E1
SEMI-RACCOLTA
COLLEGATA A “AAA
CERCASI FIDANZATO MOMENTANEO”
HOLA!!!
SI’,
SONO SEMPRE IO.
SONO
TORNATAAAAAA!!!!
QUESTA
E’ UNA SEMI-RACCOLTA NELLA
QUALE VI SARANNO I CAPITOLI CON “POV EDWARD”.
QUINDI…
NON E’ UNA NUOVA STORIA; potrebbe
essere letta anche come tale ma i capitoli riprendono solo alcune parti
importanti che riguarderanno specialmente il passato (come si sono
conosciuti,
dove e cosa è successo tra loro).
Non mi
resta che augurarvi buona
lettura.
Grazie,
grazie e grazie. Per tutto.
Vs Sam
1.
TEORIE E NUOVE CONOSCENZE
AGOSTO
2008
EDWARD
Il termine teoria indica
un insieme di ipotesi volte a
spiegare un
determinato fenomeno o, nella più semplice delle
definizioni, un determinato
modo di pensare.
Il
cervello umano è un sorta di macchina che formula
costantemente pensieri e, di
conseguenza, altrettante teorie.
Anch’io,
Edward Cullen, ne ho qualcuna.
Credo che l’assioma della
vita sia
l’imprevedibilità.
Infatti, sono sempre stato
fermamente convinto
che è incredibilmente sciocco programmare qualcosa. I piani,
per la stragrande
maggioranza delle volte - perfino quelli ben congeniati – a causa di ostacoli,
imprevisti e problemi dai
generi più svariati, hanno sempre dei risultati piuttosto
distorti dall’idea originaria:
vanno letteralmente in
fumo o, se la
fortuna gira nel verso giusto, non vanno esattamente come previsto.
Anzi, alle
volte accade proprio il contrario. Ma è ancora
più sciocco programmarli e
sperare in quello. Perché, anche in tal caso esso sarebbe un
piano, il
programma di un programma dalla dubbia riuscita.
È strano notare quante
concezioni umane ci siano
riguardo agli eventi: alcune persone sostengono che centri il fato,
altre il
caso, altre ancora il destino.
Tutti termini maschili che, a mio
modestissimo
parere, dovrebbero quantomeno, velatamente, presagire
l’ovvio: se
c’è una femmina di mezzo le cose cambiano.
In meglio? In peggio?
Forse a seconda della giornata.
§
Non ero mai stato fondamentalmente
pessimista.
Oh, ma nemmeno così ottimista da credere che la vita fosse
tutta rose e fiori.
Perché,
ahimè, in quel caso, avrei davvero
dovuto compatire quelle povere persone affette di allergia ai pollini.
E da
medico sapevo a cosa sarebbero dovute andare incontro: ininterrotte
riniti,
congiuntiviti e chi ne ha più ne metta. Altro che bella
vita, una vera
schifezza.
Quindi, la mia visione della vita
non era né
totalmente bianca o nera né così ricca di colori:
aveva delle semplici
sfumature. Ma, come ogni essere umano, avevo dei normalissimi
preconcetti. Come
ad esempio, quello sullo sviluppo di un’intera giornata.
Avevo sempre pensato che
l’inizio e la fine
della giornata stessa fossero tra loro antitetici. L’uno
positivo, l’altro negativo.
E viceversa. Perlomeno se iniziava male si poteva ben sperare nel
finale.
Quella giornata, infatti, non era
iniziata
proprio nel migliore dei modi.
La mia sveglia stranamente non
aveva suonato.
Ero arrivato in ritardo a lavoro mancando la prima e indispensabile
dose
quotidiana di caffeina. Avevo ripreso conoscenza e concentrazione solo
dopo tre
caffè amari al distributore dell’ospedale, una
sostanza liquida e scura dallo
strano sapore. Nulla a che vedere con l’espresso della mia
moka. Il caffè mi
piaceva all’italiana: stretto e denso. In quello ero
particolarmente bravo.
In mattinata poi, Marcus Volturi,
il direttore
dell’ospedale, aveva annullato e rimandato due mie operazioni
per l’inagibilità
di tre sale operatorie a causa di un malfunzionamento dei condotti di
areazione. Fortunatamente non erano operazioni urgenti ma
l’amarezza non era
comunque mancata. Un chirurgo, dopo il suo consueto giro di visite e
controlli,
se non opera chirurgicamente, a mio parere, è praticamente
inutile.
Ma la mia giornata lavorativa al
Providence Hospital
non era ancora conclusa: la torta reclamava di diritto la sua
ciliegina. Aspettavo
alcuni referti medici da una dottoressa di neonatologia quando una
signora
sulla sessantina era entrata improvvisamente nel mio studio
sbottonandosi in un
solo colpo la camicetta – bottoni a clip! –
mettendo in mostra il proprio seno
nudo e supplicandomi, senza neanche darmi il tempo di intendere, di
tonificarglielo come quello di una ventenne. Mi avevo scambiato per un
chirurgo
plastico (o per uno psicologo, a seconda dei punti di vista). Mi ero
alzato,
avevo cercato in qualche modo di farle riabbottonare la camicetta e di
farle
capire che, sì, ero un chirurgo ma lungi da quello di cui
lei aveva bisogno.
Proprio in quell’istante, con me di fronte alla signora dal
seno al vento, era
entrata la dottoressa Weber senza bussare – come io le avevo
detto di fare - con
i raggi tra le mani.
Una
vera e propria situazione spinosa peggio di tremila aghi conficcati nei
glutei.
La dottoressa aveva naturalmente frainteso. Come me ne ero reso conto?
Semplice: aveva sbarrato gli occhi, si era coperta la bocca spalancata
con una
mano, aveva lasciato i referti sul pavimento ed era scappata a gambe
levate
senza neppure darmi il tempo di spiegare. Non avuto né modo
né tempo per
chiarirmi perché i nostri turni erano terminati e,
sinceramente, non vedevo
l’ora di tornare a casa.
Tuttavia, una volta uscito
dall’ospedale, la mia
amatissima Mercedes aveva deciso che dovevo perdere altro tempo giusto
per
diletto, inzuppandomi di pioggia dalle spalle alle caviglie con la
testa
conficcata nel cofano. Si era ingolfata e il motore aveva ripreso vita
solo
dopo venti minuti e una manciata di tentativi di accensione.
Oltretutto, nel tragitto verso
casa, avevo
ricevuto la telefonata di mia sorella Alice, la quale mi aveva gentilmente pregato, come una suocera
inviperita, di recarmi in profumeria – nonostante questa
distasse poco metri da
casa nostra - per ritirarle la soluzione post-ceretta per pelli
delicate
fortunatamente già prenotata (solo una volta mi aveva
chiesto di sceglierle il
prodotto: al mio ritorno mi ero dovuto sorbire ben tre ore di predica e
inutili
chiarimenti in merito, come se me ne importasse qualcosa). Quando poi
al
telefono aveva pronunciato la parola ‘assorbenti’
avevo direttamente chiuso la
comunicazione. Ovviamente la pessima figura non era mancata
all’appello: la commessa
mi aveva consegnato la soluzione e mi aveva mostrato in seguito vari
tipi di
assorbenti da scegliere, dato che mia sorella non le aveva specificato
quali
desiderava acquistare. Quelli, purtroppo, erano eventi piuttosto
ricorrenti.
A compere concluse, col numero di
telefono della
commessa da lei personalmente scritto frettolosamente dietro lo
scontrino (non
l’avrei comunque chiamata, l’esperienza faceva da
monito in quei casi) potevo
finalmente tornare a casa e porre fine a quegli strani eventi ma,
dulcis in
fundo, nel parcheggiare la macchina due isolati lontano dal mio
portone, una
golf vecchia quanto le fognature di Seattle, mi aveva leggermente
tamponato al
paraurti, fortunatamente nulla di
dannoso alla mia auto.
In
sostanza, ognuno poteva andare per la sua strada. Ma la proprietaria
del
catorcio a quattro ruote, un’anziana signora dalla crocchia
bianca e il viso
cosparso di rughe, non era del mio stesso avviso:
mi aveva letteralmente sradicato dal sedile e
mi aveva poi accarezzato, strapazzato e tastato il viso per un tempo
lunghissimo, solo ed esclusivamente per accertasi della mia solute. Da
precisare che, quella donna, non l’avevo mai vista prima di
allora. Mi aveva
lasciato solo dopo che le avevo detto di essere un medico e che,
pertanto, sapevo
per certo che il tamponamento non mi aveva causato alcun danno fisico.
Quindi, quella giornata piuttosto
movimenta era
quasi giunta al termine e stando alle mie teorie avrei dovuto
concludere la
serata nel migliore dei modi (magari con Angelina Jolie vogliosa e
trepidante
nel mio letto, preferendo me a quel pompato e finto belloccio di Pitt).
Ebbene, qualcosa mi fece ben
sperare che le
teorie non fossero del tutto infondate quando, una volta entrato nel
portone
del mio palazzo, notai una figura femminile dal fisico sinuoso e
slanciato che mi
dava le spalle.
Emmett, un mio carissimo amico
d’infanzia dalle
innumerevoli teorie solo ed esclusivamente sulle donne, aveva sempre
sostenuto
che il fondoschiena di una donna la diceva più lunga di un
albero genealogico e
una cartella clinica insieme.
Il culo è
lo specchio dell’anima, caro Edward, recitava con tono solenne ogni
qualvolta notava
una bella femmina. Aveva, a modo suo ovviamente, rimpiazzato gli occhi.
Quel fondoschiena, sfacciatamente
posto davanti
ai miei occhi, sfiorato da lunghi capelli castani e fasciato da dei
semplicissimi pantaloni ginnici (un cliché di
sensualità) che aderivano
perfettamente a quelle dolci e morbidi curve, appariva molto
più che eloquente. La
misteriosa ragazza in
questione traballava da un lato all’altro sorreggendo alcuni
scatoloni che le
oltrepassavano addirittura la testa.
Come diamine faceva a vedere oltre?
Non
rischiava di cadere in quel modo?
Presto, detto! Posizionò
malamente un piede e si
sbilanciò all’indietro. Riuscii ad avvicinarmi ed
afferrarla prima che potesse
finire sul pavimento, sorte che non potei evitare agli scatoloni che
finirono sulla
superficie lucida. Come saggiamente avrebbe detto Emmett, una vera
botta di… fortuna
(parola diversa, stesso significato). Avevo appena salvato una donzella
in
pericolo.
«Merda!»
Sorrisi. Una donzella dal
linguaggio piuttosto
colorito e forbito. Aveva gli occhi
chiusi, serrati forse in attesa ancora dell’impatto col
pavimento. Il viso era
a forma di cuore, le guance leggermente colorite di rosa e due labbra
soffici
solo alla vista così come le sue curve premute sulle mie
mani e sulle mie
braccia.
Forse il destino in qualche modo
centrava. Se non
avessi avuto alcun imprevisto quasi certamente non mi sarei ritrovato
quella
ragazza tra le braccia che non accennava minimamente ad allontanarsi.
Non che
la cosa mi dispiacesse. Il profumo di fragola che i suoi capelli
sprigionavano
era buonissimo.
«Tutto bene?»
Le domandai più per educazione che
per altro.
Solo allora si accorse della mia
presenza.
Sbarrò gli occhi sfoggiando due iridi scure come il
cioccolato fuso.
«Santo Cielo!»
Sobbalzò spaventata e presto si
allontanò portando entrambe le mani alla bocca.
«Ti sono venuta addosso, vero?
Scusami. Scusami davvero. Non
volevo.»
Le sorrisi. «Oh, ma non
mi sei venuta addosso. Stavi
cadendo e ti ho semplicemente presa al volo.»
Sì,
Edward, metti in mostra il tuo lato cavalleresco nel caso in cui non
l’avesse
notato.
Le sue guance si colorarono di un
rosso acceso.
Era bella, molto bella.
I miei occhi per un attimo caddero
sulla sua
pelle incredibilmente lattea sbucata da una maglietta arricciata e
aggrovigliata sul davanti. Mio Dio, sembrava più candida e
morbida di quella di
un neonato. Era invitante. Non fui bravo a nascondere il mio sguardo
perché lei
se ne accorse e repentinamente tirò il bordo verso il basso
coprendosi, anche
se non di molto. «Allora… ehm.. grazie.»
Si morse velocemente il labbro. «Tu abiti
in questo palazzo?»
Assentii solo col capo intento ad
osservarla mentre
si portava alcune ciocche dietro l’orecchio. Tese una sua
mano verso di me. «Io
sono Bella, la nuova affittuaria degli Uley.»
La fortuna sembrava finalmente
girare nel verso
giusto.
Emily Uley, la dolce signora del
terzo piano.
Quell’appartamento era disabitato da almeno cinque mesi.
L’ultima volta la
signora Emily aveva bussato alla mia porta porgendomi muffin fumanti
appena
sfornati in segno di arrivederci. Si trasferiva in una casa di campagna
assieme
al marito Sam, un signore indiano dallo sguardo piuttosto pungente.
Quindi Bella era la nuova
inquilina. Un ottimo scambio,
considerai.
Le strinsi quelle piccole e sottili
dita che si
nascosero come per magia tra le mie. «Io sono
Edward.»
«Edward.»
Ripeté lei accentuando il sorriso. Il
mio nome dalle sue labbra fu peggio di una doccia fredda e quasi mi
sentii un
perfetto idiota ad accendermi solo per quello. Iniziamo
bene.
Indicai con una mano gli scatoloni.
«Vuoi una
mano?»
«Oh.» Con
impaccio si piegò sulle ginocchia e
iniziò a impilare i quattro scatoloni ponendone uno
sull’altro. «No, ti
ringrazio; posso farcela da sola.» Si rialzò con
quella torre traballante tra
le braccia. Dondolò ancora e si appoggiò
stentatamente al muro.
«Sei sicura? Non
riuscirai mai a portarli tutti
da sola.»
«Sì…
ci… riesco. Uso l’ascensore.»
Soffiò ogni
parola con sforzo.
Mi venne da ridere.
Perché la maggior parte
delle donne aveva l’attitudine a mostrarsi forti in presenza
degli uomini?
Indipendenza? Autostima?
Semplice,
l’orgoglio è donna.
Sbuffò ancora, e non per
noia. Avrebbe dovuto
fare almeno due viaggi perché sull’ascensore era
affisso un foglio con su
scritto GUASTO. Era costretta ad utilizzare le scale.
Alle donne
non bisogna mai chiedere: un insegnamento di mamma Esme.
Mi avvicinai e mettendo le mani ai
lati le sfilai
tre scatoloni. «È guasto.» le feci
notare. « Prometto che le mie intenzioni
sono buone. E poi sono comunque di strada.»
Era
vero solo in parte perché il mio appartamento era due piani
sotto al suo.
Il viso le era diventato ancora
più colorito per
lo sforzo. Ci pensò su qualche secondo, poi con uno sbuffo
accompagnato da un
sorriso arrendevole annuì. «Nemmeno ci conosciamo
e già ti sto sfruttando.»
Puoi
sfruttarmi in tutti i modi che vuoi.
«Sai il mio
nome… è già qualcosa.»
Avanzò verso le scale. «Allora credo
che dovrò proprio sdebitarmi
con te.» mormorò, iniziando a salire i primi due
gradini.
Un’idea già ce
l’avevo. Una cena, un caffè, un
gelato…
A dirla tutta, non avevo mai
portate donne in casa
mia. Un po’ per privacy per non essere ricercato in caso di
un mio allontanamento,
in sostanza ciò che accadeva nella maggior parte delle
volte, e un
po’ per rispetto nei confronti di mia
sorella.
Forse, ad essere sincero,
più che di rispetto
dovrei parlare di ricatto dichiarato dalla stessa Alice: se avessi
portato
donne nel nostro appartamento solo ed esclusivamente per uno scopo, a
detta
sua, di basso livello, lei si
sarebbe
sentita ovviamente in diritto di
fare
altrettanto.
No, decisamente non ero pronto a
sentire i
mugolii di mia sorella. La voglia di scardinare la porta della sua
stanza e
strappare le palle al malcapitato in sua compagnia, mi allettava
più del
dovuto. In effetti, ero geloso, giusto un po’.
Tuttavia, in quelle pochissime
volte che avevo
portato delle donne a casa avevo utilizzato la fantomatica scusa che
fosse quella
giusta. La piccola peste aveva imparato a quadrare la situazione
già da subito,
proprio nel momento in cui varcavo la soglia di casa in dolce
compagnia, ed era
sempre stata capace di farle scappare a gambe levate dopo un arco di
tempo che
si riduceva di volta in volta (avevamo raggiunto il record di cinque
minuti,
due adoperati per un schiaffo sulla mia guancia destra).
Alice
adottava così tante scuse che, alla fine, ci avevo quasi
preso gusto: si
fingeva fidanzata (munita di bicchiere colmo d’aranciata da
lanciare addosso
non solo al sottoscritto), moglie ingravidata e sorella psicopatica o
influenzata. Lo schiaffo lo avevo ricevuto con la moglie
ingravidata; inconsapevolmente ero uscito con una
presidentessa di un gruppo per madri single.
Alice ne sapeva una più
del diavolo ma in fondo
lo meritavo perché non mi attenevo del tutto ai patti.
Adesso la situazione
però era un po’ diversa.
Bella sapeva perfettamente dove abitavo e avrebbe in seguito di sicuro
conosciuto mia sorella. Ero un po’ limitato ma almeno la
ricompensa, che saliva
e incespicava quasi in ogni gradino, sembrava piuttosto gratificante.
Bella improvvisamente si
fermò e mi squadrò con
un sopracciglio alzato. «Non posso portare solo uno
scatolone.»
Iniziai a salire anch’io
sorreggendone tre. «Ce
la faccio.»
In effetti, non erano proprio dei
pesi piuma. Sembrava
che fossero stati riempiti da mattoni ma non avrei mostrato alcun segno
di
affaticamento, nemmeno se il suo appartamento fosse stato al decimo
piano.
Bella riprese a camminare
borbottando qualcosa:
afferrai solo ‘uomini’ e
‘orgoglio’.
Ma, poco dopo, un sorriso
fiorì su quelle sue
labbra piene. Il mio gesto non le era stato indifferente.
Si fermò
inaspettatamente al primo piano davanti
alla mia porta e lanciò uno sguardo alla targhetta sulla
quale Alice aveva
fatto incidere accanto al mio cognome una denominazione: Dott.
Cullen E.
Fece una smorfia piuttosto buffa:
arricciò il
naso e storse la bocca. «C’è un dottore
nel palazzo?»
«Un
neurochirurgo» precisai con una punta
orgoglio.
Ripresi a salire lanciando
un’ultima occhiata
ostinata alla mia porta. «Io odio i dottori.»
Cazzo. Un punto in meno per
me.
«Potresti
ricrederti.»
«Ne dubito.»
puntualizzò muovendo il capo da un
lato all’altro facendo così ondeggiare la sua
chioma scura.
«Potrei essere
l’eccezione che conferma la
regola.»
Parlare con lei sembrava naturale,
quasi come se
ci conoscessi già da tempo. Forse perché appariva
spigliata e aperta, non
ritrosa e schiva come alcune donne con cui ero uscito.
«Non…
» Bella si fermò improvvisamente, rigida
come un pezzo di legno. «Merda!» Di nuovo.
Si girò lentamente e
mostrò un sorriso
colpevole. Anche quel suo tipo di sorriso era bello. «Dottor Cullen E. La E
sta
per Edward, vero?»
Sghignazzai e confermai.
«Dottor Edward Cullen
in persona.»
Si morse il labbro. Era in
imbarazzo e
tremendamente bella. «Scusami, non lo sapevo…
io…»
«Non fa niente.
Capita.» Mi strinsi nelle spalle
per quanto potessi con gli scatoloni in braccio. «Io ad
esempio non sopporto le
commesse.» Soprattutto quelle delle profumerie quando mi
mostrano i vari tipi
di assorbenti da scegliere, avrei dovuto specificare.
Tuttavia, forse per lei avrei fatto
un’eccezione. Sembrava in un qualche modo diversa.
Bella fece una faccia stranamente
offesa.
Corrucciò le sopracciglia e imbronciò le labbra.
Oh… oh…
«Cazzo!» Era
una commessa! Sentivo il disperato
bisogno di mordermi la lingua. «Scus…»
Inaspettatamente scoppiò
a ridere, confondendomi
ulteriormente. «Non sono una commessa.» Fece un
sorriso quasi malizioso.
«Volevo solo vedere la tua faccia.»
Pessima figura. Doppia.
Quindi non era timida, o almeno,
non del tutto;
probabilmente sensuale e estroversa all’occorrenza.
La parola occorrenza
stranamente mi faceva un certo effetto tipico del genere maschile.
Ripresi a salire le scale. Secondo
piano. Questa
volta il sorriso malizioso comparve sul mio viso. «Per
pareggiare i conti, io
chi dovrei odiare?»
Giungemmo al terzo piano.
Poggiò gli scatoloni sul
pianerottolo con uno
sospiro.
«Una
neogiornalista.» rispose trafelata e
sorridente. «Mi sono laureata a giugno.»
Bella, laureata, apparentemente
simpatica e
indipendente. Qualcosa non quadrava.
Nei miei primi ventisette anni di
vita, quelli
da pannolino compresi, avevo imparato che le donne belle e affascinanti
potevano
essere semplicemente targate come stronze,
sfrontate (e per adesso non sembrava questo il caso) o,
peggio ancora,
fidanzate.
Forse potevo escludere anche
l’ultima ipotesi.
Quale idiota lasciava la propria ragazza sola?
Udimmo una porta chiudersi con un
pensate tonfo
e la voce squillante della cui proprietaria sbucava sempre nei momenti
meno
opportuni.
«Edward?»
Alice.
Che sia chiaro: l’amore
per mia sorella era
incondizionato, ricco di sostentamento reciproco, e avrei ammazzo a
mani nude chiunque
avesse solo pensato di farle del male ma… alle volte ero io
stesso a volerla
strangolare.
Terminato il liceo, Alice, si era
iscritta
all’università di Seattle presentandosi alla porta
di casa mia – con la
bellezza di venti valigie - adducendo la semplice scusa di sentire la mancanza del suo fratello preferito,
nonché l’unico e
solo. In parte, era vero. Il mio trasferimento aveva comportato la
sopportazione di una distanza eccessiva e dolorosa per entrambi.
Eravamo poco
più di due adolescenti, e nonostante i vari litigi, molto
legati l’uno
all’altro.
Con
finta ritrosia avevo accettato quella convivenza anche con la speranza
di aver
acquisito un aiuto in casa. La cucina non era il mio forte. Purtroppo
Alice non
possedeva delle vere e proprie doti culinarie: sapeva aprire il tonno
in
scatola, condire l’insalata e riscaldare nel microonde pasti
già pronti. Cose
che di mio, purtroppo, già facevo. Le uniche doti di Alice,
se così potevano
essere definite, erano le sue manie compulsive sull’ordine ,
sulla pulizia e,
ahimè, sullo shopping. Girava per casa sempre con uno
spolverino in mano e
avevo i cassetti ordinati come mai in vita mia: per tipo, colore,
occasione e
stagione. Era ossessionata.
«Edward sei
tu?»
In pochissimo tempo Alice ci
raggiunse e non
appena vide Bella le corse incontro stritolandola in un abbraccio
caloroso e
lasciando me basito. Si conoscevano. Le domande che frullavano nella
mia testa
erano le solite dove, quando, come
e perché. Poche, ma
dirette. Purtroppo non avevo un bisturi a portata di mano per cavarmele
via e
la saliva nella gola sembrava aver dato forfait.
«Finalmente sei
arrivata.» sussurrò mia sorella
allontanandosi di poco dall’abbraccio.
«Perché non mi hai telefonata? Ti avrei
aiutata col trasloco.»
Bella arrossì ed io mi
deliziai. «Non volevo
disturbarti.»
Alice
s’imbronciò e storse il naso. «Non mi
avresti mai disturbata, te l’avevo già detto,
no?» Detto ciò si accorse finalmente
della mia presenza e con fare
circospetto mi osservò e abbozzò un sorriso. Poco
promettente. «Vedo che
comunque hai trovato qualcuno che ti ha dato una mano. Non devo fare le
presentazioni, vero?»
Bella divenne paonazza. Mi
lanciò uno sguardo.
«No, ci siamo già presentati.»
Non capiva forse quale legame
potesse esserci
tra me e quel folletto dai capelli corvini.
«Alice è mia
sorella.» spiegai sorridendo alla
mia consanguinea.
Bella sbarrò gli occhi
dalla sorpresa e un
sorriso le spuntò osservando prima me e poi Alice.
«Edward, ti avevo
già parlato di Bella,
ricordi?»
Questo era un dei tanti problemi.
Mia sorella
era piuttosto logorroica e quando iniziava un discorso, per me e tutto
il
genere maschile poco interessante, spesso e volentieri mi estraniavo e
annuivo
meccanicamente di tanto in tanto o, nei peggiori dei casi, mi
addormentavo.
Quindi, era più che normale che non ricordassi questo
aneddoto. Peccato.
Fui salvato dall’ira di
Alice da una bassa melodia
su piano che si propagò nel pianerottolo. Bella inizialmente
sobbalzò poi aprì
velocemente un lato di uno scatolone e tirò fuori un
telefonino rosso. Guardò il
display e sbuffò. «Scusatemi»,
sussurrò prima di rispondere.
«Pronto?»
Si passò velocemente una
mano tra i capelli.
«Si, sono arrivata.»
Mi lanciò uno sguardo.
Non ad Alice, a me.
«Posso richiamarti dopo?
Devo ancora portare gli
scatoloni con i libri in casa.»
Ecco cosa contenevano quegli
scatoloni. Ed io
che avevo considerato i mattoni.
Bella sbuffò ancora e
alzò gli occhi al cielo.
Poi riprese a parlare. «D’accordo Mike, ci sentiamo
dopo.» Chiuse velocemente
la comunicazione.
«Fratello
apprensivo?» le domandai notando la
smorfia che aveva rivolto al display.
«No,»
sospirò. «Fidanzato apprensivo, il che
è
peggio con tutti questi chilometri che ci dividono.»
Mike. Il
fidanzato. L’idiota che lasciava la propria ragazza, da sola dal momento che lei aveva
precisato che erano separati da
chilometri di distanza.
L’unica mia stupida
teoria che speravo fosse
sbagliata era esatta. Era fidanzata. Non che la cosa mi avesse bloccato
in
passato dal corteggiare una ragazza, specie al college, ma Bella non
sembrava
all’apparenza quel tipo di donna.
Meno vedi
una donna e prima la dimentichi; un’altra teoria
concepita e approvata da
Emmett. Era esattamente ciò che aveva fatto lui nelle due
settimane in seguito
ai due picche di Rosalie, la
commessa di
una famosa profumeria in centro. Dopo ben sette rifiuti, uno per giorno
per una
settimana intera, ci avevo rinunciato. Peccato che poi lei avesse
iniziato a
frequentare la palestra di Emmett. La teoria non era più
fattibile.
Rosalie
era, sì, bella ma schiva e acida come uno jogurt scaduto
nella maggior parte
delle volte che Emmett le si avvicinava (spiegasi la mia principale
controversia per le commesse). E così il mio caro amico si
era ritrovato una
gatta da pelare, dagli artigli affilati. Anche se, in effetti, lui non
era il
perfetto gentiluomo della situazione. Aveva il tatto e la gentilezza di
un
orso.
Comunque,
alla fine, ne era uscito vittorioso. Dopo graffi e manrovesci della
commessa
bionda e moine e lusinghe dell’orso, l’uno si era
innamorato dell’altro. Un
touché.
Quindi
la
soluzione era semplice: meno vedevo Bella, e meglio era. Okay, era
bella, mi
faceva pure un certo effetto (e a chi non l’avrebbe fatto?!)
ma non era detto
che dovessi per forza infatuarmene, no?
Discorsi
prematuri, Edward, discorsi prematuri.
Certo,
da
ora in poi avremmo dovuto convivere nello stesso palazzo ma
ciò non doveva per
forza comportare una convivenza, dalla presenza costante
dell’uno e dell’altro;
magari solo qualche incontro sporadico. Facile, no?
Avevo
la
strana sensazione di essere già quasi
fottuto.
«Ho ragione, vero
Edward?»
«Mmh?»
Guardai mia sorella un
po’ disorientato. Non
avevo prestato alcuna attenzione a cosa aveva detto, ma dallo sguardo
dolce e
implorante e dal capo lievemente piegato verso una Bella un
po’ imbarazzata
compresi che non c’erano sotterfugi nella sua domanda, solo
gentilezza.
Mi grattai la nuca.
«Certo.» risposi, e pregai
vivamente di non aver accettato nulla di compromettente.
Mia sorella saltellò sul
posto e afferrò le mani
di Bella. «Visto? Vedrai Bella, qui ti troverai bene. Per me
sarà come avere
una coinquilina, o una sorella. Non ti lascerò mai un attimo
sola. Starai
sempre a casa nostra.»
Fottuto. Ero fottuto.
La zappa decisamente non bastava.
Mi ero
lanciato un incudine dalle dimensioni stratosferiche sui piedi condito deliziosamente con un calcio dritto
nelle palle.
Avevo
sempre pensato che l’inizio e la fine della giornata stessa
fossero tra loro
antitetici. L’uno positivo, l’altro negativo. E
viceversa. Perlomeno se
iniziava male si poteva ben sperare nel finale.
In conclusione, quella giornata era
finita
proprio come era iniziata.
E le mie teorie?
Tutte
grandi e grossissime cazzate!
PER IL RAPPORTO TRA
ALICE E EDWARD DEVO RINGRAZIARE MIO FRATELLO. LUI E' UNA DELLE MIE
PIù IMPORTANTI FONTI DI ISPIRAZIONE.
PER IL TITOLO
RINGRAZIO IMMENSAMENTE FALLSOFARC... senza di te, non so
cosa farei.
E RINGRAZIO CHI HA
PAZIENTEMENTE LETTO L'ANTEPRIMA: CONGY e la mia piccola
stronza manager.
RINGRAZIO INOLTRE CHI LEGGERA', E CHI LASCERA' PERFINO UN COMMENTO.
GRAZIE A TUTTI.
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