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16. Un cavaliere senza paura
Mi lasciarono da sola in
camera mia. Sembravano indecisi su cosa aspettarsi da me - una crisi isterica,
un mancamento, un’aggressione fisica...
Non feci nulla di tutto
ciò, ovviamente. Presi un profondo respiro, recuperai la valigetta del pronto
soccorso e uscii, dicendomi che avrei avuto il tempo di piangere tutte le mie
lacrime quando fossi stata sola.
Per prima cosa, chiamai
Artie. Ne aveva il diritto, in fondo. E poi era un medico, e Al aveva perso i
sensi per alcuni minuti quando il lampadario gli era crollato addosso, perciò
sarebbe stato meglio controllare che non avesse nulla di serio. Le sue pupille
erano normali, e non riscontrai altri segni di commozione cerebrale o peggio, ma
in quel momento trovavo più tranquillizzante l’idea che Arthur desse il suo
parere.
Arrivò in meno di cinque
minuti, nonostante abitasse in un altro quartiere. Mi abbracciò senza dire
niente, sull’ingresso, il respiro pesante tra i miei capelli.
- Com’è successo? - mi
chiese, con voce soffocata.
Scossi la testa, e lui
non fece altre domande; lanciò solo un’occhiata veloce a Ed, mentre si dirigeva
nella camera degli ospiti. Ricevette in risposta il suo stesso sguardo perso,
replicato sul volto tirato di Edward.
Mentre lui si occupava di
Al, io visitai Thomas e Lotte. La bambina non aveva altro che dei graffi: la
credenza le era volata addosso, ma lei era così minuta da riuscire a
rannicchiarsi tra le mensole e uscirne illesa. La lasciai vicina al padre e al
fratello, visto che l’unica cosa di cui aveva bisogno era essere
tranquillizzata.
Thomas aveva una costola
incrinata. Si lasciò spogliare, visitare e medicare senza aprire bocca. Sembrava
più piccolo e gracile: era difficile credere che quel corpicino scheletrico e
denutrito fosse riuscito a trattenere il mostro nero, anche solo per qualche
minuto. Avevo pensato di dargli un antidolorifico, ma alla fine gli offrii una
fetta di torta e un bicchiere di latte. Cercai di abbracciarlo senza fargli
male.
- Sei stato molto
coraggioso, Thomas. - gli dissi. - E di questo ti ringrazio. -
- Non sono riuscito ad
aiutare Alex. - rispose lui, tetro.
Era esattamente quello
che mi sarei aspettata da un Elric. Gli strinsi delicatamente una mano, evitando
le sbucciature sulle nocche, e guardai suo padre: Artie lo aveva aiutato a
mettersi a letto, e ora stava chiudendo la borsa che si era portato dietro.
- Non credo abbia
riportato problemi alla scatola cranica. - sentenziò, senza voltarsi, ma
parlando a Edward che se ne stava sulla porta in disparte. - È stata una bella
botta, ma senza troppe conseguenze. -
Alphonse stiracchiò le
labbra nell’ombra di un sorriso e si voltò verso il fratello.
- Così non hai scuse per
mettermi da parte. - disse. E visto che Ed stava per parlare, aggiunse: - So che
lo avresti fatto. Ma non riuscirai ad impedirmi di aiutarvi. -
- Al momento non c’è
molto che possiamo fare. - dichiarò l’altro, appoggiando una mano sulla testa di
Charlotte. - Il generale è andato a buttare giù dal letto tutte le sue amicizie
tra esercito e polizia: li costringerà a frugare in ogni angolo di Central City,
questo è certo, e saranno molto più efficaci del nostro piccolo gruppo. -
Era sensato, ma nessuno
di noi in quel momento aveva bisogno di ragionamenti sensati, men che meno io.
Lasciai la stanza e andai a chiudermi in camera mia. Non volevo sentire discorsi
pieni di buonsenso finché non fosse spuntata una traccia su dove potesse
trovarsi mio figlio.
La traccia spuntò due
giorni dopo, con la ricomparsa del generale Mustang. Quarantotto interminabili
ore, in cui tutti nessuno di noi combinò molto. Perlomeno, io non lo feci.
Rispettai il mio proposito e piansi fino a consumarmi gli occhi, e per il resto
del tempo cercai di trovarmi qualcosa da fare per non cedere al panico.
Finalmente, la mattina del secondo giorno dal rapimento di mio figlio fui
svegliata dal rumore della porta d’ingresso che si apriva e dal mormorio di
Edward, qualcosa di simile ad un “Alla buon’ora!”. Mi resi conto per la prima
volta che non lo avevo più visto né sentito, nonostante vivessimo sotto lo
stesso tetto: eppure nessuno di noi cinque era uscito. Era rimasto sempre
intorno al fratello? O aveva fatto di tutto per evitarmi?
- Datti una calmata,
Acciaio! - rispose la voce del generale, anch’essa poco più di un sibilo. - Non
è come sfogliare un elenco telefonico! -
Balzai giù dal letto, e
nel farlo feci cadere il libro che tenevo sul comodino. Irrazionalmente, mi
fermai a cercarlo, a tentoni sul tappeto, nella poca luce che filtrava dalle
persiane chiuse. - Vieni con me. -
Sentii i passi dei due
uomini dirigersi verso la cucina, e chiudersi la porta alle spalle;
- Vado a svegliare
Winry? - sentii chiedere da Ed.
- Aspetta. Sono le
cinque di mattina, è inutile buttarla giù dal letto per un’ipotesi non
confermata. -
Mi irrigidii. Non la
pensavo allo stesso modo.
- Allora vediamo di
confermarla! - sbottò Edward, a voce troppo alta.
- Spiritoso! Ascolta,
hai presente il quartiere residenziale? Bene. È quasi deserto, visto che chi
poteva è fuggito per paura dei bombardamenti. Però in una villa in viale
Repubblica c’è ancora il custode, che vive nella dependance. -
- ... immagino di
dovermi sorbire tutta la storia, vero? -
- Lasciami finire: ieri
sera il custode ha telefonato alla polizia, perché da due giorni sente il pianto
di un bambino provenire da un’abitazione lì vicino, che lui sa per certo essere
disabitata! -
Strinsi inconsciamente il
libro al petto.
- Non è possibile che
invece i proprietari siano tornati? Per controllare i danni dopo il
bombardamento, per esempio... -
- No. Non hanno bambini.
-
Seguirono alcuni istanti
di silenzio. Potevo quasi vedere Edward che abbassava gli occhi, corrugava la
fronte e serrava le labbra, assorto. Uscii silenziosamente dalla mia stanza e mi
avvicinai alla cucina, per ascoltare meglio.
- Va bene. - sentenziò.
- Vale la pena dare un’occhiata. Andremo io e Al. -
- Troppo rischioso. - si
oppose il generale. - Ci penserà la polizia: i loro uomini sono addestrati. -
- Addestrati a vedersela
con un essere che usa l’alchimia? Non credo proprio. -
Trattenni a stento un
gemito. Per fortuna, lo sbuffo dubbioso di Mustang lo coprì completamente.
- E voi due riuscireste
a convincerlo a restituirvi il bambino? -
- Abbiamo maggiori
probabilità di riuscirci di una squadra armata. Alphonse aveva potuto persino
parlargli, prima che Holze venisse spaventato. -
- È una follia. -
Entrai, facendoli
trasalire.
- Per favore, generale,
- lo supplicai, - li lasci fare. Ed ha ragione, quell’uomo potrebbe ascoltarli.
-
- Winry, così saranno in
tre ad essere in pericolo. -
- Lo so. - ammisi,
appoggiando una mano sul braccio di Edward. - Ma lei può assicurarmi che,
davanti a delle armi spianate, quella creatura non perda la testa e... - il nodo
in gola al solo pensiero mi impedì di proseguire.
Mustang alzò le mani e
sospirò. Il suo occhio sano era serio, triste e gonfio. Mi chiesi se anche lui
non dormisse da giorni.
* * *
Non ricordavo di aver
mai visto il generale così affaticato. Mentre accompagnava Al e me alla casa,
facendo un riassunto a beneficio di mio fratello di quanto ci eravamo detti,
ebbi modo di notare la barba non rasata e l’incarnato pallido, che alla scarsa
luce stradale sembrava diventare giallognolo. Avrei dovuto trovare una scusa per
farlo restare a casa di Winry, mi dissi; magari per tenere d’occhio la stessa
Winry ed impedirle di venire con noi. Invece c’era anche lei in auto, ed ero
stato proprio io a perorare la sua causa perché fosse presente.
- Se non la portiamo
noi, - avevo detto al generale e ad Al, - ci seguirà ugualmente. E poi, chissà,
potrebbe aiutarci. Potrebbe esserci bisogno di calmare Alex. - avevo aggiunto
subito, prima che uno degli altri due mi chiedesse se volevo portarla di fronte
ad Holze.
Non c’è che dire: come
cavaliere non valgo nulla. Non ero riuscito a tenere lontano dai guai né la
fanciulla in pericolo né il giovane scudiero, e lasciavo che a guidare il
destriero fosse un uomo privo di un occhio. Speravo almeno che non ci fermasse
qualche vigile.
Viale Repubblica doveva
essere un gran bel posto, di giorno e senza crateri prodotti dalle bombe: si
trovava a pochi isolati dalla nuovissima piazza Hughes, su cui si trovava il
Parlamento. Dietro gli alberi e i tetti delle ville si intravedeva la sommità di
quella costruzione che somigliava ad una macchina da scrivere.
La nostra casa era una
villetta relativamente piccola, con una bella veranda al piano terra e vasi di
fiori morti sui terrazzi del primo piano; non c’erano luci accese, e non si
sentiva nulla, cosa che mi diede i brividi. Dormivano? Alex aveva smesso di
piangere?
Ovviamente, Mustang non
aveva lasciato il posto sguarnito: nascosti nell’ombra, contai almeno una decina
di uomini in divisa, con le armi pronte.
- Le regole sono
queste: - ci illustrò a bassa voce il generale - se restate dentro per più di
mezz’ora, noi entriamo. Se sentiamo dei colpi di arma da fuoco, noi entriamo. Se
vi sentiamo urlare, noi entriamo. Se... -
- Se vedete i nostri
cadaveri venire gettati dal balcone entrate? - lo interruppi, seccato.
- Sì. - replicò lui
imperturbabile.
- Bene. Grazie per non
averci messo ansia. -
Al sospirò, ma tenne gli
occhi bassi e proseguì nel compito che lo assorbiva completamente: infilarsi i
guanti con i cerchi alchemici. Winry gliene aveva prestati un paio robusti, di
pelle, che probabilmente erano appartenuti a Stonebridge.
- Fate attenzione. -
disse Winry. - Dovete uscire tutti e tre sani e salvi. -
Al l’abbracciò,
baciandola sulla fronte come se fosse stata una dei suoi figli.
- Lo faremo. Promesso.
- le disse.
C’era dell’aria calda.
Non capii bene da dove venisse, ma la sentii arroventarmi guance e orecchie. Ci
misi alcuni istanti a capire che ero arrossito, più o meno quando mi venne
voglia di prendere mio fratello per un orecchio e staccarlo da lì.
Che verme che sono.,
mi dissi distogliendo lo sguardo. Geloso di Alphonse.
- Andiamo? - chiesi.
Winry si sciolse
dall’abbraccio, asciugandosi gli occhi. Allungò una mano, ma ci ripensò subito e
mi sfiorò a malapena un braccio con la punta delle dita. Nella sua agenda
mentale sotto il mio nome dovevano esserci le parole “porco traditore”, come
minimo.
Attraversammo in fretta
il giardino della villetta, controllando che alle finestre non ci fosse nessuno.
Arrivati alla porta, scoprimmo che, ovviamente, era chiusa.
- Questa volta voglio
farlo io. - sussurrò Al, sorridendo nonostante la tensione. Batté le mani e le
appoggiò sul legno, con gesto consumato, come se avesse smesso di usare
l’alchimia solo due minuti prima. Il rumore della serratura che cedeva ci fece
rabbrividire (io avrei semplicemente fatto un buco nella porta, ma il mio
fratellino era il solito gentiluomo anche nello scasso), anche se fu talmente
debole che lo sentimmo solo noi due.
- Tu piano terra e io
primo piano? - chiesi.
- Sicuro che sia una
buona idea dividerci? - replicò Al.
- No, però almeno se
uno di noi se lo trovasse di fronte potrebbe distrarlo fino all’arrivo
dell’altro. Ammesso che si lasci distrarre. - concessi.
- E che non abbia
ancora imparato a usare l’alchimia del fuoco del generale. - fece notare
Alphonse.
Quello sarebbe stato un
problema.
Feci per appoggiare un
piede sulle scale, ma mi fermai appena in tempo. Erano di legno, e non
sembravano nuovissime: il minimo scricchiolio mi avrebbe tradito. Controllai
velocemente che Al fosse entrato in una stanza, sperai che nessuno mi vedesse in
quel momento, poi mi tolsi le scarpe e salii i gradini a balzelli.
Questo agli eroi dei
romanzi non capita mai: le imprese non si compiono con un paio di calze, che tra
l’altro sono state rammendate così tante volte (da Margarethe, non da me) da non
avere quasi più stoffa... ma tanto non potevo scendere più di così nella stima
di una certa signora.
Sul pianerottolo del
primo piano, mi fermai, vedendo una lama di luce nel corridoio altrimenti buio.
Filtrava da una porta socchiusa, che raggiunsi. In realtà il pannello di legno
era stato staccato brutalmente dai cardini, e poi nuovamente appoggiato al suo
posto, e io conoscevo pochi ladri che si sarebbero presi il disturbo di farlo.
Mi contorsi per sbirciare senza espormi troppo alla vista, e il cuore mi saltò
immediatamente in gola: Alex era raggomitolato su un divano al centro della
stanza, gli occhi chiusi e un pollice in bocca. Per alcuni terrificanti istanti
temetti il peggio, ma subito dopo notai il suo respiro, e rifiatai anche io. Il
bambino doveva essere completamente esausto, se davvero aveva strillato per due
giorni. Holze era dietro di lui e mi dava le spalle, e sul momento non capii
cosa stesse combinando.
Mi infilai
frettolosamente le scarpe e osservai attentamente la camera: quella dove mi
trovavo era l’unica porta, e le due finestre erano coperte da quella che mi
sembrò carta da pacco, per evitare che la luce fosse visibile dall’esterno. Per
il resto, c’era solo il tavolino davanti al sofà su cui era appoggiata la
candela accesa che rischiarava appena l’ambiente e un tappeto polveroso sotto
entrambi i mobili.
Avevo bisogno di Al.
Ritornai sui miei passi per cercarlo, e quando ricomparve nell’atrio attirai la
sua attenzione con frenetici gesti della mano, indicandogli di salire. Gli feci
anche segno di togliersi le scarpe per non far rumore, e lui ebbe il buongusto
di non ridere; abbassò però lo sguardo sui dannatissimi stivali militari che
aveva deciso di indossare di nuovo insieme alla divisa, e sul suo viso comparve
una smorfia di disappunto. Avrebbe impiegato un’eternità per levarseli!
Mi trattenni dall’alzare
gli occhi al cielo per non ferire i suoi sentimenti, e tornai a controllare
nella stanza. Compresi finalmente che Holze stava mangiando, in una maniera
animalesca che mi disgustò. Alzò la testa, facendomi ritrarre istintivamente, ma
si limitò a ruttare sonoramente e tornare alla sua cena, senza dar segno di
essersi accorto della mia presenza. Abbassai di nuovo lo sguardo su Alex.
E incrociai un paio di
enormi occhi castani.
Mi portai un dito
davanti alla bocca, sperando che il povero bimbo non si agitasse. Poi mossi la
mano per fargli segno di restare fermo. Controllai di nuovo Al, che non aveva
fatto grandi progressi.
Se solo il divano
fosse più vicino, mi dissi, o Holze più distante! Serrai gli occhi, e
mi morsi un labbro. Rifletti, Ed, rifletti. Come avvicinarsi al bambino senza
essere visti?
Un movimento di Alex
riportò la mia attenzione su di lui. Il cuore mi mancò un battito quando lo vidi
scivolare sul tappeto senza emettere suono: pensai che stesse per mettersi a
correre verso di me, ma lui aveva già dato prova di essere molto più
intelligente di quanto mi aspettassi, perché non si alzò da terra. Prese a
gattonare verso di me.
Ero impietrito. Lo
guardai avvicinarsi come se ogni centimetro fosse lungo un chilometro. Due
metri, un metro e mezzo. Un rumore di passi sulla scala. La testa di Holze si
spostò lievemente verso sinistra. In una frazione di secondo capii che Al non
sarebbe mai arrivato prima che Holze si accorgesse dei movimenti del bambino.
Agii d’impulso.
Spalancai la porta con un calcio e feci un passo in avanti. Chiusi le dita sulle
braccia ossute di Alex e lo tirai verso di me senza sforzo, in un gesto brusco
che probabilmente gli fece male. Holze fu subito in piedi, e io istintivamente
strinsi più forte il piccolo, cercando di coprirlo il più possibile con le
braccia.
- Ed! - gridò Alphonse,
subito dietro di me, sulla porta.
Appoggiai la mano sulla
testa bionda di Alex, avvertendo le sue piccole mani che mi stringevano
convulsamente la camicia.
- Bambino! -
ruggì la creatura nera.
Se fosse riuscito a
usare l’alchimia, e scaraventarmi contro il muro come aveva fatto con Winry,
Thomas e Lotte la volta precedente, non sarei più riuscito a difendere il
bambino. Non avevo altra possibilità: diedi le spalle a Holze e tesi Alex a mio
fratello.
- Corri! - gli ordinai.
- Portalo immediatamente fuori, io lo trattengo! -
Vidi un moto di
ribellione nei suoi occhi, ma non gli lasciai il tempo di protestare. Non
avevamo tempo. Gli gettai letteralmente il piccolo tra le braccia, e tornai
a fronteggiare il mio avversario.
Non feci in tempo,
ovviamente. Una folata bollente mi sollevò da terra e mi sbatté sulla parete a
destra, facendo scricchiolare l’automail.
Mi ritrovai a faccia in
su senza sapere come ci ero finito. Holze aveva superato il divano, e puntava
alla misera candela sul tavolino.
No!, pensai,
battendo istintivamente le mani. Il cemento del pilone portante alle mie spalle
si trasformò in un pugno diretto verso l’uomo, che lo costrinse a scartare di
lato. Ne approfittai per saltare in piedi e aggredirlo frontalmente.
- Bambino! -
ripeté lui. Lo colpii una volta con l’automail, una seconda. Parò il terzo
colpo, gli tirai un calcio. Lui rispose con un pugno alla mascella. Lo colpii
allo stomaco. Mi sgambettò, il bastardo!, e batté le mani. Dalla parete di
mattoni uscì un’enorme mano diretta verso di me.
Errore! Utilizzai
di nuovo il mio pilone, e il pugno disintegrò la manona.
Risi, asciugandomi con
il dorso della mano il sangue che usciva dal labbro spaccato.
- I mattoni che
compongono le pareti interne non sono altro che argilla. I piloni portanti di
una casa sono di cemento armato. - gli dissi.
Quando un uomo dalla
mano d’argilla incontra un uomo dal pugno di cemento, l’uomo dalla mano
d’argilla è un uomo morto!*
Ringhiò come un cane
pronto ad azzannare, ma aveva il respiro affannoso. Anche io, del resto, ed ero
molto più indolenzito di quanto credessi possibile: ogni muscolo del mio corpo
protestava, impreparato ad uno sforzo simile e consumato da mesi di privazioni.
Non ero più un ragazzino. Certe acrobazie erano ormai troppo per me. Per
fortuna, neppure Holze era messo meglio: sotto la scorza nera c’era pur sempre
un cinquantenne robusto che doveva aver fatto ben poca attività fisica
nonostante fosse un militare. Era veloce, d’accordo, ma la sua resistenza aveva
dei limiti.
- Fuoco! -
ansimò.
- Scordatelo! -
ribattei, chinandomi per tornare ad attaccarlo se avesse tentato di schioccare
le dita.
- Fuoco! -
ripeté, la voce colma di panico.
Finalmente, sentii
l’odore. Fumo? Mi voltai.
La maledetta candela si
era rovesciata durante la lotta, rotolando giù dal tavolino e appiccando il
fuoco al tappeto. Non mi piacque la velocità con cui si propagavano le fiamme.
- Colonnello, dobbiamo
uscire da qui! - dissi, tendendo una mano (l’automail, per sicurezza) verso di
lui.
- Fuoco! -
strillò la creatura, saltando indietro. - Fuoco, fuoco, fuoco! -
- Stia tranquillo,
possiamo salvarci. Venga con me! -
Mi ignorò. Si appiattì
contro la parete, tremando, e cominciò a muovere freneticamente le dita della
mano destra.
- Non lo faccia! -
gridai, intuendo i suoi intenti.
La folata arrivò,
spingendomi indietro e rovesciandomi. Era sempre bollente, ma meno violenta di
prima; puntellandomi su un gomito, mi sollevai.
- Misericordia! -
esalai.
Sapevo che l’alchimia
del fuoco era una tecnica molto difficile da apprendere e controllare. Holze non
ne era capace: aveva copiato i rudimenti, ma questi non bastavano minimamente.
Quella volta era riuscito a usare l’ossigeno per accendere la fiamma, ma non era
stato in grado di dirigerla, causando un’esplosione di scintille che aveva
incendiato praticamente ogni cosa, compresi noi due. Mi battei le mani addosso
per spegnere i vestiti, mentre la creatura nera lanciava urla sempre più forti,
accecata dal dolore a dalla paura.
- Dannazione, stia
fermo! - ringhiai, togliendomi in fretta il soprabito e gettandoglielo addosso.
Mancai il bersaglio, ma solo perché Holze si spostò subito. - E magari già che
c’è veda di collaborare! Sto cercando di aiutarla! -
- Ed! -
Alphonse era ricomparso,
e ora fissava sbalordito un grazioso salotto alto-borghese che si trasformava in
un forno. Lo fermai prima che decidesse di diventare la braciola da cuocere.
- Al, corri fuori!
Chiedi a Mustang se può chiamare i pompieri, e fai allontanare tutti. È
completamente fuori controllo. -
Giusto per dare
credibilità alle mie parole, Holze batté le mani e subito uno spuntone di
cemento forò la parete un paio di metri sopra le nostre teste.
- Io cerco di fermarlo.
- decisi.
Lui non parve felice
della mia idea (non lo ero neppure io): si tolse la giacca della divisa e me la
lanciò, prima di sparire di corsa.
- A noi due! -
esclamai. - Ho promesso a Klaus che l’avrei riportata indietro, e lo farò! -
Sollevò il viso nero
ustionato.
- Klaus? -
Trattenni il fiato.
Ricordava qualcosa?
- Klaus, sì. Suo
figlio. - Da qualche parte, sentii il rumore di un crollo. - Che ne dice di
andare a parlare di lui fuori da qui? -
Mi fissò a lungo, e
visto che non sembrava volermi aggredire ne approfittai per avvicinarmi. Non si
oppose; gli passai la giacca di Al sulla schiena per spegnere le scintille. Che
capisse o meno, mi importava poco. C’era ancora qualcosa di umano in lui!
- Venga con me! - lo
presi per una mano e cominciai a trascinarlo fuori, evitando il tappeto in
fiamme. - Faccia attenzione... Metta il piedi qui... attento! -
Dal soffitto cadevano
schegge di legno infuocato, mentre gli scricchiolii si moltiplicavano. Quanto
avrebbero retto quei muri? Tutto il materiale usato nella lotta era stato tolto
da altre parti, la struttura stessa della casa doveva essere compromessa.
Holze strillò, quando
una fiammella gli cascò in testa, bruciando una parte della sostanza nera che lo
ricopriva. Gli passai la giacca sulla testa per spegnerla.
- Tutto a posto. -
dissi. - Ora... -
L’uomo nero mi spinse a
terra e, mentre ancora mi riprendevo dalla sorpresa, saltò indietro. Batté le
mani.
- Non tocchi i muri! -
urlai.
Da sotto la giubba
scaturì una fiamma, che in un istante avvolse il colonnello e lo trasformò in
una torcia. Emise un gemito raccapricciante, che ancora oggi risuona nei miei
incubi, e dopo pochissimi istanti si accasciò al suolo.
Rimasi a guardare quella
scena orribile senza riuscire a distogliere lo sguardo, né a correre in avanti
per aiutarlo. Non avrei potuto fare comunque nulla, e in ogni caso non sapevo
più dove andare: il fuoco mi circondava le caviglie, iniziava ad attaccarsi
all’orlo dei pantaloni e non mi lasciava nessuna via di fuga.
Uno schianto sulla mia
testa mi strappò allo stato di trance. Alzai gli occhi, in tempo per vedere il
soffitto venirmi incontro e i muri richiudersi sopra di me.
Merda, pensai,
battendo per l’ultima volta le mani.
* * *
Passò un’ora prima che
trovassero il corpo.
- Signor Elric... - mi
chiamò uno dei pompieri, esitante.
Ad Amestris, il corpo dei
Vigili del Fuoco faceva parte dell’esercito. Quindi, il generale Mustang aveva
fatto valere tutta la sua autorità per mobilitarne il più possibile: sembrava
che tutto il Quartier Generale di Central City fosse lì, impegnato a scavare. E
pensare che era crollata solo metà della villetta, mentre l’altra restava in
piedi, spettrale nella polvere che non si era ancora posata del tutto.
Mi alzai, ignorando la
testa, la schiena, le braccia e le gambe che dolevano: avevo continuato anche io
a spostare macerie a mani nude, senza badare a tutti quelli che mi ripetevano di
andare a riposare. Il generale Mustang girò il viso, per fissare l’uomo che era
arrivato con l’occhio sano.
- Dovrebbe seguirmi. Se
la sente? -
Stava cercando di usare
tutta la delicatezza di cui era capace, ma non fu difficile capire il perché di
quella richiesta: spostai rapidamente lo sguardo su Winry, in piedi oltre il
recinto che separava il giardino dalla pubblica via. Era immobile, gli occhi
sgranati e il volto di pietra, e stringeva Alex tra le braccia con furia
possessiva, come sfidando il mondo a strapparglielo di nuovo. Non riuscii a
capire se avesse sentito, ma doveva aver comunque intuito.
- Arrivo. - dissi.
Mi accompagnò davanti ad
una sorta di buco tra i detriti. Era là, al centro di quel cratere artificiale.
Esattamente come avevo
immaginato, il cadavere era completamente carbonizzato. Al buio, mi riuscì
difficile anche solo vederne i contorni tra le macerie. Mi inginocchiai sul
bordo, e i miei muscoli si torsero dolorosamente, ma me ne accorsi appena.
C’era ben poco di umano
in quell’ammasso contorto. Niente capelli, niente vestiti, solo ossa annerite e
poca carne, rossa e così puzzolente che dovetti trattenere un conato di vomito.
Tremai convulsamente per la tensione, e allungai il collo per osservare meglio.
- Lo riconosce? - mi
chiese qualcuno.
Non risposi. Continuavo a
guardare quella povera creatura, pensando freneticamente e piantandomi le unghie
nelle cosce.
Se solo mi fossi
sbrigato. Se solo avessi corso più velocemente...il generale mi aveva già detto
che sarebbe servito solo a farmi seppellire insieme a quei due, e una parte di
me lo sapeva benissimo. Ma la verità è che, davanti alla morte, difficilmente si
ascolta la voce della ragione.
Sentii del movimento alle
mie spalle, poi il gemito di Winry. Pochi istanti dopo, lei mi fu a fianco,
un’onda di capelli biondi che invase il mio campo visivo; si era gettata bocconi
alla mia sinistra, le mani sul viso.
- Al... - mi implorò,
graffiandosi le guance.
Le passai un braccio
intorno alle spalle e la strinsi.
- Non è lui. -
dichiarai.
Winry si voltò di scatto,
così come tutti quelli che ci stavano attorno.
- Come fai a dirlo? - mi
chiese, aggrappandosi alla mia camicia. Voleva credermi con tutte le sue forze,
ma non ci riusciva.
- Le scarpe. -
La voce del generale
Mustang suonò calma, sicura, il tono del professionista che sta facendo il suo
lavoro. Per un istante mi chiesi quante persone lui avesse ridotto in
quello stato. Fu un pensiero fugace, subito scacciato da un sollievo che quasi
mi fece piangere.
Il cadavere non aveva più
i vestiti, ma le scarpe non erano bruciate del tutto: si vedeva ancora la spessa
suola degli stivali militari, che le fiamme non erano riuscite a squagliare
completamente.
- Ed indossava delle
scarpe basse, con le stringhe. - spiegai, a Winry come a me stesso. - Le sue
suole erano molto più sottili di queste, tanto più che erano vecchie e logore. -
Lei mi ascoltò ad occhi
spalancati, bevendosi ogni parola. Poi si coprì il viso con le mani è scoppiò in
lacrime.
- C’è ancora speranza...
- sussurrò, con voce spezzata. - C’è ancora speranza. -
La abbracciai, senza dire
nulla. Lei riusciva ancora a crederci, io facevo sempre più fatica a
convincermene; la vista del corpo devastato del colonnello Holze, invece di
tranquillizzarmi, stava cominciando a rendermi ancora più rassegnato al peggio.
Dovevano essere vicini,
al momento del crollo. Se lui era ridotto così, cosa poteva essere rimasto di
Ed?
- Alphonse? - mi chiamò
Winry, ricomponendosi. - Mi sei testimone. Appena riesco a riportare a casa
quell’idiota di tuo fratello, non gli permetterò mai più di scapparmi. Mai
più. -
C’era una nota isterica
nella sua voce. Cercai in tasca un fazzoletto da offrirle, ma quando lo trovai
lo macchiai con le mie dita sporche. Lei non ci fece neppure caso, e me lo
strappò di mano per asciugarsi gli occhi, le mani che tremavano appena.
- Lo ami, Winry? -
chiesi.
Si morse il labbro.
- Non posso impedirmelo.
- ammise con dolcezza.
- Anche lui ti... - mi
interruppi. Stavo per dire anche lui ti amava.
Stavo già usando il
passato. Il pensiero mi fece rabbrividire.
Da qualche parte,
qualcuno urlò.
* * *
Qualcuno urlò? Non me ne
accorsi. In realtà, non mi accorsi di nulla finché qualcuno non mi toccò una
guancia con un dito; solo allora ripresi conoscenza. Aprii a fatica le palpebre,
che sembravano appiccicate tra loro, trovandomi di fronte un uomo nero dalla
testa ai piedi: viso nero, capelli neri, abiti neri. Pensai fosse Holze, che
forse la sostanza nera lo avesse protetto, ma mi accorsi subito che quella
pellicola scura in particolare era solo un impasto di fuliggine e sudiciume.
- Finalmente! A forza di
schiaffeggiarti, mi stavano cominciando a far male le mani! - sbottò quello,
alzando cinque dita polverose come il resto del corpo.
- Mi hai a malapena
sfiorato, Al. - rettificai. La mia voce suonò così roca e debole che feci fatica
a riconoscerla. Mio fratello si alzò faticosamente in piedi e lasciò il posto ad
un paio di pompieri.
Non ricordo granché dei
minuti che seguirono. So solo che avvertivo fitte in ogni parte del corpo, e che
quando mossi l’automail scoprii che del braccio restava giusto qualche cavo, un
po’ di metallo annerito e contorto e tre dita.
Winry mi avrebbe
ammazzato. Sarebbe stata così furiosa da non accorgersi che il mio braccio vero
era rotto, oppure ne avrebbe approfittato per staccarmelo a morsi.
Comunque, quei simpatici
ragazzi assoldati dal generale mi tirarono fuori dalle macerie senza ulteriori
danni alla mia carcassa. Uno di loro era abbastanza espansivo da spiegarmi pure
come avevo fatto a salvarmi:
- Due travi sulla sua
testa si sono incastrate tra di loro, e hanno fermato la parete che le è
crollata addosso. - diceva allegramente. - Non mi spiego come sia possibile, ma
le fiamme devono essere state spente dalla polvere, se no avrebbero consumato
tutto l’ossigeno presente nel buco in cui lei era finito... -
- ... oltre alle tue
misere ossa, Acciaio. - terminò Mustang, gioviale.
- Veramente ho usato
l’alchimia. - rettificai, punto sul vivo. - Ho spostato l’ossigeno e... in ogni
caso, grazie per la spiegazione scientifica. - mi voltai verso Al. - Holze?
L’avete trovato? -
Nonostante la maschera
di sporcizia, vidi la sua espressione mutare di colpo. Chiusi gli occhi.
- È morto, vero? -
chiesi.
- Mi dispiace. -
- Alla fine si era
ricordato di suo figlio. - mi coprii il volto con quel che restava dell’automail
e piansi.
* Solo per questa frase
meriterei di essere scuoiata. Non ho resistito. È saltata fuori mentre ero sola
in casa e ne approfittavo per immaginare i movimenti di Ed e Holze in una stanza
di medie dimensioni (nella fattispecie, il salotto di casa mia... non ridete.
Sono una persona pignola metodica).
Pensierino della
buonanotte: non ho mai saputo che pensare del colonnello Georg Holze. Mi
dispiaceva ucciderlo, anche se razionalmente sapevo che era inevitabile, che
intraprendendo la strada “sostanza nera + follia” lo avevo di fatto condannato a
morte; però mi rattristava l’idea di eliminare un personaggio che alla fin fine
non sembrava poi così cattivo. Ha anche aiutato Ed, un tempo, quando lo aveva
dichiarato inabile alla leva. La sua colpa è stata la passività mostrata con
Hedwig, il suo non opporsi ai piani del Presidente: ha badato solo al suo
orticello, e anche la decisione di salvare Alphonse sul Reno era dettata solo da
interessi personali (aveva bisogno di soldati per il piano di Hedwig, così ha ne
ha approfittato per portar via il figlio Klaus dal fronte: la vita di Al era del
tutto contingente, se anche fosse morto non si sarebbe affranto). Einstein
diceva che “Il mondo è quel disastro che vedete, non tanto per i guai
combinati dai malfattori, ma per l'inerzia dei giusti che se ne accorgono e
stanno lì a guardare”, e Holze ne è la prova vivente - o morente, dipende
dai punti di vista.
Ora passo a rispondere, scusandomi in anticipo
se a dicembre tardassi a pubblicare: in teoria dovrei laurearmi, quindi è
possibile che in questi mesi sia un po’ impegnata, sempre se riuscirò a
placcare il relatore della mia tesi e costringerlo ad ascoltarmi, cosa che mi ha
reso difficile pubblicare in tempo questo capitolo...
Nota dell'ultimo minuto: grazie a Leuconoee per avermi fatto notare l'erroraccio degli occhi di Alex, che da castani sono diventati azzurri nella prima versione di questo capitolo! Sono corsa a correggere vergognandomi come una ladra...
Obito
Uchiha: Winry incinta per un anno intero? L’incubo di tutte le donne in
gravidanza! Poveretta...
Leuconoee: non so se considerare quella di Winry una
crisi isterica o meno: cioè, in una situazione simile sarebbe stato ragionevole,
e anche in tutte quelle in cui si è trovata nella serie... ora che scrivo, sto
cominciando a pensare che il problema di questa ragazza non sia la lacrima
facile, quanto l’innegabile fatto che la gente intorno a lei si fa sempre un
male cane...
Sì, la faccenda della
glassatura nera è inventata a partire da quel poco che si è visto nel film, e
cioè che i soldati con le armature e Miss Ora Spacco Tutto Con Le Mie Armate Del
Male sono usciti ridotti come cormorani della Louisiana, mentre Ed e Al hanno
fatto avanti e indietro senza danni. Ho pensato quindi di spiegare la cosa nel
modo più semplice possibile, e cioè che le persone nel nostro mondo non possano
attraversare il Portale (questo conduce a tutta una serie di domande tipo “ma
allora ci sono differenze genetiche tra le due popolazioni?” a cui non voglio
neppure tentare di rispondere...); la storia della pazzia di Holze è ancora più
inventata, perché il Presidente ha dato segni di squilibrio (...cioè, di
squilibrio più forte del solito...) solo alla fine, prima che l’alter ego di
Hughes la uccidesse. Del resto, anche in questo capitolo ho inventato tutto quel
che capita quando non si padroneggia l’alchimia del fuoco, usando un po’ di
conoscenze in chimica e molta fantasia... alla fine, tre anni di chimica a cosa
mi son serviti? A scrivere fanfiction! Andiamo bene...
Sì, ho dei grossi
problemi a rendere i combattimenti. Lo ammetto. Oltre ai problemi logistici -
finisco sempre per creare battaglie in salotti o altre stanze chiuse, ma questa
è colpa mia -, temo sempre di spezzare la tensione: ho cercato di seguire il tuo
consiglio, facendo frasi più brevi e lasciando i pensieri a dopo, ma senza le
riflessioni del personaggio il testo diventava noioso da morire. Sembrava di
seguire un incontro di tennis alla radio... Per quanto riguarda il numero di
capitoli, annuncio che ne mancano solo più due più l’epilogo, quindi... manca
poco!
Lindemann? Avevo paura
che la gente non si ricordasse più di lui: fortuna che non è così!
Kiki75:
Alex è intonso! Alla fine dello scorso capitolo, a dire il vero, mi sentivo un
po’ stupida a creare tutta quella tensione: chi crederebbe, pensavo, che io
voglia davvero uccidere Alex? Per questo stesso motivo non ho tirato per le
lunghe la ricerca di Ed sotto le macerie: era impossibile crederlo morto per
davvero, chiunque si aspetta che lo tirino fuori ancora vivo.
Liris:
la scena di Winry è vista con gli occhi di Edward, che hanno già dimostrato di
non essere per nulla obiettivi su quell’argomento... guarda se si può, mi stava
diventando geloso del fratello!
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