Jeb cadde in ginocchio, sfinito. Con gli occhi colmi di lacrime
guardò il corpo di Neshfir e si chiese se fosse
effettivamente finita. Trasalì quando due mani si posarono
sulle sue esili spalle e alzò il volto: suo padre era in
ginocchio accanto a lui e piangeva, sorridendo.
“Ce l’hai fatta, Jeb… L’hai
sconfitto…” mormorò. “Sono
davvero orgoglioso di te”
Jeb tirò su col naso. Stentava a credere che fosse morto
davvero.
L’uomo si rialzò e lo prese in braccio. Il
ragazzino lo lasciò fare, ancora scombussolato. Il tempo di
festeggiare sarebbe venuto, ma al momento non ce la faceva.
Il professore guardò indifferente la scena. “Ora
andiamocene. Qualcuno potrebbe aver sentito qualcosa e non voglio che
la polizia faccia troppe domande” disse.
Il padre di jeb gli lanciò un’occhiataccia.
“Mio figlio è stanco, ha appena
combattuto” disse, arrabbiato.
“Riposerà in viaggio” replicò
il professore. Aspettò che l’uomo si fosse
allontanato, poi lanciò uno sguardo al bosco e li
seguì.
Una figura barcollava nella notte, i vestiti inzuppati di sangue.
Neshfir digrignò i denti, il corpo che aveva occupato non
era adatto ad essere posseduto.
Poveri stolti, non avevano capito nulla… Pensavano di averlo
sconfitto e ci erano quasi riusciti, ma non si erano accorti del suo
piano di riserva. Ora però doveva recuperare un altro corpo,
più giovane, in cui poter riprendere le forze.
Il pastore che aveva posseduto era vecchio e aveva dovuto ferirlo per
farlo stare buono. Lo sentì ribellarsi alla sua presenza e
quasi cadde. L’odio verso quel vecchio e tutta la sua specie
lo travolse e un grido disumano uscì dalla sua bocca, ossia
quella del suo ospite. Lui, il potente Neshfir, costretto a strisciate,
allo stremo delle forze, mentre quell’essere inferiore ferito
gravemente riusciva quasi a combatterlo. Odiava gli umani, doveva
riprendersi la sua rivincita, doveva annientarli fino
all’ultimo, debole individuo.
‘Tornerò’ pensò, mentre
arrancava, trascinando quel corpo martoriato.
‘Tornerò e pregherete di morire al più
presto’
Percepiva il terrore del vecchio e quella paura gli diede la forza di
ghignare.
‘Già, tornerò, peccato che tu morirai
prima… Non puoi fermarmi, vecchio. L’unico che
poteva farlo mi crede morto’ gli disse.
Poi la vista di una casa gli ridiede la speranza. Neshfir
percepì altre forme viventi, ormai era salvo. Quasi
strisciò verso la costruzione a due piani e si diresse verso
la luce che filtrava dalla finestra. Sentiva dolore provenire da
qualcuno e se ne nutrì per fare gli ultimi metri.
“Spingi, amore mio. Spingi, è quasi
finita” diceva un uomo con voce rotta, mentre una donna
urlava.
Neshfir sbirciò dentro e vide quattro persone nel salotto.
La donna dalla pancia enorme era sdraiata su un lettino e teneva le
gambe piegate e divaricate, mentre il marito le stringava la mano.
Il medico era chino sulla donna e, intuì Neshfir, la stava
facendo partorire, assistito da un’infermiera.
Valutò le sue possibilità: il medico aveva
già una cinquantina d’anni ed era troppo in
là per fare ciò che voleva; la invece coppia era
giovane, sui trentanni, forse meno, ma la donna stava partorendo e
comunque sembrava troppo esile per superare lo choc, e poi erano
entrambi troppo al centro dell’attenzione: rischiava di farsi
scoprire. L’infermiera sembrava invece il candidato perfetto:
era molto più giovane e al momento si era allontanata per
recuperare qualcosa da un carrello pieno di strumenti.
Eppure… Neshfir lanciò un’occhiata al
pancione. E se… Certo, il trauma poteva ucciderlo, ma se
fosse successo si sarebbe diretto subito verso l‘infermiera,
e c‘era il vantaggio che il bambino non si sarebbe accorto di
nulla.
Neshfir abbandonò il corpo del vecchio, sfruttando tutte le
risorse del suo ospite che cadendo si sgretolò in cenere e
la donna urlò più forte mentre il suo ventre
subiva una contrazione diversa dalle altre.
Ci siamo quasi… annunciò il medico, mentre la
testa spuntava.
Dopo alcuni dolorosi minuti, il pianto di un bambino riempì
la stanza.
La donna ricadde sul lettino, singhiozzando di felicità,
mentre il marito l’abbracciava.
L’infermiera si avvicinò, un sorriso a trentadue
denti, con il bambino avvolto in un asciugamano sterilizzato tra le
braccia. “Complimenti, è un bel
maschietto” disse, mettendoglielo in grembo.
La donna lo prese e sorrise tra le lacrime, mentre insieme al marito
guardava quegli occhioni spalancati sul mondo.
“Gary” mormorò. “Ti
chiamerò Gary”
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