“[…] Dum loquimur, fugerit invida
aetas..."
"Mentre che noi parliamo, il tempo invidioso sarà
già fuggito..."
Orazio, ode I,11
“La verità è luce […]. Già, ma una luce accussì forte
non avrebbe potuto bruciare, ardere proprio quello che doveva solamente
illuminare? Meglio lasciare lo scuro del sonno e della
memoria.”
A.Camilleri, Meglio lo scuro
Il tempo passa, e tu dormi.
Nessuna luce batte sul dolce contrasto del tuo viso sul
mio cuscino, del colore della tua pelle in mezzo al bianco perfetto e immobile
delle lenzuola, ma non ne ho bisogno. Perché da quando ci sei tu, per me non
esiste più il buio.
Sento, morbidamente, esattamente avverto dove sono le
tue labbra, il gioco delle vene in trasparenza sotto la tua pelle, potrei
disegnare, cieca, nell’ombra, uno per uno i tuoi tratti, i tuoi capelli
disordinati nella notte.
Sento, perennemente sento i passi dell’orologio
inseguirsi tra le pareti della stanza, ma se mi concentro, posso ascoltare anche
il tuo respiro, indovinare il suo ritmo nel tuo petto. E conto, conto ognuno di
questi respiri, nell’infantile paura di sentirli fermarsi, per assaporare la
rassicurazione della loro infinita costanza, di una canzone che sembra dover
durare per sempre.
Battere, levare. La tua vita non va a ritmo
dell’orologio. Il soffio della tua essenza ora si calma, ora s’infittisce,
–chissà cosa stai sognando- ora s’interrompe per la sospensione di un istante,
trattengo il fiato anch’io, e poi torna a fluire, e io torno ad
esistere.
Ed è questa imperfezione che noi chiamiamo
vita.
Il tuo respiro è un tempo nuovo, un altro tempo. Posso
sentire solo questo passo?
Posso esistere solo in questo tempo?
Forse è vero che il tempo scorre solo per noi. Nostre
sono le stagioni, quando gli alberi e l’erba magari non si curano di quante
siano, semplicemente le attraversano con la loro esistenza. Nostri sono i giorni
dell’anno, i tempi di rotazione e rivoluzione di pianeti indifferenti, le
dodici, ventiquattro cifre sull’orologio, sessanta minuti in un’ora, sessanta
secondi in un minuto, i numeri appuntati nell’angolo di uno spartito che non
sanno dire niente del nostro appuntamento, che non sono le tue braccia, le tue
mani, la tua voce, ma senza i quali non riusciremmo ad incontrarci.
Il tempo è nostro.
Il più splendido e terribile
dei doni.
E noi lo abbiamo definito, numerato, con l’illusione di
poterlo afferrare, di poter fermare una microscopica onda di quel fiume per
guardarla in faccia prima di abbandonarla di nuovo alla sua corsa. Ma non è
vero. Se osservo lo scivolare immutabile delle lancette sul quadrante, se vedo
un quattro sciogliersi in un cinque nei cristalli del display, e dico “questo è
un altro secondo della mia vita”… ecco, per questo pensiero, quel secondo l’ho
perso, insieme al pugno di sabbia dorata degli altri suoi fratelli.
E’ solo retorica, probabilmente, parole già dette
migliaia di volte, proverbi già sentiti, il tempo scorre senza pietà, eccetera,
eccetera. Oh, sì, il tempo scorre. Solo che, per me, scorre al
contrario.
Per ogni numero che vedo su ogni orologio della mia
vita, il pensiero ha già calcolato, un riflesso ormai condizionato, quanto manca
a…
Quando il tecnico del backstage dice “tocca a te”, io
non vedo le dita, una, l’altra, l’altra ancora, che si chiudono inesorabili nel
suo pugno; dentro, ho già un altro conto alla rovescia, altrettanto inesorabile,
ma privo della sottile eccitazione, del filo di un microfono da intrecciare alle
dita, di un pubblico dall’altra parte.
Ogni giorno, ogni cosa che faccio, c’è sempre il momento
in cui la stanza, la città, il mondo intorno a me si cancella improvviso, e per
un istante di vuoto perfetto sono sola, in un’infinita distesa di bianco, e una
voce metallica dice al mio orecchio e a quella nuda immensità…
…”Mancano due anni, quattordici giorni, sette ore,
trentasei minuti…”
Il tempo passa, e tu dormi.
Ma il tuo viso disteso e sgombro di espressione nel
sonno non assomiglia neppure minimamente a quel deserto di bianco. Sotto i tuoi
tratti addormentati posso sempre distinguere, ecco, adesso mi aiuto con la
piccola luce sul mio comodino, il sorriso che mi regalerai appena aprirai gli
occhi, il colore e il calore sotto la tua pelle, la vita che trema vigile in
ogni centimetro di te.
E i secondi trascorsi a guardarti, che pure corrono
sempre indifferenti verso la loro distruzione, non sono più passati, sprecati.
Hanno un senso, il senso più alto, l’unico senso capace, se non di fermare
questo fiume, di farmi tuffare ad afferrare quello che brilla sul fondo. Ogni
tuo semplice, preziosissimo respiro, le tue dita nei miei capelli, il battere
della luce sulle fibbie della tua divisa abbandonata sul divano, tutto questa
piccolezza ha l’immenso potere di chiudere il mio pensiero, di non avere dentro,
per qualche ora di paradiso, che una sola voce, la tua.
Perché sei arrivato così tardi?
Perché non sapevo che saresti arrivato?
Ho sempre, sempre saputo quanti momenti mi sarebbero
restati da vivere. Potevo passare nottate intere, in silenzio, a contare i
giorni, le domeniche, le ore -come un ragazzino barra di un segno rosso un altro
numero sul calendario appeso al muro della classe, cancellando un altro giorno
prima dell’estate… come un prigioniero sbarra un altro numero, cancella un altro
giorno vuoto dalla sua condanna senza fine.
Sapevo quanti, ma non quali momenti avrei
vissuto. Non potevo sedermi nella mia stanza, abbracciarmi le ginocchia, e
semplicemente aspettare quel giorno, quel giorno in cui avresti spinto la porta
della mia vita, facendo entrare la luce, e il profumo della tua
presenza.
Se lo avessi saputo… se avessi saputo che eri tu… ti
avrei detto di sì, ti avrei detto tutti i sì del mondo già da quella prima sera,
al solo vedere il nero di un ombrello bordato di uno stemma argento e viola
contro il nero di pioggia del cielo fuori dal locale, al solo vedere il rosso
della tua rosa che subito s’imperlava di gocce…
Non avrei lasciato che il tempo si prendesse tante
notti, notti che avrebbero potuto essere splendidamente nostre.
Ma il tempo è passato, e passa, e tu ancora
dormi.
Non voglio svegliarti. Vorrei solo raggiungerti, stanca,
nel paese del sonno. Una volta, una voce di ragazzina al telefono mi disse che
dormire è il tesoro più prezioso che abbiamo; perché mentre si dorme, si
dimentica di essere soli.
O di essere vivi, le rispondo adesso io.
Dormire, dimenticare.
Oppure non dormire, e dimenticare lo stesso. Nelle tue
braccia, dimenticare di essere nata, e affacciarmi alla vita di nuovo ogni
istante con la freschezza del primo mattino del mondo. Dimenticare di essere nel
tempo, per essere solo nella tua stretta, nel ritmo traboccante e sicuro che
rintocca la tua esistenza…
Dimenticare, e, per un minuto, essere solo respiro che
sale, essere solo la nota che vibra in fondo alla gola, solo la folgorazione
soddisfatta di aver trovato l’accordo giusto, il modo giusto per avvolgere un
suono in parole...
Un pianoforte, cinque righe, e una chiave: ecco tutto
quello che mi serve per essere, per un pugno di attimi, immortale.
Il metronomo batte, ha anche lui la sua lancetta che
oscilla, e che batte, un altro guardiano che se ne sta sulla soglia, a contare
altri secondi che se ne vanno… Ma questa è un’altra storia, un altro tempo, il
tempo della musica, che non ha numeri, non ha mete a cui arrivare; viaggia per
se stesso, senza tensione e senza nome, il suo viaggio senza luogo. E con un
dito, posso renderlo più lento, più veloce. Accorciare le ore che ti aspetto, i
giorni vuoti di te. Allungare le nostre notti, lo spazio in cui mi è data la
grazia di non pensare.
Allungare la nostra ultima notte, tirare le briglie
della luce perché non venga mai il mattino, e l’altra notte ancora che mi
porterà via da te.
Posso?
Davvero posso?
E’ sempre, tutto solo un istante…
Perché ogni canzone finisce, ogni estasi ha il suo
risveglio, da ogni bacio ogni labbro si deve staccare. E ogni cosa che faccio,
so già quando tutto questo fare, tutto questo esistere arriverà al
suo capolinea. Basta il bagliore minuscolo, eppure impietoso, capace di tagliare
la notte, delle forme incessantemente nuove, e incessantemente uguali a loro
stesse di quel display…
Black out.
E d’improvviso, quel chiarore si è spento, tutti i
rumori si sono spenti, tutte e centomila le luci fuori dalla mia finestra sono
cadute nel nulla, e anche la lampada sul comodino si è chiusa sotto la mano del
buio.
Black out.
E non so più che ore sono, e non so più dove sono, sono
solo calore che scivola nella distensione fino a confondersi nel tuo, sono solo
tatto per la tua pelle, udito per il battito del tuo cuore, e respiro, per
vivere…
Solo, mi stringo a te, mi stringo alla notte, e al buio
che mi acceca, liberandomi da ogni male.
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