'I
won't
give up
I'm possessed by her
Break this bittersweet spell on me
lost in the arms of destiny
I'm wearing a cross
she's turning to my good.'
«Ohddiotipregono.
Non di nuovo. Non
questa musica straziante.»
C’era
un motivo per cui le
chilometriche ciglia di Bill Kaulitz si erano erse in uno sguardo di
pura
indignazione. Odiava essere rattristato di prima mattina, e la canzone
‘Bittersweet’ puntualmente rientrava in quel vasto
rango di cose che lo
rattristavano. Oltre al metal sinfonico, Bill odiava la cipria compatta
che si
rompeva, la pioggia che gli rovinava i capelli e le truccatrici
distratte che
truccavano i suoi magnifici occhi come se fossero quelli di un panda.
Ma
il metal sinfonico, o
qualsiasi cosa implicasse urli strazianti e violini e uomini virili
dalla voce
profondamente disperata, gli dava veramente, ma veramente fastidio.
Il
fidato gemello non contribuì
affatto alla conversazione, preferendo auto confinarsi in uno stolido
silenzio.
Sguardo vacuo e succo di frutta in mano, i due neuroni che giocavano a
nascondino nel suo cervello, decisamente bravi a nascondersi.
Bill
pensò bene di rivolgersi
all’unica altra forma di vita presente al momento nella
stanza: Georg.
«Hagen,
ti prego, fa qualcosa. Qualsiasi cosa, basta che non si permetta
più a Gustav
di ascoltare musica del genere di prima mattina.»
Georg
preferì stropicciarsi gli
occhi, prendere il primo pretzel che gli capitò sottomano e
uscire senza troppe
parole dalla stanza, seguito a ruota da Tom.
Pochi
minuti dopo la musica
cessò.
Bill
si accoccolò meglio nella
poltrona, rallegrandosi per il suo successo.
Salvo poi sentire il gelido silenzio della stanza
penetrargli nelle
ossa. Piuttosto che concentrarsi sul sentimento che gli agitava lo
stomaco –
qualcosa stranamente simile al senso di colpa –
afferrò la prima rivista che
gli capitò sottomano e si dedicò alle sfilate di
Madrid.
Ma
quel freddo rimaneva, strano e
appiccicoso, il sapore del trionfo che si trasformava in qualcosa di
acido in
bocca, proprio là, sotto la lingua.
Si
rese conto di aver bisogno di
una scusa, di una qualsiasi scusa, per non dover dare troppo peso a
quello che
aveva fatto. Era stato un po’ acido, ma quello era sempre
stato così, tutte le
mattine un capriccio da togliersi.
La
porta che si apriva lo
distrasse da se stesso. Aspettandosi un Gustav rannuvolato, fu
piuttosto
sorpreso dal veder arrivare la tecnica del suono di
quest’ultimo, Dorcas. Era
splendida quel mattino, nella misura in cui può essere
splendida una ragazza
dai rasta bianchi, afflitta dall’insonnia e
dall’iperattività, un braccio
completamente tatuato e i vestiti una via di mezzo tra
l’hippy e il metal con
qualche trina e merletto di troppo. Era splendida, almeno secondo Bill,
ma gli
occhi blu erano opachi per la mancanza di sonno, e il viola delle
occhiaie le
donava in un modo malsano.
«Hai
dormito almeno stanotte, Dodò?»
La
ragazza storse il naso al
sentire il soprannome, senza prendersela più di troppo. Il
suo impiego non
sarebbe durato tutti quegli anni se incluso nel pacchetto non ci fosse
stato
anche il frontman dei Tokio Hotel, oltre che il batterista.
«No,
Bill. Non più del solito da quando siamo arrivati in Europa.
Il che fanno due
ore e mezza a notte.»
«Mi
chiedo come fai a tirare avanti poi per tutto il resto della giornata.
Non
credo di averti mai visto schiacciare un pisolino neppure nei viaggi in
tourbus.»
«Non
mi puoi vedere perché quello che dorme in bus sei tu,
Kaulitz.» Sorrise lei,
afferrando ciò che rimaneva della colazione della band. Bill
le rispose a sua
volta, osservando come il silenzio, da quando lei era entrata nella
stanza, era
meno minaccioso. Stava quasi per intavolare la prima conversazione
amichevole
della giornata quando la porta, lasciata socchiusa
dall’uscita di Georg, si
spalancò. Gustav entrò divorando la distanza tra
la porta e i divanetti con
grandi falcate e imprecazioni del tipo più colorito,
bloccandosi a poca
distanza da Bill e Dorcas, quest’ultima che sembrava evitare
il suo sguardo con
una notevole dose di determinazione. Gustav ignorò lo
sguardo infastidito di
Bill per concentrarsi sulla sua tecnica del suono. Mani sui fianchi,
felpa
sportiva e jeans generosamente concessi al rigore
dell’inverno svedese, la sua
espressione rilassata contrastava con il livore dello sguardo, mentre
sembrava
perforare la tensione che aleggiava nell’aria tra lui e
Dorcas.
«Ho
bisogno di te, Schrëder. Ora.»
I felt a little fear
upon my back
He said "Don't look back, just keep on walking."
When the big black horse said, "Look this way, will you marry
me?"
I said no, you're
not the one for me
A
dispetto del tono pacato e dal
contenuto della frase, c’era un che d’imperativo
nel messaggio. Chiunque
conosceva l‘ora’ di Gustav: non era capriccioso
come quello di Bill, non era
infantile come Tom, non era indifferente come Georg. Se Gustav diceva
‘ora’,
ora doveva essere, perché qualcosa d’importante
era in ballo.
Ma
era anche vero che della crew Dorcas
era la più coriacea, capace di resistere ai
‘Quattro dell’Apocalisse’ anche in
dosi elevate. Quindi si limitò a un semplice sguardo
obliquo, continuando a
sgranocchiare imperterrita.
«Magari
se glielo chiedi per favore…» Bill si nascose
parzialmente dietro la rivista,
primo, perché voleva sembrare del tutto indifferente,
secondo perché voleva
evitare lo sguardo infuriato di Gustav. Quest’ultimo, capendo
che la sua
tecnica del suono preferita, il suo braccio destro, conoscitrice di
tutti i
punti deboli delle sue batterie, avesse bisogno di essere smossa con
metodi più
raffinati, tese le mani verso di lei.
«Avrei
bisogno che mi fasciassi le dita con le garze, di nuovo. Al contrario
di quelle
del medico, le tue mi proteggono veramente dita. E, come puoi vedere,
in questo
momento ho i calli in condizioni pietose.»
Tre
frasi complete di prima
mattina? Decisamente il ragazzo si era superato, si ritrovò
a pensare Bill. E
il tutto in onore di Dorcas. Wow.
Riluttante,
la ragazza si alzò
con un gran frusciare di gonne, prendendo le mani di Gustav tra le sue,
più
piccole e cariche di anelli. Il silenzio calò come una
cortina di velluto sulla
stanza, spesso e rosso. Spesso per la tensione che saturava
l’aria, si ritrovò
a pensare Bill, trattenendo il fiato per non perdersi un solo sguardo,
un solo
gesto. Gli piacevano quei due insieme.
You
got me wrapped
around your little finger
If this is Love,
it's everything i hoped it would be
You got me
wrapped around your little finger
If this is Love,
It's everything that i've been dreaming of
Gli
piaceva come Gustav scrutava
ogni minimo particolare di Dorcas, dal viso dalla sciarpa drappeggiata
sul
collo bianco. Gli piaceva come lei subisse quest’attenzione
rifiutandosi di
ricambiare lo sguardo, volteggiando sul palmo delle sue dita alla
ricerca del
miglior modo per prendersi cura di lui. Bill sapeva che lei avrebbe
stretto le
bende un po’ più del dovuto, e sapeva anche che
lui avrebbe accettato senza
fiatare. Rosso per la tensione che c’era tra i due, di quella
che crepita tra
un uomo e una donna che lavorano gomito a gomito la maggior parte della
giornata, che devono il proprio successo l’uno
all’altra, che si conoscono
meglio di quanto si possa credere e che, a fine giornata, si sento
frustrati da
quella pacca sulla spalla che sarebbe potuto essere qualcosa di
più.
Sì,
Bill sapeva benissimo cosa
stava succedendo, e così più o meno chiunque del
loro piccolo mondo. Tom era
d’accordo, Georg non vedeva l’ora, i produttori
preferivano ignorare.
Senza
smettere di tastare le mani
di Gustav, continuando a non guardarlo con rabbiosa dedizione, Dorcas
si
rivolse a Bill, in un tono apparentemente svagato.
«Kaulitz,
prenderesti delle bende? Björk saprà dartene un
rotolo.»
Trasmissione
sottotitolata per
chiunque fosse in ascolto: ‘fuori dalle palle, abbiamo
litigato e dobbiamo
discuterne.’
Bill
preferì obbedire senza
protestare, rattristato dall’idea di perdersi lo spettacolo
ma consapevole che
un Gustav che ringhia non è pericoloso tanto quanto una
Dorcas cortese.
Quando
la porta si chiuse alle
spalle di un cantante particolarmente solerte, il tocco della ragazza
si
trasformò in una stretta ferrea, gli occhi blu che
lampeggiavano finalmente in
contatto con quelli di Gustav.
«Non
sfogare la tua cazzo di aggressività nei confronti di
nessuno, Schäfer.»
«E
tu non fare la fottuta supereroina insensibile,
Schröder.»
Dorcas
sentì l’aria vicino alle
sue guance ribollire a temperature sconosciute alla scala Celsius,
mentre quei
dannatissimi occhi castani la scrutavano con
un’intensità fin troppo
consapevole di quello che vi avrebbero trovato.
«Cosa
era, questa volta? Il braccio? O l’insonnia pura e
dura?»
Lei
masticò un’imprecazione o
due, ma senza dargli la soddisfazione d’insultarlo
apertamente, preferendo
scostarsi da lui bruscamente. Se non fosse stato per il fatto che ora
era lui,
quello che la teneva stretta.
«L’insonnia.
Non dormo, e no, Gustav, non prenderò medicine. Sai che le
odio.»
Lui
sembrò per un attimo ancora
discretamente irritato, l’espressione crucciata spazzata via
dall’uso del nome
proprio da parte di lei. Una tacita ammissione di debolezza, lo
avvertì il suo
sguardo severo, solo perché lui sapeva troppe cose sul suo
conto per
potergliene nascondere altre.
«Non
puoi continuare a fare questi orari, sono ormai tre giorni che ti
riporto in camera
stremata.» Troncò la frase in una maniera
sospetta, consapevole di stare per
dire a voce alta un segreto che entrambi condividevano come un peccato
capitale, e che Dorcas non si sarebbe lasciata sfuggire neppure sotto
tortura.
Era
difficile decidere se odiarla
o provare un’infinita tenerezza per lei, in quei momenti. Lei
e la sua piega
amara delle labbra, il mento morbido e gli occhi troppo grandi per quel
visetto.
Occhi
che si contrassero in
un’espressione che prometteva guerra.
«Ah,
ora ti da fastidio? Non sembravi così scocciato,
poi…»
Il
suo sguardo scettico la
indusse a sputare il resto della frase che cercava di trattenere a
forza tra le
labbra.
«Poi,
quando dopo due ore d’incubi prendevo il telefono, ti facevo
uno squillo, e
venivo in camera tua e trovavo la porta socchiusa, tu che facevi finta
di
dormire e metà del letto per me.»
Era
stata tentata di
interrompersi in vari punti critici nel corso della frase ma Dorcas era
una
ragazza decisa e sincera, odiava le agonie ma non sopportava le sue
agonizzanti
debolezze. Il punto finale sembrò risucchiare tutto
l’ossigeno che le rimaneva
nei polmoni, lasciandola sbigottita per come il silenzio distorceva il
significato delle sue parole e come e cosa lui avrebbe potuto
rispondere.
Il
fatto che lui la guardasse con
uno sguardo tranquillo e le tenesse le mani strettamente tra le sue
sembrò
aiutare i suoi nervi a calmarsi.
«Non
è mai stato un disturbo, non è mai stato niente
di più che due amici che
dormono insieme perfettamente vestiti e, soprattutto, è una
cosa tra me e te.»
«È
stato solo per le date statunitensi. Non voglio disturbarti anche in
Europa,
non voglio pensare a cosa la gente penserebbe ‘se’,
e non voglio dipendere dalla
tua soporifera presenza.»
E
voglio smetterla di sentire la parola
‘amica’ nella stessa frase dove
c’è anche il mio nome, si ritrovò a
pensare
Dorcas. Gustav si limitò a sollevare un sopracciglio,
facendole perdere un
battito. O forse due. Spero solo di non svenirgli drammaticamente tra
le
braccia, si ritrovò a pregare con fervore. Ma una vocetta
nella sua testa le
fece notare quanto, in realtà le sarebbe piaciuto sentirsi
stringere forte,
respirare quel profumo di
‘felpa-del-suo-batterista’, e perdere ancora di
più i
sensi.
«Grazie
per il complimento, Dorcas, è bello essere considerati
‘soporiferi’.» Nella sua
bocca, il suo nome sembra molto più imbarazzante di uno
svenevole soprannome
quale Dodò. Cercò di mascherare il suo imbarazzo
con un sorrisino malizioso,
cui Gustav rispose con una scrollata di spalle e un sorriso
così luminoso da
indurla a chiedersi se primo, fosse legale, secondo, cosa dovesse aver
fatto
una notte di parecchi anni fa Mamma Schäfer per produrre
siffatto pargolo,
terzo, se il suo cuore avesse retto o, senza accorgersene, le porte del
Paradiso le si stavano spalancando davanti. Sempre se di Paradiso si
trattava.
Con lui, anche il Purgatorio e l’Inferno sarebbero state roba
da scampagnata
estiva.
In
ogni caso il silenzio che
aleggiava nella sala, per l’ennesima volta, era talmente
assordante da farle
fischiare le orecchie.
Your […] eyes
watching
every move I make.
And that feeling of doubt, it's erased.
I'll never feel
alone again with you by my side.
You're the one,
and in you I confide.
Era
una magnifica mattinata
invernale, lì in Svezia, e Benjamin si sentiva rinvigorito
dall’aria fredda e
cristallina mentre sistemava gli ultimi preparativi prima ti partire
alla volta
della prossima tappa. Aveva dato direttive ai camion con le
attrezzature e il
palco, aiutato il catering con gli ordini, salutato Bill e Tom sul loro
tourbus. Rimaneva solo da dare il via. Uscendo dalla hall
dell’albergo, fu
sorpreso di trovare Gustav con una sacca in mano e un sorrisetto
soddisfatto.
«Uno
Schäfer allegro di prima mattina?» Chiese, con fare
curioso. Il ragazzo gli
rispose con un leggero scrollare di spalle.
«Hai
visto Dorcas, per caso? »
«Certo,
è sull’autobus con gli altri produttori.»
Benjamin,
distratto dalle sue
priorità, non fece caso né al tono compito della
risposta né alla fretta di
Gustav per andarsene. Con un ‘hummm’ svagato, si
diresse verso la sua missione
privata: salvare il tour e procacciarsi un caffè decente.
Jutta
era preoccupata. Dorcas le
aveva chiesto espressamente il favore di prepararle un qualcosa per
rilassarsi,
ma dopo aver compilato gli ordini per la cena di quella sera non aveva
avuto
modo di darle il thermos con il suo infuso di valeriana e camomilla
silvestre,
zuccherato con miele. Tutti quella mattina sembravano avere troppa
fretta di
partire, ma Jutta e il suo istinto materno non se la sentivano di
deludere
quella delizia di ragazza. Incredibilmente il cielo decise di mandarle
un
segno: Gustav Schäfer con un sorriso sulle labbra. Jutta era
ormai giunta a una
conclusione: dove era lui a pochi metri trovava lei e viceversa, e
finora
questa legge universale non aveva trovato eccezioni che tenessero.
«Jutta?»
Si limitò a chiedere lui, curioso, al suo saluto preoccupato.
«Ti
prego, consegna questo a Dorcas da parte
mia, e dille che mi dispiace se non l’ho potuto preparare
prima! A proposito,
sai dov’è?»
«Oh,
sarà con quelli del palco, sai com’è,
problemi di cavi.»
«Certo,
certo.»
Rispose lei prima di
scappare via, preoccupata
all’idea delle torte salate che avrebbe dovuto preparare per
tutti quella sera.
«Gustavino?»
«Bill.»
Gustav sobbalzò sorpreso, un piede sulla soglia del tourbus
suo e di Georg,
sacca in spalla e thermos in mano.
«Tranquillo,
non voglio sapere dov’è Dorcas. Dille
semplicemente che dopo può sgattaiolare
sull’auto di Tom, l’ho già
avvertito.»
Annuirono
entrambi, consapevoli
di avere un segreto e un’evidente tenerezza in comune per
quel tappo di tecnico
che si ritrovavano.
Bill
inarcò il sopracciglio,
allontanandosi fischiettando. Gustav si limitò a salire,
chiedere la porta,
salutare Georg al posto di guida con una pacca sulle spalle e salire i
gradini
a due a due, mentre il bus si metteva in moto.
Arrivato
al secondo piano lanciò
la sacca con gesto noncurante sul letto di Georg, poggiando poi il
thermos sul
tavolino di fronte a una Dorcas che, distratta, guardava fuori dal
finestrino.
Lei ricambiò il suo sguardo con una nota titubante negli
occhi. Lui sorrise,
cercando di rassicurarla.
«Da
parte di Jutta, con le sue scuse per il ritardo.» Il suo
sorriso si allargò
ancora di più nel sentire il sospiro di sollievo di lei,
mentre le sue dita
sottili afferravano con aria bramosa il tappo, osservando la sua gola
bianca
che deglutiva a grandi sorsate, le labbra rosse, rosse e con un
piercing al
centro del labbro inferiore, che luccicavano invitanti dopo aver bevuto.
Abbracciò
il thermos come se
fosse stata la sua unica ancora di salvezza in un mondo cattivo e
impietoso, un
gesto che provocava un istantaneo sussulto di tenerezza che a dura pena
poteva
essere soffocato. Ma che anche quella volta, lui riuscì a
mascherare con la
dovuta bravura, cercando di vedere realmente il paesaggio che scorreva
fuori
dal finestrino.
Sentì
un sospiro rassegnato, poi
il rumore di un oggetto che veniva spostato. Non sussultò
quando delle dita
iniziarono a sfarfallare delicatamente sulle sue mani fasciate,
allentando qui
e lì, massaggiando i polpastrelli stretti fino a quel
momento in garze troppo
strette. Gustav sentì come il suo sangue riprendeva a fluire
normalmente, e fu
con una fitta di rimpianto che vide la sagoma di Dorcas alzarsi. Forse
scenderà
a parlare con Georg, si ritrovò a pensare con una punta di
gelosia
ingiustificata. O forse si sarebbe limitata a stare lontana da lui
tutto il
tempo.
Fear is not afraid of
you
But guilt's a language you can understand
I cannot explain to you
And anything I say or do
I hope the actions speak the words they can
Il
sentire il tonfo delle sue
scarpe sulla moquette del pavimento lo sorprese, ma in una maniera
piacevole,
come quando ascolti una canzone legata a ricordi importanti o un giorno
che si
prospettava pieno d’impegni si rivela una lunga giornata di
riposo.
Non
ci fu bisogno né di parole,
né di sguardi. Era il loro segreto, il regno
dell’azzardo, i movimenti
calcolati e pieni di speranza di una partita a scacchi giocata su
terreni pieni
di trappole. Entrambi
sapevano cosa
sarebbe successo, sapevano che nessuno di loro se ne sarebbe vantato
con nessuno,
sapevano che quell’angolo di silenzio era breve e fragile e
dipendeva
dall’abbassarsi della guardia di lei, permettendogli di
proteggerla, almeno con
il suo silenzio. Mentre la osservava raggomitolarsi sotto le coperte,
perfettamente vestita, si chiese quanta distanza esatta di fosse tra la
sua
pelle e quella di lei. Peggio, si chiese perché non avessero
già percorso
quella distanza, e si rese conto che, se mai sarebbe successo, sarebbe
stato
una di quelle persone che possono dire di aver toccato il cielo con un
dito.
Ma
non era quello il giorno, si
disse mentre si sedeva sulle coperte e accendeva l’I-Pod con
un gesto
distratto. Una cuffia su, l’altra a penzolare liberamente sul
cuscino, osservò
attentamente la sua tecnica del suo chiudere gli occhi con un gesto
stanco e
sollevato insieme. Era una via di mezzo tra un segnale e una richiesta,
che
Gustav accolse volentieri: alzò una mano e, con il tocco
più delicato che gli
fosse possibile, iniziò ad accarezzarle i capelli,
indugiando tra un rasta e un
ricciolo bianco. Un intenso odore di cannella lo avvolse in un bozzolo
separato
dalla realtà, ignorando la musica, i propri pensieri, il
respiro tranquillo e
leggero di lei che occasionalmente gli accarezzava la pelle, il rosso
invitante
delle labbra socchiuse.
Un
sentimento di angoscia gli
spalancò per un eterno secondo il petto, quando si rese
conto che forse non
avrebbe potuto chiedere di più per molti, molti lunghi
giorni insonni.
Forse
non ci sarebbe stato mai
nulla e forse avrebbero fatto l’amore quella sera stessa,
forse avrebbero
aspettato di avere il coraggio di parlare a voce alta e forse non
avrebbero
fatto altro che continuare a rincorrersi per sempre, forse questo e
forse
quello, e forse un altro uomo, e forse la pazienza e la tenacia
sarebbero state
ricompensate solo da un ‘no’ colpevole, forse erano
amici e forse erano l’uno la
frustrazione dell’altra.
Non
sapeva cosa aspettarsi, non
sapeva neppure se dovesse aspettarsi un qualcosa di reale da tutto
questo
casino che, al solo pensarci, lo faceva soffocare.
You've become a piece
of me
Makes me sick to even think
Of mornings waking up alone
Searching for you in my sheets
Don't fade, away
Ma
poi l’angoscia passò, come
passava sempre. Bastava che lei continuasse a fare le fusa sotto le sue
carezze, che si raggomitolasse più strettamente a lui, che
strofinasse il naso
contro la sua felpa.
Allora
anche lui poteva chiudere
gli occhi e, lasciandosi cullare dal rollio dell’autobus,
riuscire a ripetersi
che era meglio lasciar maturare le cose per l’ennesima volta,
prima di
addormentarsi con il viso immerso nei suoi capelli.
_#_
Dedicato
a quella sera a St. James Park, al
terzo lato del Duomo (con annesso McDonal vegetariano inesistente), a
mille incoraggiamenti nonostante la mia autostima vacillante, a una di
cui non mi sono dimenticata e che mi ha spiegato cosa c'è
dietro una moneta da due centesimi, a quelli con cui non mi sento
più e a quelli che vorrei sentire ma che continuo a pensare.
Anche a quello che ho dimenticato, ma che comunque ci sono stati.
One-shot di rodaggio per riprendere in mano quei due
masochisti, cercando di evitare frasi svenevoli e metafore
mirabolanti, costituisce anche che un tentativo dedicato alla
narrazione in terza persona.
A voi il giudizio. E sappiate che ci tengo ad averlo, e anche
parecchio.
P.S: Le
canzoni sparse per la one-shot sono tanto di ispirazione quanto di
riassunto, ma non so se per questo possa essere classificata come
song-fic melensa. Fatemi sapere in caso.
In ordine di citazione:
'Bittersweet'
Apocalyptica & Him & The Rasmus;
'The Black Horse
& the Cherry Tree' K.T. Tunstall;
'You've got me wrapped
around your little finger' Beth Rowley;
'Warmness on the soul'
Avenged Sevenfold;
'In between'
Linkin Park;
'This Love'
The Veronicas;
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