palazzo
compariva in una vista a volo d’uccello, impensabile per
l’epoca indicata a margine del foglio: 1587. Chi l’aveva
realizzata doveva essersi servito di uno Specchio Divinatorio o forse di uno Spiritello dell’Aria.
Nel grande foglio, la villa ruotava lentamente su sé stessa,
mostrando la mole compatta e quadrilatera che possedeva in
origine, sopra cui svettava la torre della colombaia. Non c’era
traccia degli avancorpi, del giardino a nord o del casamento addossato
al lato est. Solo un massiccio, austero monolito dai tetti di tegole,
circondato da antiche querce.
***
«Avevate freddo?» domandò Francesca perplessa.
La serva sedeva di fronte ad Amelia con una brioche mezza affogata nel
caffèlatte e lo sguardo incredulo. Eccezion fatta per Ang,
nessuno le dava del tu come aveva tentato di chiedere in più
occasioni. Questo la metteva leggermente a disagio, si sentiva
un’appendice estranea al gruppo. Estranea e non ben accetta. Di
sicuro non era il modo migliore per cominciare una convivenza.
«Sì, lo so, è assurdo» ammise.
«È il mese di giugno e tremavo come se fosse gennaio»
«Avresti dovuto chiamarmi, sarei venuto volentieri a scaldarti» ammiccò lo stalliere, dandole di gomito.
L’Archimaga
chinò un poco il capo, arrossendo e sorridendo divertita. Quelle
avances spudorate andavano avanti già da qualche giorno e se da
un lato la mettevano in difficoltà, dall’altro la
lusingavano: pur avendo avuto altri ragazzi in passato, nessuno di loro
ci aveva mai provato con lei a quel modo. La faceva ridere,
consentendole di dimenticare quel velo d’ansia che la situazione
le procurava. E in qualche modo, era certa che quegli occhi nerissimi,
sapessero sempre quando far capolino da dietro una porta o un cespuglio.
«Giovanotto, sii più educato con la signorina» lo
redarguì Romilda passando alle sue spalle e allungandogli uno
schiaffo sulla nuca, attutito dalla folta chioma bionda.
«Sto scherzando, nonna» sghignazzò massaggiandosi il
collo e soggiunse a bassa voce, così che solo
l’interessata potesse udirlo. «Non più di tanto
però. Ti saresti svegliata benissimo e al calduccio»
«Dai, Ang, smettila» si schermì lei, ormai paonazza.
Il giovane non proseguì, tornando alle pagine dell’inserto
sportivo. C’era un limite oltre il quale lampi accecanti si
diramavano dalla sua aura guizzando nell’aria. Limite che stava
imparando a riconoscere procedendo per tentativi. Eppure quelle
sfumature rosate erano sempre là, in attesa di sbocciare.
Calmata l’agitazione che l’aveva invasa con diverse sorsate
di latte e miele, Amelia tornò a pensare a quell’intenso
brivido di freddo provato durante la notte. Un freddo gelido e
penetrante, che l’aveva toccata con insistenza costringendola a
svegliarsi. Sì, perché quella sensazione le era parsa
molto simile ad un dito che le tamburellava con insistenza sulla
spalla. Quando si era messa a sedere, cercando nella camera la fonte di
quel gelo improvviso, non aveva scorto nulla. Solo un fruscio,
proveniente dal corridoio. Si era affacciata, ma ogni cosa era immersa
nell’oscurità più fitta. A malapena aveva distinto
le strombature delle finestre che si aprivano sul lato opposto del
passaggio.
Villa dei Gelsi, di notte, era una grande macchia d’inchiostro
dove i muri emergevano pallidi un attimo prima di sbatterci contro.
«Hai sentito cos’ha detto Amelia?» chiese Ang a bassa voce mentre uscivano dalla cucina.
Jarvis non rispose, lo sguardo torvo perso sulle linee della berlina che occhieggiava dalla rimessa.
«Strano che non l’abbia fatta svegliare di soprassalto. Di solito lo fa»
«Le ho detto io di non farlo» ammise atono.
Ang si fermò, scrutando l’uomo camminare nella ghiaia.
«Per quanto credi che ti darà retta, Jarv? Obbedire non è il suo forte»
Lui si girò appena, aggiustando il risvolto della giacca.
«Lo farà»
Esternazione che abitualmente non avrebbe ammesso repliche.
«Jarvis, non lo farà. Non l’ha mai fatto!»
esclamò raggiungendolo e riprendendo a camminare al suo fianco.
Passarono sotto le fronde dei gelsi, che cominciavano a gettare ombre dense sull’erba ancora umida delle aiuole.
«Dovremmo dire ad Amelia dell’inquilina» propose, appoggiandosi all’enorme pilastro.
Il maggiordomo intanto armeggiava con il lucchetto del cancello. La
grossa serratura era ricoperta di simboli e complicati intrecci di
linee.
«Non è necessario» rispose assorto mentre le sue dita toccavano la chiusura in una sequenza nota a lui solo.
Ogni sera ed ogni mattina, seguendo l’affacciarsi
dell’astro di Apollo, era sua l’incombenza di sciogliere o
ricreare il sigillo a protezione della dimora.
Con uno stridio rugginoso, i meccanismi nascosti presero a scorrere, liberando gli alti battenti che si aprirono sulla campagna.
«A volte penso che tu lo stia facendo di proposito per farle
prendere un accidente e vederla andar via a gambe levate»
l’accusò pacato, grattando via un po’ di muschio
dall’intonaco. «Anche se dubito ti darà questa
soddisfazione. Tiene molto a questo lavoro»
«Per questo motivo è qui» ribatté,
controllando uno dei cardini che sembrava instabile.
«Sistemalo»
Ang diede solo una rapida occhiata al perno macchiato di ruggine.
Sapeva che in quelle parole c’erano solo tre cose: un ordine, una
bugia e un briciolo di verità. Queste ultime mescolate in
maniera tale da non poter essere scisse.
«Il Duca non sarà entusiasta del tuo operato, ricordatelo.
È lui che decide ed è lui che l’ha voluta. Dovresti
cercare di essere più accomodante, anche se non ti piace e
preferiresti saperla da un’altra parte. E dovresti anche
cominciare a parlarle, magari. Sarebbe un miglioramento
consistente» suggerì.
Jarvis lo fissò a lungo, inespressivo fra i lunghi capelli bruno
scuri che ricadevano ai lati del viso. Qualunque pensiero elaborassero
le sue meningi, nulla traspariva all’interlocutore. Era immobile
come una statua, praticamente privo di respiro. Poi, con noncuranza,
prese a sistemare uno dei guanti.
«Sella un cavallo. Esco»
Ringrazio molto chi sta leggendo questa storia, primi fra tutti Gaea e Emrys che mi hanno recensita. Aspetto commenti!
Per Emrys: i personaggi sono
diversi, come avrai notato, e ognuno ha delle particolarità.
Effettivamente Jarvis e Ang sono un po' agli antipodi, ma avrai modo di
valutarli emglio in seguito. Grazie mille per tutte le altre recensioni!
Per Gaea: non preoccuparti, la storia è lunga ed avrai tempo di darmi i tuoi pareri in maniera più completa.
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