Corsa riservata
Corsa
riservata
Give
me a long kiss goodnight
and everything will be alright
Tell me that I won't feel a thing
So give me Novocaine.
Green
Day – Give me Novacaine
Edith lasciò cadere dalle dita
l’ennesima sigaretta. “Lasciò cadere” però non è l’espressione
giusta. Piuttosto le cadde di mano e lei non si premurò di raccoglierla. Non si
premurava più neppure di pulirsi il moccio dal naso né di scostare dalla
fronte le ciocche di capelli sporchi.
Da quant’era che non si lavava? Da quanto non dormiva
in un vero letto? Da quanto non pensava a mente lucida? Con quella ridotta
porzione di cervello che la droga non aveva ancora bruciato riuscì a richiamare
alla mente il ricordo di una festa in giardino e sorrise. Suo padre davanti alla
griglia, sua madre che arrivava con un anguria matura, sua sorella che gridava
come una forsennata lanciando in aria un palloncino rosso. Rosso? Non era forse
giallo? Ma alla fin fine che importava? Riuscì a trattenere quei ricordi solo
per qualche istante, poi la nebbia della sua mente ebbe nuovamente la meglio e
le lasciò sulle labbra un sorriso vacuo come il fumo di uno spinello.
Sospirò e dalle sue narici uscì
fumo, come se fosse un drago. Rise da sola a quel pensiero, perché da piccola
le piacevano tanto i draghi. Appoggiò la schiena al muro sporco di graffiti
della stazione della metropolitana di Berlino.
Dai, facciamo un gioco,
le propose il suo cervello.
«Spara.»
Io ti nomino alcune persone e
tu devi ricomporre i loro volti nella testa.
«Come un puzzle?»
Sì, esattamente.
«Mi piace. Sembra facile.»
La tua prima maestra.
Edith richiamò alla mente un
volto rotondo, le labbra rosse e una dentatura bianchissima. Il volto della sua
insegnante le apparve nitidamente.
«Fatto.»
Tua sorella.
Due occhi color nocciola,
capelli biondi raccolti in due trecce e un piccolo naso che loro zia amava
strizzare.
«Questa era troppo semplice.»
Emil.
Edith smise di respirare. Che
volto aveva Emil? Perché non riusciva a ricordarlo? Forse perché, poco dopo
averlo conosciuto, era cominciata la sua odissea nel mondo della droga. Tanti
dicono “il tunnel della droga”, ma Edith non lo trovava appropriato. In un
tunnel difficilmente perdi la strada e finisci sempre e solo in un posto. Con la
droga è diverso. Prova tu a camminare dritta con due grammi di eroina in
circolo. Prova tu, poi mi dici se è un tunnel! Rise, perché trovava la battuta
estremamente spiritosa.
No, pensò Edith, la droga è
come una scatola. Si è tutti lì dentro, poi qualcuno chiude il coperchio e
scuote. Tu non capisci niente, è buio, perdi in controllo di te stessa e poi,
prima o poi, si riapre e non sai cosa ti troverai di fronte quando ne uscirai.
Certo, per qualcuno la scatola non si riapre più, ma questo è un rischio
calcolato.
Allora, che volto ha Emil?
«Non seccarmi. Sai che ti dico?
Sarei più felice senza di te.»
Non ne dubito. Tutti starebbero meglio senza cervello.
Almeno non dovrebbero fare la fatica di pensare. Basta la droga, no?
No, la droga non basta mai. Edith lo sapeva. Per questo
era subito diventata dipendente da Emil. Aveva gli occhi verdi, giusto? Un verde
spento però, come una camicia a quadri sbiadita che una volta metteva per
andare a scuola. Quando ci andava ancora a scuola, beninteso. E poi? Poi aveva
le lentiggini, tante lentiggini rosse su tutta la faccia che, a contarle bene,
veniva il mal di testa. Ce le aveva anche sulla schiena, le lentiggini, ne era
pieno. Era l’immagine di Emil che più si adattava a lui: una schiena piena di
lentiggini rosse.
Edith la ricordava bene, la sua
schiena. Ricordava quella notte intera passata a guardargliela. Era bianca
come…come il formaggio e aveva quelle macchiette rosse che, a prima vista,
sembravano schizzi di pomodoro. Poi aveva preso coraggio e si era avvicinata di
più a quella schiena formaggio-pomodoro tanto appetitosa e vi si era posata.
Aveva fatto passare le mani fra le braccia di Emil e si era stretta a lui.
Posando la testa sulla sua schiena poteva sentire il suo cuore battere regolare.
Aveva dormito così quella notte, abbracciata ad Emil ad ascoltargli il cuore.
Lo aveva amato davvero, ne era convinta, perché se ci ripensava il suo cervello
mandava un segnale agli occhi e li faceva lacrimare e il suo cervello la
conosceva bene. Sì, ripensare a lui la faceva piangere.
L’aveva trascinata Emil nella
“scatola della droga”, ci si erano chiusi dentro di loro spontanea volontà
ed erano rimasti abbracciati tutto il tempo. Non aveva avuto paura.
Forse l’aveva amata anche Emil.
Erano due spiriti soli, loro, e per un po’ erano riusciti a darsi sostegno a
vicenda. Chissà dov’era finito, lui. Chissà se era morto quella notte o se
si era salvato. Chissà se era in ospedale e, in tal caso, in quale e se ci si
poteva arrivare con la metropolitana.
Edith percepì la metropolitana
in arrivo. Prima sentì lo spostamento d’aria, poi il rumore. Ma la
metropolitana non arrivò. Fermo davanti a lei, sopra i binari, c’era un
drago. Edith sbatté più volte le palpebre. Impossibile. Non poteva trattarsi
di un drago vero. Si guardò intorno: la stazione era deserta. Il drago fece
uscire il fumo dal naso. Edith provò ad imitarlo.
«Devi migliorare. Sei ancora
una dilettante» la rimproverò il drago.
«Scusa, signor drago.»
«Di nulla, mi sei simpatica.
Dove vuoi andare?»
Edith ci pensò qualche secondo.
«Voglio andare da Emil.»
«Salta su.»
Edith si avvicinò sospettosa.
Allungò la mano, per accertarsi che il drago fosse vero. Le sue dita
percepirono la ruvidità delle squame. Guardò verso la coda del drago, ma non
riuscì a scorgerla, perché finiva nel tunnel che non era illuminato. «Caspita,
sei lungo signor drago.»
«Abbastanza.»
«Ma ci sono solo io?»
«Questa notte sì. Sei stata
fortunata.»
Edith appoggiò bene le mani e
vi saltò a cavallo. «E’ facile. È come andare sulle giostre. Sai, da
piccola ci andavo spesso sulle giostre e mi sedevo sempre sui cavalli, non sulla
carrozza. Però se ci fosse stato un drago sulla giostra, sarei salita lì.»
«Non ne dubito. Allora, sei
attaccata bene?»
La ragazza tentò di abbracciare
il drago, ma non riusciva neppure a sfiorarsi le mani, come quando da piccola
tentava di abbracciare le querce.
«Attaccati alle corna» suggerì
il drago.
«Buona idea.» Edith si attaccò
appena in tempo. Il drago partì a tutta velocità e lei sentì i capelli
sporchi spostarsi finalmente dalla fronte. Tornò lucida. «Sei veloce, drago!»
«Il più veloce!» ruggì lui.
Il buio del tunnel si riempì di stelle e il drago si alzò in volo. Dall’alto
si potevano vedere prima le auto che correvano per le strade, poi le case
illuminate, poi gli edifici più alti e poi tutta Berlino. «Allora, andiamo da
Emil?»
«Sì, da Emil!» gridò lei
felice.
Il drago volò in picchiata e
l’aria fresca della notte la risvegliò. Avrebbe rivisto Emil. Lui sarebbe
stato di certo contento di rivederla. Gli sarebbe stata accanto un notte o due,
il tempo di vederlo riprendersi, poi sarebbero usciti insieme dall’ospedale.
Forse quella sarebbe stata la volta buona. Forse finalmente avrebbero smesso,
almeno con l’eroina.
«Ehi, drago, tu sai che faccia
ha Emil?»
«Ha gli occhi verde cupo e le
lentiggini.»
«Già» disse sorridendo «e lo
sai che le ha anche sulla schiena? Ne è coperto!»
Il drago rallentò fino a
fermarsi davanti ad un ospedale. Edith sbirciò dalla finestra dentro la camera.
Sul letto in fondo vide Emil. «E’ qui! L’ho trovato. Drago, avvicinati di
più, così posso scendere.» Mise un piede sul davanzale della finestra, si
aggrappò saldamente all’interno della stanza e con un balzo entrò. Si
diresse spedita verso il letto del ragazzo. Eccolo, il volto di Emil, come aveva
potuto dimenticarlo? Gli accarezzò la guancia con il dorso della mano. Sorrise,
ma cominciò a piangere. Si inginocchiò di fronte al letto e pianse senza
ritegno. Cercò fra le coperte le mani di Emil e le trovò fredde e rigide.
L’aveva amato e lo amava
ancora, lo capiva perché dentro a sé sentì come un esplosione con la potenza
di dieci bombe atomiche premerle contro il petto. Provò dolore.
Con una mano scostò i capelli
dalla fronte di Emil, i suoi capelli biondi che profumavano di argilla. Chissà
poi dove lo avevano preso quell’odore.
«Svegliati, Emil, sono io,
Edith. Guardami, sono arrivata fin qui a cavallo di un drago. Posso restare qui,
se vuoi, finché non starai meglio. Poi però cerchiamo un lavoro e con i soldi
prendiamo una camera in affitto, una camera tutta per noi, così possiamo
tornare a dormire insieme. Mi manca la tua schiena, la tua schiena bianca e
lentigginosa.» Com’era magro! Il collo sembrava non riuscire a reggere la
testa, che risultava posata sul cuscino, senza peso. Gli lasciò le mani e
all’improvviso ebbe paura. Si avvicinò al suo viso immobile.
Ti ricordi quando eri bambina e tu e tua sorella
giocavate a fare i morti? Vi stendevate a letto, vi mettevate composte, con le
mani in grembo e poi trattenevate il respiro. Ti ricordi, Edith, o hai
dimenticato?
No, non aveva dimenticato, solo
era rimasta sorpresa che Emil conoscesse questo gioco. Forse anche lui lo faceva
da piccolo coi suoi fratelli, e probabilmente vinceva sempre perché era davvero
bravo.
«Forse è meglio se torno
domani, va bene?»
Lui non le rispose. Strappò un
bacio da quelle labbra fredde e secche e posò le dita per l’ultima volta su
quelle guance lentigginose. Pensò che quel bacio avrebbe potuto ridargli il
respiro, ma Emil non si svegliò.
La scatola della droga aveva
vinto. Per lui il coperchio non si sarebbe più riaperto.
Edith tornò alla finestra e salì
di nuovo a cavallo del drago.
«Drago, portami a casa» disse
stringendolo.
«Mi spiace, ma si può fare un
solo viaggio a notte. Ti riporto alla stazione, da lì te la devi cavare da
sola.»
«Ho sempre il mio cervello.»
«Beh, allora non sei sola.»
Edith si aggrappò alle corna e
il drago ripartì.
Ehi, lo facciamo un gioco?
«No, basta cervello, sono
stanca.»
E’ divertente: io ti dico un numero di anni e tu mi
dici quali erano i tuoi sogni a quell’età. Cinque anni.
«Volevo aprire un negozio di
dolci.»
Dieci anni.
«Volevo fare l’imperatrice.»
Dodici anni.
«Volevo farmi un tatuaggio.»
Diciassette anni.
«Voglio tornare a casa» disse
in un sospiro. «Ehi, cervello, tu ti ricordi come si torna a casa.»
So prendere la metropolitana.
«Penso possa bastare.»
Edith lasciò cadere la
sigaretta. Anzi, la gettò a terra e la pestò con rabbia, perché quella
maledetta sigaretta, insieme alla maledetta eroina e a quella maledettissima
città, le avevano prima dato e poi tolto Emil. Ma ora non ci voleva più
pensare.
Sentì prima lo spostamento
d’aria, poi il rumore. Davanti a lei si fermò la metropolitana. La stazione
era deserta: nessuno doveva salire, nessuno doveva scendere.
«E’ questa la linea giusta,
cervello?»
E’ questa.
Edith prese la borsa e salì.
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Questo
racconto si è classificato 5° al concorso di Eylis: "La stazione e il
drago". L'idea mi piaceva così tanto che ho cominciato a scriverlo
all'istante e non mi sono staccata dal computer finché non l'ho finito.
Ringrazio Eylis per avermi fornito una lampadina da accendere.
La scelta del titolo mi ha portato via praticamente un mese e non ne sono ancora
soddisfatta.
Le informazioni sulla droga le ho trovate su wikipedia, non avendo fonti più
attendibili cui attingere.
E, riguardo alla metropolitana, sì, sono andata a prendere la metropolitana a
Berlino e sì, arriva prima l'aria, poi il rumore e poi la metro :D
Saluti
ireat
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