The Arrival (L'Approdo, Ein neues Land
o altri pittoreschi titoli in altrettante lingue – per un
fumetto
muto certo che si dà da fare a confondere i traduttori)
è una cosa
unica e preziosa, una graphic novel surreale ma del tutto umana nel
parlare di un immigrato che deve lasciare moglie e figlia per trovare
lavoro in un mondo nuovo, di cui non conosce nulla. Per me,
è
fumetto ai più alti livelli e mi sento di consigliarlo
praticamente
a tutti. O, almeno, consiglio a tutti di sfogliarlo in fumetteria e
vedere cosa vi comunica, se vi comunica. Per me è stato
amore a
prima vista in una sperduta libreria di Spira (...nel senso di
Speyer,
cos'avete
da sghignazzare XP), con quel moto d'affetto che prende quando si
pesca l'ultima copia seminascosta di qualcosa di sconosciuto che
trasuda meraviglie fin dalla copertina. E spero di non fargli un
torto con queste poche parole di slice of life.
Qualche
tavola
per
gradire...
Il racconto comunque è quasi
un'original surreale, se si parte dal presupposto che c'è un
immigrante arrivato da poco in una città piena di cose
strane.
Virgole e fiori d'inchiostro
L'ufficio era accogliente, tiepido e
minuto. L'uomo esitava. Non aveva ben chiaro perché fosse
stato
convocato – gliel'avevano spiegato più volte in
quella loro lingua
straniera, ora guizzante ora aguzza come i caratteri che usavano per
fissarla su carta. Gli erano arrivati solo frammenti di senso, forse
nemmeno quelli. A meno che non c'entrassero delle bretelle.
Con un cenno nervoso del capo, si
sedette di fronte a un dottore, o un impiegato, un signore fragile
dalla pelle scura scura su cui risaltava un paio di occhialetti tondi
e scintillanti. Sorrideva. Gli sorrise a sua volta. La scrivania che
li separava si imbarcava sotto il peso di pile di formulari, una
pianta d'appartamento (viola, sferica, lanosa, ma una pianta
–
forse) e un discreto assortimento di portapenne.
Di fronte alla sua sedia, un modulo
bianco. Pescò alla cieca dal portapenne più
vicino e storse la
bocca nel vedersi in mano un troncone senza punta, come se a mezza
penna di legno modesto ma ben levigato avessero avvitato un ramo
spugnoso. Lo strusciò con circospezione sul foglio,
variandone
l'inclinazione per cercare una qualche traccia d'inchiostro, senza
successo. Solo una virgola sbiadita. Dopo qualche tentativo
alzò lo
sguardo verso l'altro, sollevando la penna, assieme alle mani, in
segno di resa.
Si aspettava che l'impiegato, o il
dottore, portasse pazienza per questa sue incapacità: il
chiacchiericcio della sala d'attesa gli rimbombava ancora nelle
orecchie ed era sicuro di aver sentito altre voci estranee –
non la
sua parlata, quella no, ma altre storie di ombre e di acqua e di
cielo. Non era l'unico spaesato, quel signore con gli occhi e gli
occhiali scintillanti avrebbe capito.
Non si aspettava però che, una volta
presa la penna dalle sue mani, quello se la mettesse in bocca e la
ciucciasse pensieroso. Poi se la cavò fuori di bocca, la
guardò per
bene in controluce e se la passò su un dito, come se avesse
cercato
di far uscire l'inchiostro succhiandolo dalla parte spugnosa e ora ne
stesse controllando l'efficacia..
“No, no, la prego”, avrebbe voluto
dirgli. “Non c'è bisogno, mi arrangio da me. Ne
prendo un'altra.
Scrivo con la mia.”
Ma non l'avrebbe comunque capito. Finì
per aprire la bocca senza emettere fiato e stringerla in una
“O”
piuttosto comica, se qualcuno si fosse fermato a guardarlo. Non
l'altro. Quello era impegnato a svitare la parte che aveva messo in
bocca e riavvitarne una uguale, appena estratta da un sacchetto
sigillato. Poi gliela porse.
“Grazie”, disse comunque – il
tono di un 'grazie' era universale, no? – provando di nuovo a
sfregarla sul foglio. Ancora nulla. Frugò nel taschino per
prendere
la sua matita, ma si sentì dare due colpetti sul gomito: il
signore
stava facendo segno di no con la testa e lo invitava a imitare i suoi
gesti di prima. Aveva delle belle mani, sottili e rugose.
Provò a imitarlo, senza riuscire a
nascondere una piccola smorfia. Mise in bocca la punta della penna e
la succhiò un pochettino. Sapeva di pane secco e un tocco di
liquirizia. Poi si la passò sul dito, come aveva fatto
l'altro, e
vide che lasciava davvero una traccia d'inchiostro. Incontrò
un
sorriso: aveva fatto bene. Ottimo, forse sarebbe riuscito a
sbrigarsela entro sera. Un dito indicava un quadrato sul modulo e
prima che magari la penna si seccasse e si dovesse rifare tutto da
principio l'uomo la puntò con forza lì in mezzo,
tozza,
perpendicolare, sperando che quell'impiegato gentile lo guidasse fino
alla fine della procedura.
La sorpresa gli fece quasi lasciare la
presa. Un'abbondante goccia color seppia si era depositata tutta sul
quadretto, venendo perlopiù delimitata dai segni neri
prestampati,
ma fluendo libera sul foglio da una fessura presente su ogni lato.
Come un germoglio, guizzò lungo la carta porosa in rami e
spirali,
seguendo percorsi che il signore osservò con grande
attenzione
dietro ai suoi occhialetti, fino ad esaurirsi dentro ai numerosi
cerchi che costellavano il foglio. Ora, ognuno di essi racchiudeva un
fiore complesso e unico color seppia.
Le ultime spirali si formarono a fatica
dai quattro tronchi principali e il foglio tornò inerte.
Mentre
attendevano che fosse del tutto asciutto, capì a gesti che
quel
cerchio là in alto stava per cuore, uno in mezzo per fegato
e gli
altri chissà.
Soddisfatto, il medico archiviò il suo
esame in uno scaffale, sotto la lettera 'manico di ombrello
rovesciato'. A giudicare dal sorriso, sembrava che i risultati
fossero regolari. Avanti il prossimo. L'uomo scrollò le
spalle e si
avviò verso casa.
Sanità pubblica. Non ci si sarebbe mai
abituato.
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