Guerrillas
*
00. Prologo: Not one of them
*
E’ festa oggi, qui da noi.
Frutta sulle nostre tavole di legno, musica che aleggia nell’aria.
Danze attorno al fuoco.
Risate.
Ci basta solo questo, per riuscire a trascorrere felicemente una serata in compagnia di familiari e amici di famiglia.
Una festa per la mia laurea.
Una festa per me.
Sono l’unico che è riuscito a laurearsi, nel nostro villaggio.
Medicina e chirurgia. Ho
deciso di sfruttare i miei anni di studio per aiutare i paesi che ne
hanno più bisogno: quelli del terzo e quarto mondo,
principalmente. O comunque, quelli in via di sviluppo, ad alto tasso di
mortalità infantile; quelli con scarse condizioni
igienico-sanitarie, o quelli in cui la guerra è diventata
un’abitudine, oltre che un pericolo.
Domani parto. Mi hanno già chiamato d’urgenza – o meglio, hanno chiesto aiuto. Ed io mi sono offerto.
Vado in Brasile. Nel Mato Grosso, per la precisione. A Cuiabá.
Mi hanno parlato di guerriglie. Di feriti. Di malati.
Non so con chi avrò a che fare – ma il mio lavoro è anche questo.
L’ho scelto io.
Se ho voluto la bicicletta, adesso devo pedalare.
Afferro un’arancia da uno dei cesti vicini. Con un coltello nell’altra mano la sbuccio, velocemente.
Ne stacco uno spicchio, e lo porto alle labbra, masticando a bocca chiusa.
Davanti a noi, maschi del villaggio seduti in fila a gambe incrociate, delle fanciulle danzano a ritmo di musica.
E’ folk. Non vi aspettate grandi cose.
Questi spettacoli riescono sempre a farmi venire il sonno in clima di
festa. Tuttavia, Sondes insiste nel dire che gli uomini hanno il
diritto di godere della grazia femminile in tutte le sue forme.
Cerco di coprire uno sbadiglio, voltandomi dall’altra parte per qualche secondo.
Sbatto le palpebre.
Porto nuovamente lo sguardo sulle danzatrici.
Belle, senza dubbio, e molto sensuali nella loro grazia pudica. Ma in
tutta sincerità, non passerei la mia intera vita a sbavare sulle
ragazze del villaggio.
Gli altri uomini accanto a me, invece, sembrano essere di parere
diverso. Uno di loro, Tarek, non fa che fissare una delle danzatrici in
particolare.
Seguo il suo sguardo.
Inarco un sopracciglio.
Sta guardando mia sorella. Fatma, la più grande delle mie due sorellastre minori.
Nonché la più bella fra tutte le giovani del villaggio.
Distolgo lo sguardo.
Non che sia geloso – ma semplicemente, lo sguardo di quel tizio
mi infastidisce. Senza contare che sarà più grande di lei
di almeno vent’anni.
Fatma ha diciannove anni, compiuti lo scorso mese. Mio padre ha
già progettato di darla in sposa a qualcuno del villaggio. Ma
non mi ha specificato niente.
A lei sembra piacere l’idea. Ha sempre sognato un uomo accanto e una famiglia numerosa.
Vede la ‘vie en rose ’, come si suol dire.
Forse è un po’ ingenua; ma è la ragazza più
dolce e materna che conosca. Era sempre lei a coccolarmi, da piccolo,
quando ero triste.
E spesso lo fa ancora adesso.
Lo sguardo mi cade su un’altra delle danzatrici.
Probabilmente quella che balla peggio – infatti si tiene un po’ in disparte.
Karima. La mia sorellastra più piccola. Sta sbagliando tutti i passi.
Non le piace ballare. Per la verità, non le piace neanche essere una donna.
Ha solo quindici anni, ma il suo carattere ribelle la rende già
una spina nel fianco per i miei genitori. E per il villaggio.
Fisicamente mi assomiglia. Ha i miei stessi occhi neri, e il mio stesso naso a patata. Ereditati da nostro padre, Mohamed.
Fatma invece è totalmente diversa da me. Lei assomiglia a Sondes – mia madre putativa, e sua madre naturale.
Anche Karima è figlia di Sondes – ma la somiglianza con
nostro padre è di troppo superiore, per poter accorgersene.
Io non assomiglio alla mia vera madre. Non ho preso nulla, da lei.
Purtroppo, devo dire.
Non ho mai conosciuto Aida. Ma ho potuto vederla in alcune foto. E
constatare quanto fosse straordinariamente bello il suo sorriso.
Avrei tanto voluto conoscerla.
Avrei tanto voluto che quel meraviglioso sorriso fosse rivolto a me.
Karima non mi parla da tre giorni.
E non mi rivolge lo sguardo neanche adesso – nonostante io la
stia fissando insistentemente mentre danza (o meglio, mentre tenta di
danzare).
Ce l’ha con me.
Non so per quale bislacco motivo, ma ce l’ha con me.
Devo averla offesa in qualche modo – magari senza accorgermene, o senza volerlo.
Le parlerò sicuramente. Prima che venga domani.
…
Le fanciulle chiudono – finalmente – la loro danza,
sorridendo al “pubblico” e chinando il capo in segno di
rispetto.
Applaudisco, mentre Fatma mi sorride dolcemente.
Karima non si è inchinata. Sa che gli applausi non sono di certo rivolti a lei.
Mi alzo in piedi, gettando la buccia d’arancia dentro un
sacchetto, messo appositamente per la spazzatura. Mi pulisco le mani
con un tovagliolo.
Mia madre mi raggiunge. Le rivolgo uno sguardo, mentre si dirige verso di me.
E’ in compagnia.
“Chadi, tesoro!” mi chiama, sorridente.
Le sorrido a mia volta, volgendomi verso di lei. O meglio, verso di loro.
Vicino a lei c’è una ragazza sulla ventina, dai lunghi
capelli neri e dall’aria piuttosto timida. E dal sorriso
apparentemente innocente.
“Tesoro, ti è piaciuta la danza?”
La domanda di mia madre arriva così, di botto, mentre getto anche il tovagliolo dentro il sacchetto.
Ridacchio.
Non perde tempo.
“Emozionante.” Commento, semplicemente. Mi sono accorto
adesso di aver utilizzato l’unico aggettivo che non si addice ad
uno spettacolo del genere.
Sondes lo prende comunque con un complimento, e sorride soddisfatta.
Pone uno dei suoi bracci carnosi intorno alle spalle della ventenne
vicino a lei. Che – piccola parentesi senza alcuna utilità
– non ho mai visto in vita mia.
Non era neanche fra le danzatrici.
Eppure mia madre sembra quasi conoscerla da tempo.
“Caro, vorrei farti conoscere una persona. Si chiama Yasmina,
è la figlia maggiore del signor Samir Houda … sai, quello
che possiede la catena di ristoranti africani in città.”
“Oh, ho capito chi è.” Affermo, lanciando uno sguardo alla ragazza.
Lei mi ricambia, sorridendo. Sembra emozionata.
“Sono onorata di fare la sua conoscenza, Chadi. Davvero, è
un onore talmente grande, che non si può spiegare a
parole.”
Iiiiiiih! E questa frase da dove se l’è presa, da una soap opera?
La cosa più straziante, è che, da come l’ha
pronunciata, mi dà anche l’impressione di essersela
preparata in precedenza. Come le battute di uno spettacolo teatrale.
Trattengo una risata sommessa. Chino appena il capo, per rispetto ed educazione.
“Sono io ad essere incantato, Yasmina.” Cerco di formulare una frase decente.
La ragazza mi sorride ancora.
Perché ho l’impressione di piacerle?
“Vedo che riuscite ad andare d’accordo!” afferma mia
madre. Sta facendo tutto lei. “Yasmina è anche in
età da marito. Magari un giorno …”
“Mamma.” La interrompo, fulminandola. La ragazza non sembra per nulla infastidita – anzi. Il contrario.
“Va bene, va bene, non devo correre troppo!” si arrende
Sondes, ridacchiando. “Però fatevela, una
chiacchierata!”
Sospiro, portandomi una mano alla testa.
Un’altra pretendente.
Avrei dovuto aspettarmelo. Da quando ho terminato il mio corso di studi
all’università (e soprattutto, da quando ho comunicato la
mia intenzione di andarmene), mia madre non ha fatto altro che
presentarmi ragazze. Una dietro l’altra.
Oh, no, non mi sono spruzzato feromoni sui vestiti – ma ho addosso qualcosa di molto più attraente.
Una laurea.
Una laurea significa lavoro. E un lavoro significa soldi.
Ehi. Non immaginatevi chissà quale grandioso stipendio.
Ma il punto è che qui, non sono a caccia del meglio. Ma del meno peggio.
Una laurea – e quindi un lavoro sicuro, è già una bella garanzia. E ai padri di famiglia, questo interessa parecchio. Di certo non darebbero mai le loro figlie in moglie a dei disoccupati.
Yasmina è ancora di fronte a me. Mi guarda con un sorriso
più malizioso – adesso che mia madre si è
allontanata.
Inarco un sopracciglio.
“Perdona la scortesia. Ma devo proprio allontanarmi. Sai, oggi
è il mio giorno; c’è parecchia gente, che vuole
rivolgermi la parola.”
Le parole mi escono giusto un po’ più acide di quanto avevo programmato.
Yasmina mi guarda male.
“E la nostra chiacchierata?” mi domanda, stizzita.
Abbasso lo sguardo. Incurvo le labbra in un sorriso sornione.
“Sono spiacente, davvero. Ma io do la priorità ad altri.”
Non faccio in tempo a osservare l’espressione infastidita della ragazza, che mi sono già allontanato.
Probabilmente la bella Yasmina si è offesa. Magari racconterà tutto a babbo Samir.
Magari non vorrà più cercarmi. Né essere mia pretendente.
Benissimo. Volevo proprio levarmela di torno.
Mi piazzo alle spalle di Sondes.
Adesso mi sente.
“Mammina …?” la chiamo, picchiettando col dito sulla sua spalla. Lei si gira di scatto.
Sta masticando qualcosa – datteri, probabilmente. Ne ha una ciotolina in mano.
Ingoia il boccone, prima di rivolgermi la parola.
“Ma … Chadi! Già finito?”
“Era un’altra pretendente, vero?” domando, incrociando le braccia al petto.
Sondes sorride, un po’ imbarazzata. Poggia sul tavolo la ciotola.
“Tesoro … a me piacerebbe vederti sistemato, lo sai. E poi, è una così bella ragazza …”
“Niente da dire al riguardo, ma non è questo il punto.” Preciso, sicuro.
Sospiro. “Ti ho già detto più volte che non ho
intenzione di sposarmi, per ora. Ma parlo coi muri o cosa?”
“Suvvia, caro, non ti arrabbiare.” Mi prega, carezzandomi
la guancia affettuosamente. La lascio fare. “Mi sarebbe …
soltanto piaciuto che mi avessi dato dei nipotini, prima di partire
…”
“Ma certo, ci credo.” Sorrido, con finta aria di
rimprovero. “Dei nipotini che, in qualche modo, mi tenessero
incollato a Tunisi. Mh?”
Mia madre ridacchia. Sa, che sto dicendo la verità. Lo ammette.
Ridacchio anch’io.
Le prendo il viso fra le mani, e le stampo un bacio sulla guancia. Piccola manifestazione d’affetto.
Spesso ne sento il bisogno.
Sondes per me è come una madre vera. Lo è sempre stata.
Non posso essere arrabbiato con lei.
“Perché te ne devi andare?” mi domanda, con uno sguardo di supplica.
Le sorrido. Più dolce di come io sia solitamente.
“Non mi succederà niente. Stai tranquilla. Vado solo per … essere un medico.”
Mi sorride.
Un altro bacio sulla guancia. Da parte sua, stavolta.
La lascio fare. Poi arretra, risistemandomi gli occhiali sul naso, che minacciavano di cadere giù.
“Sai che tuo padre ha intenzione di far sposare Fatma, a breve?” mi domanda, cambiando discorso.
Annuisco.
“Sì, me l’aveva accennato. Con chi?”
Sta un po’ a riflettere. Poi risponde. “Avevamo pensato a
Tarek Habib. Sì, per evitare matrimoni troppo distanti.”
Tarek?!
“Mamma, sinceramente, non sono d’accordo.” Affermo
immediatamente, lanciando uno sguardo all’interessato. Sta
proprio conversando con Fatma, in questo momento.
“E’… troppo grande, per lei.”
“Ma questo non ha importanza, tesoro. L’amore non ha età.”
Storco il naso.
Mi prende in giro? Parliamo di matrimoni combinati, e ci mette in mezzo l’amore?
“Per altro, tua sorella è d’accordo.” Continua mia madre, sicura delle sue argomentazioni.
“Su questo non avevo dubbi.” Rispondo, sorridendo appena.
Fatma ha espresso da tempo il desiderio di sposarsi. E di avere figli.
Ma io sono un po’ preoccupato.
“Anche a Karima toccherà sposarsi, fra qualche anno.”
Oddio. E’ vero. Non riesco a pensarci.
Vi immaginereste Karima davanti ai fornelli con dei poppanti intorno?
“Se mai qualcuno troverà il coraggio di sposarla.” Commento, sghignazzando.
“Chadi!”
Sondes se la ride, insieme a me.
Passa qualche attimo. Poi Sondes si blocca.
Io continuo a ridacchiare. Da solo.
Mia madre mi fa un cenno con la testa.
Cenno di smetterla.
Mi blocco di colpo.
Mi volto.
Occacchio.
Ho Karima dietro.
Mi fissa, con occhi vitrei. Avanza appena di qualche passo, prima di rivolgere la parola a Sondes.
“Mamma, sono finiti i tramezzini, di là.” Annuncia,
fredda. “Anziché discutere su quanti uomini potranno un
giorno chiedere la mia mano, perché non ti attivi e vai a farne
di altri?”
“Vedi di calmarti, Karima. Se vuoi i tramezzini, te li fai da sola.” Intervengo, inarcando un sopracciglio.
“No, no … non preoccupatevi ragazzi, faccio io.”
Sondes cerca di mettere la buona. Si allontana, dirigendosi dentro casa.
Fulmino Karima, di fronte a me.
“Doveva per forza andarci lei?” sbotto. “Tu di certo hai più tempo libero.”
“E non ho intenzione di rinunciarci.” Risponde a tono, reggendo il mio sguardo.
Ma guarda te che scansafatiche. Non solo crea sempre problemi, ma non fa niente per riparare.
“Dovresti renderti più utile, a casa. Siamo in cinque, cavolo, non possono fare tutto Sondes e Fatma!”
“No, ti correggo; da domani, saremo in quattro.”
Già. Proprio così.
Inarco un sopracciglio. “La cosa ti dispiace?”
“Assolutamente. Anzi, spero che tu non torni proprio più.”
Stringo i pugni. E i denti.
“Ma che accidenti ti ho fatto, io?” sbotto, scocciato. “Perché ce l’hai tanto con me?”
“Perché?!” ripete, sgranando gli occhi. A voce più alta. “Tu adesso te ne vai. Ci lasci. Ci abbandoni.”
“Non starò via per sempre, Karima!”
“Non m’interessa per quanto starai via!” ribatte, scocciata. Qualche testa si gira a guardarci. “Tu puoi farlo! Tu puoi fare tutto! A te danno la possibilità!”
Mi blocco.
La guardo negli occhi, mentre la vedo in procinto di scoppiare in lacrime.
“Ed io, invece?”continua. “Io devo rimanere segregata
in questo schifo di casa, a cucinare e a lavare i piatti. E quando
sarò più grande, sarò costretta a sposarmi, e a
partorire dodici figli di seguito per soddisfare i desideri del mio
padrone. Perché di questo, si tratterà.”
“Se quando sarai più grande manterrai il carattere che hai
adesso, non ci sarà il rischio che qualcuno ti prenda in moglie,
questo è sicuro.”
Ehm. Potevo risparmiarmela, questa.
Sospiro.
La guardo negli occhi, cercando di mantenere la calma. Devo cercare di
parlarle tranquillamente. Non risolvo niente, con l’orgoglio.
Lei mi fissa severa.
“Ascolta.” Esordisco, a voce bassa. Aspetto che quei pochi
che si sono girati si voltino di nuovo. Non mi piace essere osservato
mentre parlo con mia sorella.
“Anche tu avrai le tue occasioni. Le tue
opportunità.” Continuo, lento. Sospiro. “Ma il fatto
che queste non siano ancora arrivate, non ti autorizza ad invidiare
l’erba del vicino, né tantomeno a godere del male degli
altri!”
“Le mie occasioni non arriveranno mai.” Afferma, sorridendo
cinica. “Io sono femmina. Tu sei maschio. Io non potrei mai
andarmene, perché non mi è concesso.”
Ehi! Ma tutto questo vittimismo?!
“No, tu non potresti mai andartene perché, se lo facessi,
al 99% delle probabilità non ritorneresti a casa!”
Ora basta. Sono esploso.
Mia sorella mi fissa con aria omicida. Ma nei suoi occhi, le lacrime minacciano di venir fuori da un momento all’altro.
Probabilmente sono stato troppo duro. Ma è già tanto che
non le abbia tirato uno schiaffo, per tutto il male che mi ha augurato
fino a ieri.
Il fatto che io non abbia mai alzato le mani sulle donne ha aiutato.
Fino all’ultimo mi è rimasto qualche briciolo di coscienza
e di buonsenso.
Quello che in Karima manca.
Si allontana a passo pesante. Probabilmente non avrà più voglia di parlarmi.
E di nuovo sento gli sguardi dei parenti tutti addosso.
Mi volto verso di loro.
E qualcuno si avvicina.
“Ehi, Chadi! Qualche problema?”
“Chadi, che è successo?”
“Cos’ha Karima? L’ha morsa la tarantola?”
“Perché tua sorella è arrabbiata?”
“Mi sembri nervoso! Che succede?”
…
Odio quando la gente non si fa i fatti propri.
Un sorriso di circostanza a ognuno di loro. Un sorriso molto forzato.
Non sono mai stato bravo a nascondere i miei stati d’animo.
“Niente di importante, state sereni.” Rispondo, semplicemente.
Mi volto dall’altra parte.
“Ora perdonatemi, ma devo allontanarmi per qualche minuto.”
Mi fissano incuriositi, mentre mi allontano a passo veloce.
Lo so, sembro strano, a volte.
Una cosa è certa: io non sono come nessuno di loro.
…
…
Mordo.
Mastico.
Mordicchio.
Purtroppo questo è un brutto vizio che non avrò mai
né la voglia, né la possibilità di togliermi.
Mangiarmi le unghie è ormai diventato parte del mio essere – da parecchio tempo.
Lo faccio soprattutto quando sono nervoso. O quando mi metto a pensare.
Oppure quando mi metto a pensare e sono nervoso. Cioè, quando studio.
Sussulto appena, quando la lavatrice, sulla quale sono seduto, ricomincia a girare.
Vibra. Concilia il sonno.
In effetti di sonno ne ho parecchio – colpa di tutte le notti passate in bianco, su quei cacchio di libri.
Per colpa loro, ho imparato a non tenere più conto del tempo.
A proposito … da quanto tempo sono chiuso in questo bugigattolo? La festa è già finita?
“Ora perdonatemi, ma devo allontanarmi per qualche minuto.”
Heh. Bella questa.
Non ho neanche un orologio con me – solitamente lo tengo sempre nel polso sinistro. Oggi me ne sono dimenticato.
Mi stringo sulla ginocchia. Faccio roteare appena fra le mani un
bastone, probabilmente appartenente ad una scopa, o a una radazza.
Se non voglio partecipare alla festa, dovrei almeno andare a dormire. Non mi farebbe male – domani devo alzarmi presto.
Partirò verso le undici e mezza. Mi converrà partire
prestissimo, il volo durerà mezza giornata, per lo meno.
Per altro, fra Tunisi e Cuiabá ci sono cinque ore di differenza. Dormirò anche di meno.
Ma cacchio.
Chi riesce a dormire? Chi?
Da domani cambio vita. Da domani sono un’altra persona.
Non so se è solo una sensazione mia, o se è normale
provarla. Quando si ha sonno, ma non si riesce a chiudere occhio.
Porto la testa al muro.
Domani esco.
Domani vado.
Non disturbatemi.
***
Nota dell'Autrice:
Salve a tutti, piccoli fiori di magnolia in primavera...
Sono Diffy, e questa è la
prima volta che posto qui una mia storia. Se sono qui, tutto merito di
quella graziosa grafomane di Chandrajak - che conosco bene e che mi ha
convinta ad iscrivermi. Questo è il primo capitolo, e spero che
vi piaccia. Vi chiedo di commentare in tanti, per me è
importante ricevere consigli e suggerimenti per migliorare - sono un
pò una principiante. ^^"
Spero di non annoiarvi, nè coi miei discorsi da caffè/ascensore, nè con il mio racconto.
Un saluto! See ya!
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