Nick
Autore: yesterday
Titolo: Cinque
Splendide Lettere.
Generi:
introspettivo, vagamente romantico, drammatico (?)
Rating: arancio.
Disclaimer:
niente
di mio, se non il tempo utilizzato per scrivere :)
Intro/NdA: Lo stile
è volutamente ripetitivo e la punteggiatura particolare.
Volevo che questa fosse una sorta di...nenia piuttosto malsana. Spero
di esserci riuscita, almeno in parte. Grazie infinite a Rò per il bannerino *w* (Altri chiarimenti, le traduzioni
e precisazioni al dopo-shot :D)
Cinque
Splendide Lettere.
Quarta
classificata a parimerito al contest "Characters & Quote"
indetto da Only_Me sul forum di EFP.
Cinque
splendide lettere, J A M E S.
Impossibile
non accorgersi di come il suono accarezzasse vellutato i brevi fonemi,
con quella punta di dolcezza da far male al cuore scatenato ed immobile.
Victoria
lo sapeva.
Victoria
lo aveva sempre saputo, che James era un nome bellissimo.
Lo
aveva già intuito quando, debole carne umana e memoria
fumosa, lo incontrò per la prima volta.
Il
cielo era coperto da uno spesso manto di nubi, presagio di pioggia, ed
i capelli di Victoria erano rinchiusi in una gabbia di perline; lei
stessa era rinchiusa in un vestito troppo scomodo e stretto per i suoi
gusti.
Lei
- Victoria - voleva i ricci liberi sulla sua schiena e la sola
chilometrica - ed altrettanto libera - vestaglia bianca addosso.
Malediceva
sempre il giorno in cui era nata da una famiglia nobile, tranne in
quell’occasione - quando scoprì che James era un
nome assai melodioso.
Pensò,
sbagliando, che lui l’avesse notata per via dei suoi
raffinati abiti.
Il
ricordo più sconvolgente era quella distesa di papaveri. Un
campo sterminato. Una via, tanta fretta di accompagnare un bambino - un
fratello? - a.. Victoria questo l’aveva dimenticato.
Come
non ricordava perché lo stesse accompagnando lei
personalmente, di norma era una mansione della servitù.
Erano
impalliditi, quei leggeri dettagli, impalliditi nei giorni di fuoco
della sua trasformazione. Erano impalliditi perché
l’istante che visse dopo era tremendamente più
importante ed assoluto, uno dei momenti da imprimere nella memoria a
qualsiasi costo.
Perché
aveva visto lui - e non
importava perché si trovasse lì, come ci fosse
arrivata e dove dovesse dirigersi. Non importava più.
Un
campo di papaveri, una strada sterrata, tanta fretta, un bambino - un
fratello? - e poi lui.
Non
la guardava, osservava dritto avanti a sé.
Victoria
se ne stupì - era solita essere ammirata, lei.
Invece
si ritrovava a ricoprire un ruolo marginale nelle attenzioni di un uomo
tanto bello da far sì che fosse lei, per una volta soltanto,
ad ammirare.
Si
voltò, e durò un attimo. Victoria
rabbrividì incrociando quegli occhi feroci, ma fu un secondo.
Assunse
un’aria cortese, e lei giustificò le strane iridi
di sangue dandole per effetto d’una brutta malattia, di
quelle che imperversavano dalle Americhe, di quelle strane e
difficilmente curabili.
«
Buenos días,
señorita » la salutò
scostando leggermente il cappello.
Victoria
si bloccò, scordando tutta la fretta e la mano paffuta che
stringeva la sua.
Quell’uomo
aveva una voce bellissima. Ammaliante, quasi. Victoria
desiderò poter chiudere gli occhi e sentirlo parlare per ore.
Se
suo padre l’avesse scoperta probabilmente l’avrebbe
picchiata, ma Victoria drizzò le spalle e rispose al saluto
dello sconosciuto.
«
Buenos días
» e sorrise impacciata.
Anche
lo sconosciuto sorrise, rivolgendosi poi ai papaveri.
Il
bimbo - fratello? - la strattonava verso la direzione opposta,
impaurito dalla vicinanza dell’uomo. Victoria
allentò la presa, ed il bambino corse via.
«
¿Puedo saber
cómo se llama Usted? » lo sconosciuto
piegò la testa di lato.
D’improvvisò
Victoria soffrì per la mancanza dei suoi ricci - ora
relegati in una stretta crocchia sulla nuca -, tanto folti da poterla
proteggere.
Quegli
occhi - quell’uomo tanto pallido e bello sembrava sondarle
l’anima coi suoi occhi accesi.
«
Victoria
» balbettò appena.
«
Yo soy James.
»
Quel
nome le entrò in circolo, e James dilatò
le narici per un istante, respirandola. (*)
Victoria
fu strattonata lontano dalla servitù dei suoi genitori -
perché parlare con gli sconosciuti era un sacrilegio
bell’e buono, oh sì - e solo più tardi
avrebbe scoperto che quella piccola folla di spettatori (accorsa dopo
le suppliche del bambino, preoccupato) le aveva prolungato la vita di
un paio di settimane.
Solo
più tardi avrebbe scoperto che quegli occhi non
simboleggiavano nessuna rara malattia, ma un’arcana
maledizione senza fine.
Solo
più tardi avrebbe scoperto che quelle erano le uniche parole
che James conosceva, in spagnolo, imparate giusto per
l’occasione.
E
sempre più tardi avrebbe scoperto che già da
tempo, lui, l’osservava.
La
respirava.
Iniziò
ad incontrarlo spesso. Erano sempre fortuite coincidenze, di norma, o
almeno lo sembravano.
Iniziò
a pensarci, a giocare con quel nome così strano - e Victoria
immaginò che dovesse essere un americano o forse un marinaio
inglese - affibbiandogli una storia, una personalità.
Aspettandosi
che, un giorno, l’avrebbe visto contrattare con suo padre i
termini di matrimonio. Fantasticò sul fatto che
l’avrebbe chiesta in moglie, data la sua età
propizia.
Una
settimana dopo Victoria s’accorse di quanto
quegl’incontri non fossero fortuite coincidenze e di quanto
quegli sguardi di sfuggita fossero carichi di desiderio. Tanto, forse
troppo.
Ma
dei due generi di desiderio che divoravano James lei ne poteva
ipotizzare uno soltanto, all’epoca.
Victoria
era sempre stata altalenante, caratterialmente parlando, lo sapeva. Un
giorno, un giorno soltanto, non lo vide. Era un jueves, (**) e lo
ricordava bene: il sole era tornato a splendere dopo due settimane di
pioggia e nuvole.
Passò
il pomeriggio a crogiolarsi nei dubbi, stringendo il parasole con le
dita e voltandosi di continuo.
Era
un marinaio inglese - sì, lo era per forza - ed era partito
per un lungo viaggio.
La
consapevolezza si fece largo nelle sue ossa e Victoria capì
che quei casi e quelle iridi cariche di desiderio travolgente non le
dispiacevano: stentava ad ammetterlo, ma quasi le mancavano.
Sbirciò
fuori dal calesse e, notando la strada assolata ma vuota, si
sentì sola.
Sciolse
i capelli, pettinando quel suo vanto con estrema calma.
Era
un gesto che le infondeva serenità starsene lì,
di fronte alla finestra aperta, la stanza libera
dall’invasione di cameriere ed il vento a solleticarle la
pelle nuda della spalla sinistra.
Inspirò
a pieni polmoni, socchiudendo gli occhi; rimase in quella posizione per
un po’.
Scosse
la testa accorgendosi di cosa popolasse i suoi pensieri anche in quel
momento - cinque lettere, sempre le stesse, l’unico legame
reale con il bel marinaio inglese dalla pelle diafana - e
riaprì gli occhi.
Trovando
un estraneo
appoggiato
al davanzale.
Forse
avrebbe dovuto urlare - sicuramente - o forse scappare via -
giustamente.
Ma
in fondo avrebbe solo sprecato fiato ed energie; il motivo
l’avrebbe scoperto poi.
«
¿J-James? »
incespicò, sorpresa ma nient’affatto delusa.
Lui
annuì.
«
Victoria.. » salutò con un breve cenno del capo.
In
risposta lei arraffò la sua vestaglia, coprendosi quanto
meglio, e s’avvicinò alla porta per chiuderla a
chiave.
Cos’avrebbe
pensato suo padre? Cos’avrebbe pensato la servitù,
vedendola lì? Avrebbe allontanato James, forse
l’avrebbe messo in fuga - e Victoria non desiderava questo.
James
avanzò, sembrava a proprio agio nella sua stanza, come se
conoscesse ogni dettaglio, persino quali erano le assi di legno del
pavimento a fare rumore - le evitava tutte, sembrava
volare.
Victoria
avrebbe voluto chiedergli com’era arrivato fino al terzo
piano - aveva una scala? Una fune? - avrebbe voluto che parlasse di
lui, tanto per rendersi conto di quanto differisse la sua immaginaria
descrizione dalla realtà.
Avrebbe
voluto decine d’altre cose, ma se le dimenticò
tutte quando James le si parò a pochi centimetri di distanza.
Avvertì
il proprio respiro come bollente, e nello stesso istante scorse in lui
una sorta di tensione - l’ultimo granello di un
già debole autocontrollo, ma l’avrebbe scoperto
poi.
Non
provava paura.
Sbagliava
anche in questo, e se ne rese conto ritrovandosi scaraventata sul suo
letto, in un unico balzo felino ed istantaneo, stretta tra la coperta e
lui, che si addentrava dalla spalla scoperta alla scollatura,
implacabile.
Victoria
era inerme, ancora intontita dal salto: troppe domande le affollavano
la mente. Come era
riuscito a compiere quel balzo? Non le sembrava un saltimbanco. E
soprattutto, cosa intendeva
fare? Non.. Non erano sposati!
Prestò
attenzione solo quando, quattro secondi dopo, s’accorse di
essere completamente nuda sotto di lui. E come se non bastasse, di
averlo appena aiutato a togliersi la camicia.
Istintivamente
si coprì il seno con un braccio, braccio che lui
allontanò subito dopo, portandolo sopra alla sua testa, sul
cuscino.
La
stretta al polso era tanto ferrea da sembrare dolorosa, ma Victoria la
interpretò come un’impressione - solo
successivamente avrebbe scoperto quanto si sbagliava, quella stretta il
polso gliel’aveva rotto.
Era
divisa a metà: il suo buonsenso le urlava di divincolarsi,
ma la sua sinistra non voleva saperne di staccarsi dal groviglio di
capelli castani - a quella constatazione capì che doveva
trattarsi d’un marinaio americano, poiché tutti
gli inglesi erano biondi - il ventre d’esser sfiorato dalle
dita di lui, le gambe di spostarsi, alzarsi, andare via.
Non
le passò in mente nemmeno di urlare, di chiedere aiuto: si
ritrovò costretta ad abbandonare il raziocinio e ad
ammettere che gli unici suoni a fuoriuscire dalla sua bocca erano di
tutt’altro genere.
Rispose
ai baci famelici, aiutandolo a liberarsi dei pantaloni.
«
Ja-mes » cinque lettere che le si spezzarono in gola
Avvertì
dolore e chiuse ancora gli occhi. Sperò che passasse presto,
lasciando spazio a ben altre sensazioni - quelle di cui spettegolavano
giù in cucina le cuoche che il padre definiva spesso
“donnacce” , quelle che avrebbe dovuto sentire
quand’avesse portato al dito una fede da almeno un giorno.
E
quelle, di sensazioni, non tardarono ad arrivare, offuscate
però dal dolore sempre presente, sempre crescente -
ingenuamente pensò fosse normale, lei, per quanto le fosse
dato sapere - e riaprì gli occhi.
James
-
cinque lettere, sue in quel
momento - inspirava, lo sguardo basso sul poco sangue a macchiare il
lenzuolo.
Candidamente
avrebbe voluto dirgli “non è nulla, è
normale”, ma quando lui risollevò il viso lei
capì che era abbastanza.
Successe
in una frazione di secondo, probabilmente; inarcò la schiena
avvertendo un sonoro crack del bacino.
La
sinistra di lui sfiorò il suo busto, cercando di puntellarsi
al letto, e Victoria avvertì nuovo dolore -
all’altezza delle costole, stavolta.
E
per quanto gemiti si alternassero a lamenti, nella sua gola, non si
sentì violata, non riuscì a pentirsi.
Forse
c’è qualcosa di malato, nell’amore che
proviamo.
Nell’amore
che ci costruiamo come un castello, nelle piccole come nelle grandi
cose.
In
ciò che attribuiamo agli altri - il più delle
volte a torto, a voler essere sinceri.
Ed
in quello che attribuiamo a noi stessi - anche stavolta spesso a torto.
Victoria
non ne ebbe il tempo materiale, ma anche se l’avesse avuto il
suo pensiero non sarebbe cambiato: c’è sicuramente
qualcosa di sbagliato, nell’amore che ci immaginiamo al
sicuro nel nostro cervello, ma in ogni caso non riusciamo a pentircene.
Tredici
respiri ed un millesimo di secondo dopo, Victoria capì che
le iridi di James non erano di certo una forestiera malattia.
James
s‘era abbassato sul suo collo, posando una scia di sospiri e
scendendo verso la spalla sinistra - la prima a scoprirsi del suo corpo.
Victoria,
poi, si sentì divampare un incendio addosso. E chiuse, di
nuovo, gli occhi.
Avvertì
un incendio anche quel giorno di quasi trentadue milioni
cinquecentoquaranta mila quattrocento inutili respiri prima.
E
non l’avrebbe scordato mai, a prescindere
dall’infallibile memoria da immortale.
Era
stato... Logorante, ritrovarsi di fronte la fine di entrambi.
La
morte di lui, in fondo, era stata la morte anche di lei.
Lei,
Victoria, l’unica sfida che James prese così
tanto a cuore -
come se improvvisamente ne avesse davvero avuto uno
- da trasformarla e volerla per sé e sé soltanto.
Per sempre, come nelle fiabe che le raccontavano da bambina.
E
le favole - lo imparava ogni giorno a sue spese - esistevano solo nei
libri che aveva smesso di leggere da quasi due secoli.
Victoria
era un essere inutile, ormai.
Victoria
era malata - se fosse stata umana si sarebbe definita depressa - quei
vani milioni di secondi le erano testimoni: giorni per
mettere a fuoco l’idea che James - quelle
cinque splendide lettere che dovevano essere sue per
l’eternità - potesse aver fallito.
Victoria
non aveva mai dubitato delle sue doti di segugio, o l’avrebbe
ovviamente seguito.
« Ricostruisci la
vita di Isabella Swan » le ultime cose che le disse di
persona prima di andare. Sarebbe
tornato al massimo una settimana dopo, diceva.
«
Ci rivediamo domani, Vic »
l’ultima volta che sentì la sua voce, attutita da
distanza e telefono.
Vic,
tre sole lettere; James le aveva detto sarebbe stato veloce, aveva un
piano - e poi sarebbe tornato da lei, da Vic.
Non
era andata così.
Altri
giorni - mesi? - per
accorgersi che davvero, davvero era come
se fosse morta anche lei.
Per
accorgersi che avrebbe
voluto essere
morta anche lei.
E
non aveva senso, un’eternità intera, se era
obbligata a viverla in quel modo.
Non
aveva senso - altre
cinque lettere, ma stavolta non splendide.
Cinque
splendide lettere non le avrebbe trovate mai più, Victoria,
non c’erano parole e nomi che potessero competere.
Se
fosse morta, Victoria, l’avrebbe incontrato. E se fossero
stati divisi, lei l’avrebbe trovato.
Cinque
splendide lettere, la sua voce e..
«
L’umana » fu la prima parola che
pronunciò dopo la fine, era settembre.
Umana, altre
cinque lettere, nemmeno lontanamente splendide.
Laurent
era lì con lei. Era il motivo per cui s’era decisa
a parlare di nuovo.
«
E’ ancora umana? No » si corresse di fretta
« è già sotto una tomba? »
Tomba,
ciò che non le era permesso. (***)
Aveva
perso il conto del tempo, Victoria, tanto per lei non faceva differenza.
Potevano
rincorrersi gli anni, dal canto suo, potevano davvero.
Perché
dentro qualcosa di immobile e ghiacciato non sarebbe mai guarito.
Cuore, altre
cinque lettere. No, non splendide.
Attese
che Laurent tornasse con la risposta.
E
nella sua testa c’era già tutto - ennesime
cinque non splendide lettere.
L’umana,
lei. Lei era
la causa, lei era il gioco che gli era
costato l’esistenza.
E
lui - lui, il vampiro, Edward - la mano. L’umana il motivo,
Edward l’aguzzino.
«
E’ ancora viva. Ma è protetta da Edward, da
Carlisle e dagli altri civilizzati di Forks. »
Victoria
sorrise, per la prima volta dopo mesi di mutismo ed
immobilità.
Un
lampo di memoria umana definì quel che aveva preso forma nel
suo spazioso cervello; era un detto spesso usato da suo padre. Occhio per
occhio..
Non
era un’irruente neonata, Victoria aveva ben compreso il
sottile sbalzo - un non troppo timido strappo, una lacerazione - a
separare l’istinto vendicativo dei vampiri da ciò
che le smuoveva forte l’anima - se mai ne avesse avuta una;
ma lei non aveva mai avuto abbastanza tempo per pensarci,
all’anima, per paradossale che fosse.
Lei
che aveva tutto il tempo del mondo, ma ne avrebbe volentieri fatto a
meno.
C’era
qualcosa anche oltre l’amplificazione della sua
caratteristica, la particolarità che aveva saputo portarsi
appresso, abbandonato il suo stato mortale - lei, lei che si era
trascinata nel per sempre la costanza.
Aveva
un buco - enorme - al centro del petto, un vuoto - assurdo - ad
occupare il posto di un organo già fermo ed ormai inutile.
C’era
quel nome che continuava a gocciolarle nel cervello come un rubinetto
che perdeva.
Plic.
Plic. Plic.
James.
James. James.
Cinque
meravigliose dolorose sanguinanti lettere.
Victoria
era malata, probabilmente. Non che qualcuno si fosse mai apprestato a
studiare la psiche di un vampiro, o perlomeno la sua (Victoria rise, lo
sciagurato strizzacervelli sarebbe sopravvissuto per un lasso di tempo
pari a dodici centesimi di secondo), ma già sapeva
d’avere qualcosa fuori posto.
La
consapevolezza - pesante - di dover vivere per sempre senza le sue
cinque lettere.
Victoria
aveva smarrito il senso, aveva smarrito la via. E non le interessava
ritrovarla.
Victoria
era malata, Victoria era folle - ma dopotutto, c’è
amore vero che non sia folle?
La
follia se l’era trascinata fino alla fine, lei.
Anche
Laurent era morto - il suo odore misto a puzza di cane, ecco
cos’aveva trovato nella foresta.
Ma
lei non avrebbe fallito.
Quella
era
la sua occasione.
Odore,
sentiva il suo odore - odore, altre
cinque insensate lettere - Isabella era vicina.
Victoria
aveva pianificato la morte di quella stupida umana attimo dopo attimo,
per saziarsi di vendetta e godere del dolore di lei, della disperazione
di lui - Edward.
Edward
avrebbe capito, in quel momento, quanto si trascinasse Victoria giorno
dopo giorno in un’interminabile esistenza vuota.
Lui
avrebbe capito.
E
lei ne avrebbe gioito.
Desiderava
urlare, Victoria, e onde evitare preferì scendere sotto la
scura superficie dell’oceano.
L’umana
era lì, sull’orlo dello spuntone di roccia.
Victoria
non perse tempo a chiedersi il motivo.
Se
avesse avuto un cuore funzionante, probabilmente le sarebbe scoppiato
nel petto in quel preciso istante.
Gustò
le sue cinque lettere ancora una volta - « James »
mormorò - e chiuse gli occhi.
Un
tuffo in lontananza. Inspirò, Victoria, proprio come faceva
lui.
Aprì
gli occhi e rise. Rise, prima di
iniziare a nuotare.
Una
fiamma rossa tra le onde.
(****)
Non
avrebbe sbagliato, no.
Ciò
che ha dato morte dovrà ricevere morte - morte.
M O R
T E.
Victoria
si stupì.
Eccole,
altre cinque splendide lettere.
Le
traduzioni spagnolo-italiano:
“Buongiorno,
signorina”
“Buongiorno”
“Posso sapere
come vi chiamate?”
“Victoria”
“Io sono
James”.
(*) "e James dilatò le narici per
un istante, respirandola" è una vaga ripresa
alla scena descritta in Twilight: James che "respira" Bella, l'inizio
della caccia del segugio.
(**) jueves sta per
giovedì.
(***) "tomba, ciò che a lei
non era concesso" be', un vampiro per morire deve essere
fatto a pezzi e bruciato. E non ci sarà alcuna tomba a
contenere le sue spoglie.
(****) "Una
fiamma rossa tra le onde." testualmente ripresa da New
Moon. Così è chiarito anche il tempo della
narrazione.
N/A
Di
Twilight mi piacciono le cose non dette, e la storia di Victoria
rientra tra queste.
Il
nome mi suonava spagnolo, e nella mia testa eravamo circa nel 1800.
Riporto i punteggi assegnati alla mia storia dalla Giudice, la citazione era "L'amore non è amore se non è follia" (Anonimo).
Totale: 54.5/60.
- Originalità: 9.5/10
- Grammatica: 9.5/10 → La giudice ha segnato come unico errore "Era divisa a metà: il suo buonsenso le urlava di divincolarsi, ma la sua sinistra non voleva saperne di staccarsi dal groviglio di capelli castani - a quella constatazione capì che doveva trattarsi d’un marinaio americano, poiché tutti gli inglesi erano biondi - il ventre d’esser sfiorato dalle dita di lui, le gambe di spostarsi, alzarsi, andare via.". Ho chiesto ai giudici del CoS e ad un paio di betareader, i quali mi hanno detto che la frase è sì un po' "particolare" e pesante, ma contestualizzata nel testo. Passo velocemente dalla forma attiva alla passiva all'impersonale, ma la frase è corretta.
- Forma: 9/10
- Caratterizzazione personaggi: 9.5/10
- Attinenza al tema: 7/10
- Gradimento personale: 10/10
Grazie a chiunque si fermerà qui a leggere, grazie anche a
chi, magari, mi lascerà il proprio parere.
Alla prossima :*
Kim.
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