Autrice:
AlexielFay
Fandom:
Katekyo Hitman Reborn
Personaggi:
Gokudera Hayato, Yamamoto Takeshi, Ryohei Sasagawa
Pairing:
8059 [YamamotoxGokudera]
Genere:
Introspettivo, Angst, Triste
Rating:
Arancione
Avvertimenti:
OneShot, Shounen-ai, Missing moment, Spoiler Future!Arc
Prompt:
Addio
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alla community:
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alla tessera:
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Goodbye
for now
“E’
ancora chiuso lì dentro?”
“Da
tre giorni, ormai.”
C’era
il profumo del tempo che stagnava immobile tra le pareti e scivolava
per inerzia lungo i visi grigi. Tutto sembrava più vecchio
nonostante quella sensazione di totale stasi, tutto sembrava sul
punto di collassare sotto il peso dei pochi secondi che avevano
mandato ogni cosa all’inferno, senza possibilità
di ritorno.
Yamamoto
Takeshi, gli occhi bassi, stringeva ancora la katana, come se da un
momento all’altro avesse dovuto usarla. Non aveva cercato di
negare
niente a se stesso, né la colpa, né
l’evidenza. Forse la sua
presa era così ferrea, ancora, solo perché era
l’unica cosa a cui
sentiva di doversi aggrappare per non cadere. Erano tutti fin troppo
deboli, in quel momento, per potersi aggrappare l’uno
all’altro.
Erano tutti caduti in un torrente di oppressione e dolore, affogando
nella debolezza del momento. Nessuno voleva chiedere aiuto a nessuno.
Il tempo dell’egoismo si era ingiallito insieme alle foglie
cadute.
La tristezza di quell’autunno aveva seccato ogni richiesta di
aiuto, eppure Takeshi sentiva che tutto era sbagliato. Sentiva che
lui, ora non più insieme a loro, non
avrebbe voluto tutto
quello.
“Dobbiamo
parlargli! Prenderlo a pugni, se serve.” la voce di Ryohei
suonò
risoluta, come sempre, ma c’era qualcosa di diverso. Un
tremore che
si notò solo nel silenzio del dolore che li accomunava. Era
una nota
stonata, che vibrava e rendeva sbagliata ogni cosa. Perché
non
avrebbe dovuto essere così. Non avrebbero dovuto essere
lì, seduti
in una stanza vuota e misera, nella consapevolezza che...
“Crede
di essere l’unico a soffrire, che sia colpa sua. Un pugno gli
farebbe solo piacere.” replicò Yamamoto.
“E assecondarlo sarebbe
come dirgli di suicidarsi.”
Anche
se lo sapeva. Hayato aspettava solo lui, aspettava che abbandonasse
quell’atteggiamento da bravo ragazzo, sempre pronto a
perdonare e
sorridere, e lo pestasse a sangue. Lo sapeva che lo stava aspettando.
L’umiliazione che aveva dovuto sopportare era diventata una
valanga, ora ne esigeva altra, perché sentiva di meritarla.
Dannato
idiota...
“E
allora cosa dobbiamo fare? Lasciarlo lì?” Ryohei
batté un pugno
sul tavolo, facendolo tremare. La tazza di tè che Fuuta
aveva
poggiato lì si rovesciò e rivoli
d’ambra macchiarono la tovaglia,
scivolando via, come scuse silenziose, come lamenti bagnati, come
sussurri caldi. Quando la prima goccia toccò il pavimento,
Yamamoto
si alzò in piedi.
“Gli
parlerò.”
Se
fosse stato un giorno come un altro, avrebbe trovato Hayato seduto
alla scrivania, impegnato a lavorare, gli occhiali sul naso e
l’espressione concentrata. C’erano volte in cui non
lo sentiva
neanche arrivare e allora Yamamoto ne approfittava, sorprendendolo
alle spalle e sorridendo prima di sfiorargli un orecchio con la punta
del naso, in una carezza, e poi con le labbra, in un bacio leggero.
Era divertente osservare la reazione scombinata di Hayato e poi
schivare il colpo che arrivava, come sempre, violento e a caso.
Diventava troppo nervoso quando gli si avvicinava in quel modo,
perciò ogni proposito di ucciderlo svaniva e si ritrovava
semplicemente a fissarlo con gli occhi luccicanti di imbarazzo e le
guance rosse. Ce ne voleva sempre di tempo prima che lo lasciasse
avvicinarsi ancora. Ma cedeva, alla fine, perché neanche lui
poteva
controllare i suoi desideri e, nel momento in cui venivano a
coincidere con quelli del compagno, era inevitabile assecondarlo.
Yamamoto
fermò la memoria, richiuse quei ricordi sereni e,
più avanti,
eccitanti, e si richiuse la porta alle spalle. Gokudera non era alla
scrivania, non stava lavorando e non portava gli occhiali. Era
semplicemente seduto su una sedia, la giacca nera poggiata allo
schienale e i gomiti sulle ginocchia. Con le mani si teneva la testa
e le dita attraversavano come aratri i capelli chiari. Non lo
apostrofò in alcun modo, ma dopo qualche secondo
sospirò e alzò il
capo. Yamamoto capì subito i suoi occhi, lo stato in cui
erano. Ad
alcuni, a quelli che non lo conoscevano, sarebbe sembrato che stesse
cercando in tutti i modi di trattenere le lacrime, definendo il
perché di quella patina lucida. Ma Yamamoto
riuscì a vedere anche
le tracce rosse, capendo che il pianto c’era già
stato.
Restò
ancora in silenzio, zittito prima ancora di parlare dallo sguardo di
Hayato. Il silenzio aveva qualcosa di innaturale; non era né
imbarazzato né lieve e piacevole come quello che calava
nelle
giornate estive, quando la calura diventava talmente insopportabile
che entrambi crollavano sul pavimento, magari con un ventilatore
accanto e una ciotola di ciliegie dall’altro lato. Era un
silenzio
che si stava spezzando, che sorreggeva a malapena i loro respiri
trattenuti e le parole in attesa di essere pronunciate o urlate.
Schiacciava loro i polmoni e si piantava sulle orecchie come tappi
incandescenti. Entrambi avevano bisogno di sentire la voce
l’uno
dell’altro. Così tanto che sarebbe bastato anche
solo un respiro
sulle labbra a mandare via quella sensazione.
Hayato
si alzò, senza dire una parola. Chiedergli come stava
sarebbe stato
stupido. Chiedergli come avrebbe voluto affrontare la cosa sarebbe
stato un suicidio.
“Abbiamo
bisogno di te.” disse semplicemente Takeshi. Vide Hayato
stringere
un pugno e notò la terra che sporcava la camicia bianca.
Doveva
essere stato da qualche parte e non doveva essere stato un momento da
ricordare o a cui assistere. Eppure, Takeshi sentiva che avrebbe
volentieri assistito al suo inferno, mille e più volte, pur
di
poterlo avere vicino e condividere la sofferenza. Se prima era
difficile avvicinarsi a lui e sfiorarlo, ora era quasi impossibile.
“Come
ne avete avuto quando...” la voce gli si spezzò.
Non era neanche
pronto ad ammettere la realtà, non era neanche pronto a
ferire se
stesso con la colpa che credeva di avere. L’immagine del
corpo del
Decimo che crollava, gli occhi spalancati per un attimo e le labbra
dischiuse in un ultimo respiro o forse in una parola che loro non
avevano potuto sentire, lo assillava a ogni ora.
“Non
è stata colpa tua, Gokudera.” replicò
Yamamoto, calmo. “Il
nemico era più forte di noi.”
L’altro
si limitò a guardarlo con un’espressione
indecifrabile, che
avrebbe fatto retrocedere chiunque, ma non lui. Yamamoto conosceva
ogni angolo del suo volto, ogni lato in ombra, ogni lembo di pelle. I
suoi occhi avrebbe potuto riconoscerli anche voltato. Gli bastava che
Hayato lo guardasse e lui sapeva che era lì e anche senza
voltarsi
poteva dire che espressione avesse. Non era magia, era solo che lui
era stato il primo a vederlo piangere davvero. Era stato il primo a
stringerlo tra le braccia mentre gli si aggrappava alle spalle e
sospirava di piacere solo per lui. Era stato il primo per tante cose.
“Perché
sei qui?” tagliò corto Gokudera. Sapeva bene che
non avrebbe
parlato, che non gli avrebbe confidato nulla e che piuttosto si
sarebbe impiccato, ma il dolore l’avrebbe tenuto per
sé.
“Te
l’ho detto. Abbiamo bisogno di te.”
“Io
no.” pronunciò quelle due sillabe e sembrarono due
proiettili
sparati a distanza talmente ravvicinata che il cuore di Takeshi
esplose in un lampo di dolore che si estese dal petto al resto del
corpo in un secondo. In un secondo visse la morte e la discesa
all’inferno.
“Bugiardo.”
disse comunque. Poteva anche essere una bugia quella che aveva detto,
ma il modo in cui gli aveva sparato contro quel sentimento superava
di gran lunga la distinzione tra verità e bugia. Andava a
finire in
un altro campo: non della compassione e neanche del lutto che non si
può superare. Sfociava dove nessuno vuole essere aiutato,
dove la
salvezza brucia e non chiede aiuto. Sfociava nell’addio.
“Pensala
come vuoi.”
“Vuoi
andare via?” chiese Takeshi. Era quello che gli occhi di
Gokudera
dicevano.
“Voglio
finire quello che abbiamo iniziato.” uccidere Irie Shouichi.
Vendicare Tsuna.
Avrebbe
solo guadagnato un cuore nero e pieno di rancore se l’avesse
fatto
in quel modo. Avrebbe perso tutto ciò che aveva e
probabilmente
anche la vita. A quel punto, Yamamoto smise di chiedersi cosa era
possibile fare quando si trattava di Gokudera.
“Non
andrai.”
“Non
dirmi cosa fare.”
Forse
quella era l’unica mossa che l’avrebbe fermato
ancora per un po’.
Anche solo per picchiarlo, farlo sanguinare, vederlo al suolo
ricoperto di umiliazione e ferite.
“Tsuna
non te lo perdonerebbe mai.” e nemmeno io.
Ma non aggiunse
quell’ultima frase, perché sapeva che i pensieri
di Gokudera in
quel momento erano rivolti solo a Tsuna. Ogni terminazione nervosa
bruciava per lui e se stava in piedi era perché il dolore
della
perdita lo rendeva la bestia che c’era dentro di lui.
“Infangherai
la sua memoria in questo modo.”
Quelle
parole ebbero l’effetto di una cannonata. Gokudera gli fu
addosso
in una frazione di secondo, affannato e rosso in viso. Era animato da
una forza che si esauriva subito, esplodeva come un temporale estivo
e durava giusto il tempo di amplificare ogni sensazione, anche il
dolore, al massimo, per poi crollare. I loro visi di nuovo
così
vicini, separati da sentimenti innumerevoli, risvegliarono il
passato. Quando Gokudera gli si era gettato contro, Yamamoto gli
aveva avvolto un braccio intorno alla vita e aveva fermato il suo
pugno con una mano. Era come se avesse fermato una delle sue palle da
baseball con il guantone. Tutto questo senza mai smettere di
guardarlo.
“Gokudera...”
sussurrò. Era fredda la sua schiena e la mano di Yamamoto
aveva
perso il calore che solitamente sentiva sulla pelle. Gli sembrava di
andare a fuoco quelle volte.
Il
Guardiano della Tempesta, gli occhi incastrati nello sguardo intenso
e serio di Yamamoto, sentiva tremare il pugno nella mano di
quest’ultimo. Sentiva il cuore battere e quello di Yamamoto
soffrire in un rantolo soffocato, quasi inudibile. Quel modo in cui
aveva affrontato tutto, con una calma distrutta solo raramente da
sguardi increduli e pieni di dolore, era solo una maschera. Dentro,
lui, si sentiva morire come chiunque altro. E mentre il cuore di
Hayato continuava a battere furiosamente, urlando contro quello
sofferente e debole dell’altro, un respiro smosse il
silenzio.
Era
ancora lì il sapore di Yamamoto, sulle sue labbra.
“Abbiamo
bisogno di te, Gokudera.” ripeté il Guardiano
della Pioggia,
allentando la presa sul pugno di Hayato. Questi, approfittando di
quella debolezza, gli strinse il polso e con pochi passi rabbiosi
raggiunse una parete e vi sbatté contro Yamamoto.
“Non
sei il Boss, non puoi parlare a nome di tutti.”
urlò, sbattendo
l’altra mano contro il muro, in corrispondenza del viso di
Takeshi.
Sul
volto di quest’ultimo passò ogni tipo di emozione,
ogni emozione
capace di prosciugare l’anima, ma furono le sue parole a
costringere Gokudera a crollare definitivamente.
“Ho
bisogno di te.” perché anche un sorriso ha bisogno
di essere
guardato per risorgere.
Quattro
parole a cui seguirono delle semplici mosse. La mano contro il muro
che si spostava e afferrava la nuca di Yamamoto, urgente, e i visi
che si scontravano in un bacio di disperazione. E poi, dove non
c’era
altro che l’oblio, l’unione della sofferenza e il
silenzio
frantumato. Senza saperlo, si stavano temporaneamente dicendo addio.
Quella
era stata l’ultima volta che Yamamoto Takeshi aveva visto il
Gokudera della propria epoca.
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