Odiavo la montagna, e odiavo i miei nonni che vi ci
abitavano.
Odiavo
l’aria che si respirava che quasi preferivo quella
dello smog da città.
Odiavo
i fiorellini, odiavo lo stagno con i pesci, odiavo
gli insetti, e odiavo poter vedere l’arcobaleno che si formava dopo la
pioggia,
in quel cielo senza grattacieli.
Odiavo
tutto di quel posto, tutto ciò che mi circondava.
Avevo
nove anni quando i miei genitori mi affidarono ai
nonni, e quel posto che tanto amavo durante le vacanze si era
improvvisamente
trasformato in quello che più potevo odiare. Ma potevo essere
compatita,
dopotutto, se si considerava che quel posto era diventato il luogo dove
confinarmi quando i miei genitori, in città, potevano da soli tra un
litigio e
l’altro firmare le carte del loro divorzio.
Little Fairy Blossom
Mi
svegliò il cinguettio degli uccellini invece che la
sveglia di mia madre alle sei e mezza del mattino, per prepararsi e
correre in
ufficio. Prima non sopportavo quella sveglia, ma in quel momento mi
mancava.
Rimasi
a fissare il vuoto, coricata nel letto per un po’
prima di alzarmi, ancora in pigiama, e andare lentamente verso il
bagno, prima
di accorgermi che era occupato. Non bussai neppure, vedevo attraverso
lo
spiraglio della porta mio nonno allo specchio che si faceva la barba,
così
scesi le scale.
«Kati!
Sarei venuta io a svegliarti fra poco, ma dato che sei in piedi, ti
preparo la
colazione…».
Mia
nonna era così felice tanto da irritarmi. Sì, mi dava
fastidio il suo modo di fare, come se non stesse accadendo niente di
particolare, una vacanza come tante altre. Avrei voluto urlare ad ogni
suo
sorriso o risata per farla smettere, e non sapevo neppure io perché in
verità
non lo facessi.
«Non
ho
molta fame…», sibilai
mentre afferravo il telecomando, gettandomi a capofitto sul divano.
«Katia,
devi mangiare! La colazione è il pasto più importante della giornata,
non lo
sai?».
Eccome
se lo sapevo, mia madre me lo ripeteva ogni mattina
da quando avevo imparato a parlare, e in quel momento capii da chi
aveva preso.
«Devi
mangiare qualcosina, non puoi andare a giocare fuori senza niente sullo
stomaco!».
La
vedevo con la coda dell’occhio mettermi dei biscotti su
un fazzoletto di carta, sul tavolo, mentre cambiavo canale per cercare
i
cartoni animati del mattino. Le
tartarughe ninja, non ne
andavo matta, ma ormai lo stavo seguendo.
«Non
devo andare fuori a giocare, tanto!»,
mi strinsi ad un cuscino, mettendomi più comoda.
La
vidi sbuffare. Se non avevo voglia di andare a giocare
non poteva obbligarmi. Ero lì da appena tre giorni – anche se mi
sembrava già
passato un mese o forse più – e non ero ancora uscita da quelle mura:
in
vacanza invece non restavo a casa molto tempo che subito uscivo a
giocare con i
bambini delle case vicine, o a cercare lumachine dopo la pioggia, o a
raccogliere fiori, o a controllare come nuotavano i pesci nello stagno,
oppure
ancora a vedere se trovavo qualche nuova ranocchia; era sicuramente
questo che innervosiva
mia nonna, il fatto di non vedermi comportare come sempre.
«Ieri
sera è passata Jessica a casa… Te la ricordi Jessica? L’anno scorso
avete
giocato sempre insieme. E’ venuta perché ha saputo che sei tornata e
voleva
giocare ancora con te…».
«Non
è
vero che è passata Jessica! Io non l’ho sentita!».
«Sì
che
è passata…», continuava
cercando di convincermi. «Vero,
Earl, che è passata Jessica ieri sera?».
Vidi
mio nonno scendere le scale, tastandosi il mento appena
rasato. «Ah? Sì!», rispose.
«Tua
nipote non ci vuole credere… Visto, cosa ti dicevo?», si rivolse ancora
una volta a me.
Si
vedeva benissimo che non era vero, non era passata
nessuna Jessica il giorno prima. Come prima cosa, l’avrei vista
passeggiare
verso casa dei nonni considerando la sua casa era di fronte alla mia
finestra
ed io ci ero restata appiccicata tutto il giorno; e come seconda cosa,
credevo
di essere ormai abbastanza grande da non cascarci più nelle loro bugie
formato
bambino.
Probabilmente
era il cattivo umore che mi faceva essere più
sospettosa e puntigliosa del solito.
«Non
è
vero, ne sono sicura! Io non l’ho né vista né sentita! Se è venuta
perché non
mi hai chiamato?».
Sì,
ero decisamente puntigliosa.
«Perché
dicevi che non avevi voglia di uscire, ma oggi vai da lei e andate a
giocare,
va bene? Adesso mangia!».
Che
modo quasi astuto di convincermi a mangiare e ad uscire
a giocare, ed io, come avrebbe fatto chiunque al mio posto e a
quell’età, anche
se sbuffando, mi alzai per sedermi a tavola a mangiare quei biscotti,
accompagnati da una tazza di latte fumante.
Uscii
con mio nonno che doveva andare a tagliare la legna
per il fuoco e lo lasciai per correre a casa di Jessica. Non avevo
voglia di
giocare, ma volevo rivederla, dato che poteva essere mia amica solo
d’estate,
mi dicevo a quel tempo.
Salii
lo scalino vicino alla porta e mi allungai per
arrivare al campanello.
Udii
la corsa inconfondibile di Jessica venire verso la
porta, che ogni volta che si suonava il campanello doveva essere la
prima a
vedere chi era. E ancora prima che la porta si aprisse sentii le sue
grida di
gioia, pronta per far scattare la serratura: doveva aver visto la mia
sagoma
attraverso le tende alle finestre della porta.
«Katiii!»,
mi abbracciò. Era
felicissima, ma la sua felicità non mi dava fastidio: lei non sapeva il
perché
doveva invece essere triste, al contrario di mia nonna.
«Jessi,
chi è?».
«Mamma,
è Katia! Guarda!».
Mi
mostrava a lei come si mostra un trofeo, faceva sempre
così.
«Oh,
ciao, Katia! Quando sei tornata?»,
si avvicinò anche lei sorridente.
Quanto
avrei voluto aggiungere alla mia risposta un bel purtroppo.
«Qualche
giorno fa!».
Doveva
aver notato nel mio tono di voce che c’era qualcosa
di diverso, perché corrugò le sopracciglia per un attimo, prima di
sorridere
ancora.
«Mamma,
posso andare fuori a giocare con Kati?».
«No,
Jessica, finisci i compiti prima, che domani c’è scuola!».
«Ma
sono troppi, non mi resta il tempo poi per uscire!».
«Appunto
che sono troppi… Fila!»,
le indicò il tavolo del soggiorno, dove intravidi dalla porta lo zaino
aperto
sulle spalle della sedia.
Questa
era la sfortuna di non poterla vedere d’inverno: la
scuola. La mamma aveva detto alla mia che avrei saltato dei giorni per
problemi
familiari, ma Jessica e gli altri bambini continuavano ad andarci,
invece.
Dopo
la salutai e decisi di farmi una passeggiata per conto
mio.
Non
ero mai andata a fare una passeggiata da sola per la
foresta. Solitamente restavo vicino a casa, senza allontanarmi molto
dal paese,
ma quella volta, senza pensarci m’infilai fra gli alberi per andare
chissà
dove. I miei nonni pensavano che fossi con Jessica ed io invece, nella
mia
testa pensavo di ritrovarmi a casa.
Avrei
girato un angolo
e mi sarei ritrovata di fronte i grandi palazzi, e quando mi sarei
voltata
indietro, avrei visto invece che quella foresta era nientemeno che il
parco davanti
casa.
Pensavo
che sarebbe successo davvero, e aspettavo solo di
trovare l’angolo giusto.
«Sei
sola?».
Quando
udii quella voce lontana chiedermi se ero sola, mi
spaventai non poco. Mi voltai, credendo di poter vedere dietro di me
chissà
chi, e invece non c’era nessuno.
Nessuno.
«Sei
sola?».
Continuai
a sentirla e mi salirono i brividi.
In
quel periodo mandavano alla tv una serie di telefilm che
trattavano di fantasmi e creature della notte, e la guardavo con i miei
genitori, che tanto non mi faceva paura, sapevo che era tutto finzione,
eppure,
in quel momento, pensai di ritrovarmi in uno di quegli episodi.
«Sei
sola? Non girare da sola
per la foresta, è pericoloso!».
«Chi
sei?».
Ci
provai a chiedere chi era, eppure mi sentivo tanto vicina
a questa come lontana. Non sembrava volermi rispondere.
«Torna
a casa! La foresta non fa
per te! Torna a casa!».
Impaurita
cominciai a correre, sperando di seminare quella
voce, ma più correvo e più mi sembrava di averla vicina, quasi addosso.
«Non
andare per di là! Fermati! Non
correre, ho detto di fermarti!».
Più
però sentivo quella voce e più forte correvo, senza
rendermi conto che mi ero allontanata fin troppo da casa dei nonni.
«Ho
detto di fermarti! Non
farlo!».
Corsi,
corsi ancora, senza neppure guardare dove mettevo i
piedi. Rischiai di cadere tra i rametti e l’erba più volte, ma questo
non
riusciva a bloccarmi.
«Fermatiii!».
Mi
urlò ed io mi voltai.
Vidi
la punta degli alberi che scendeva e mi accorsi del
piede messo male. Stavo cadendo. Sentii il senso di vuoto in un attimo.
Se solo
le avessi dato ascolto anziché scappare, non sarei caduta in un
burrone, quella
volta.
«Presa!».
Quando
riaprii gli occhi continuavo a sentire quel senso di
vuoto, che i miei piedi non toccavano terra, ma allo stesso tempo mi
sembrava
di galleggiare magicamente per aria. Vidi delle piccolissime luci
colorate
attorno al mio corpo, gialle, rosse, blu, verdi, arancioni, viola, ed
erano
bellissime. Mi sentii trascinare verso l’alto, fino a ritrovare il
contatto con
l’erba; e ad aspettarmi lì, davanti al dirupo, c’era lei: una
bambina, poco più bassa di me, tutta ricoperta di
foglie e con i lunghi capelli sul biondo sciolti, in mezzo ai
fiorellini.
«Meno
male che ti ho presa in tempo!»,
soffiò. «Perché non ti sei
fermata quando te l’ho detto? Potevi morire!».
Le
luci colorate svanirono dal mio corpo, come dissolte
nell’aria, ed io le osservai rapita e affascinata.
«La
foresta non è il posto per te!»,
continuò a dirmi lei. «Ti
sei allontana un po’ troppo da casa tua! Tornaci subito!».
«Che
cos’è successo?», domandai
invece io, che ancora non mi sembrava vero di risentire sotto i piedi
l’erba
fresca di pioggia. «E tu
chi sei? Eri tu quella che parlava prima?».
«Ma
certo che ero io, sciocca! Oddio, mi sembra di vivere un incubo!».
Si
passò una mano sul viso ma in quel momento non davo molta
importanza alle sue espressioni, continuavo a squadrarla da testa a
piedi come
se davanti a me ci fosse un alieno anziché una bambina come me, perché
in
effetti il suo aspetto poteva solo farmi capire quanto era lontana
dall’essere come me. E poi
era molto carina, più di
Jessica, che mi ripetevo sempre era la bambina più bella, che avevo
desiderato
per forza che fosse mia amica.
«Dove
ce li hai i vestiti?»,
domandai ad un certo punto, senza peli sulla lingua.
Me
lo chiedevo da un po’, soprattutto considerando che non
c’era per niente caldo nell’aria, essendo nel mese di ottobre. Io mi
tenevo
stretta alla mia giacchetta, lei alle foglie? Tremavo da parte sua.
«Io
non
ho vestiti, che me ne faccio?»,
sbraitò come fosse la cosa più ovvia del mondo. «Per
colpa tua potrei passare dei guai molto seri, lo sai? Se solo mi avessi
dato
ascolto, tutto questo non sarebbe successo!».
Iniziò
a camminare per la foresta ed io, immediatamente la
seguii, curiosa.
Che
cosa era successo? Mi domandavo. Stavo per cadere da un
dirupo e qualcosa di strano mi aveva salvato… Una magia? Era stata lei
a fare
la magia per salvarmi?
«Sei
stata tu a salvarmi per non cadere? Hai fatto tu quella magia?».
«Svegliati!
Certo che sono stata io! Se non ci fossi stata io a quest’ora saresti
morta, sepolta,
e dimenticata!».
«Allora
grazie!», le feci dandole
la mano per stringerla. La guardava però con un’espressione strana,
come
indecisa se stringerla o meno, oppure qualcos’altro, potrei forse
definire in
modo quasi disgustato.
«Ti
ho
salvata da morte certa e ora vuoi che ti stringa una mano? Non
chiedermi
troppo, sorellina, io non
tocco gli
umani! Ho già fatto abbastanza danni per oggi!».
«Umani?».
In
quel momento ero quasi indecisa se scoppiare a ridere
oppure non farlo. Ricordo che la fissai strabuzzando gli occhi,
mantenendo un
certo sorriso sulle labbra.
Anche
un altro bambino una volta mi aveva detto una cosa del
genere e in quel momento riaffiorai il ricordo: era il mio primo giorno
in
seconda elementare ed era arrivato un nuovo compagno di classe, per
farci
amicizia stavo andando a salutarlo quando ero inciampata e gli sbattei
addosso,
allora mi disse «Non
toccarmi, non sei degna! Io non sono umano
come voi, sono il principe dei vampiri!», qualche
giorno dopo
scoprimmo la sua passione per un cartone animato in cui dei vampiri
erano i protagonisti.
Non
pensava mica di prendermi in giro pure lei?! Mi dissi in
quel momento.
«Sì,
fammi indovinare: tu sei la principessa dei vampiri?!», risi; mi
sembrava una battuta divertente, ma lei
non rise affatto.
«No,
sono una ninfa…», mi
rispose, continuando a camminare attraverso gli alberi della foresta.
Cos’era
una ninfa? La sua risposta non faceva ridere, se era
una battuta per rispondere alla mia aveva fallito di certo.
In
quel momento però pensai che forse sapevo chi erano le
ninfe: quegli esseri femminili che abitavano immerse nella natura, che
dovevo
aver letto da qualche parte, forse a scuola.
«Una
ninfa?», mi accostai a
lei. «Non fa ridere!», le ammisi.
«Perché,
le ninfe devono per forza far ridere, secondo te?».
I
suoi toni cominciavano a darmi fastidio. Sembrava proprio
antipatica.
«Le
ninfe no, la battuta dicevo…».
«Quale
battuta? Io sono davvero una ninfa! Ecco perché mi sono cacciata in un
guaio
più grande di me, salvandoti: noi ninfe non possiamo, non dobbiamo,
intervenire
nelle faccende umane. Solo le grandi possono farlo, ma io sono ancora
troppo
piccola ed è proibito…».
«Proibito,
eh?».
No,
non mi aveva ancora convinta. Ero testarda e la mia
fantasia era andata lentamente a perdersi da quando avevo scoperto che
il caro
e vecchio Babbo Natale non esisteva.
«Proibito,
sì! Sei sorda?», quasi mi
urlò nelle orecchie. «Mi
avevano detto di stare lontano da voi ma io ho voluto disobbedire.
Volevo
aiutarti, perché la foresta è pericolosa per una bambina sola, invece
ho finito
per cacciarmi io nei guai… Stai lontana dagli umani, mi avevano detto.
Stai
lontana dagli umani, mi avevano detto.»,
continuava a ripetere come un disco rotto.
Per
convincermi davvero che era quella che diceva di essere,
in fondo, esisteva un solo modo. Credevo alla magia – e quella che mi
aveva
salvato dal dirupo poco prima era senza dubbio una magia –, quindi
perché non
credere alle ninfe. Il potere di una piccola ninfa mi aveva salvato.
«Sei
una ninfa davvero?».
«Sìì!
Come te lo devo dire? Eppure mi pare di stare parlando la tua stessa
lingua,
eh!».
«Fammi
vedere!», le sorrisi. Cosa può
fare una ninfa? Mi
chiesi.
«Il
tuo
colore preferito è il giallo, vero?»,
mi domandò, senza rifletterci
a lungo.
Che
cosa c’entrava il mio colore preferito? E come faceva
lei a saperlo?
Mise
una mano dietro i miei capelli e subito ne tolse un
piccolo fiore, veramente piccolino, naturalmente giallo, e tanto,
veramente
tanto bello. Il più bel fiore che io mai vidi in tutta la mia vita.
Sembrava
addirittura risplendere di luce propria.
«Tieni!»,
lo posò sulle mie mani, senza
gambo, come se questo si fosse strappato con naturalezza, senza
pressioni, in
modo delicato. «Per te!
Ora ci credi?», rise.
«Tu
sei
una maga…», dissi
solamente, osservando quel piccolo fiore tra le mie mani.
Ero
semplicemente affascinata. Niente di più, niente di
meno.
«Io
sono una ninfa!», mi
sorrise, allungando le mani verso il cielo.
Fu
in quel momento che l’intera foresta si riempì
magicamente dei fiorellini gialli: dagli alberi che cominciavano a
farne
piovere, ai tronchi di questi, all’erba bagnata, mentre crescevano a
vista
d’occhio, riempiendo tutto quello che riuscivo a vedere intorno a me.
Un
paradiso di fiori gialli. Magnifico.
Non
avevo parole per esprimere quello che in quel momento
provavo. Restavo a bocca spalancata, sperando forse che questa parlasse
abbastanza per me.
Perché
ci provai a parlare, però…
«Tu
sei
la ninfa più maga che io conosca…».
Aveva
senso quella frase?
La
feci ridere e mi prese per mano, cominciando a correre
insieme in mezzo alla pioggia di fiori gialli. Che spettacolo
meraviglioso.
Quando
rientrai a casa quella sera era già buio, nonostante
fossero appena le sette e poco più. Ero abituata a quell’orario e a
tornare a
casa con la luce del sole che si stava poco a poco spegnendo, d’estate,
e in
quell’istante non potevo credere che il cielo si fosse già fatto così
scuro.
«Kati!».
Mia nonna mi strinse forte a
sé come da tanto non faceva: l’avevo sicuramente fatta preoccupare un
po’
troppo. «Ma ti sembra
questa l’ora di tornare a casa? Tuo nonno è uscito a cercarvi! Jessica
è
tornata a casa?».
«Emh…
Sì…».
Le
avevo mentito. Più crescevo e più mi rendevo conto che
dire bugie era la cosa più giusta, se era a fin di bene.
Mia
madre e mio padre mi avevano sempre insegnato che dire
bugie era sbagliato, ma loro stessi per primi mentivano di fronte ad
una
difficoltà. Mi ero sempre chiesta, in quel periodo, se imparare a dire
bugie in
fin di bene era diventare grandi. Non avevo trovato la risposta, però
sapevo
che era quello che dovevo fare: un po’ per paura, un po’ perché non
potevo
raccontare a nessuno di aver conosciuto una ninfa, e che era diventata
mia
amica.
«Mi
chiamo Katia! Tu?».
«Sillybell!».
Avrei
mantenuto nascosto a tutti la nostra amicizia, come mi
aveva chiesto.
Mia
nonna telefonò a mio nonno, che fortunatamente riuscì a
capire come funzionava un cellulare – non era mai stato molto pratico e
l’odiava quel maledetto aggeggio –, e tornò a casa fortunatamente
proprio prima
di passare a casa di Jessica. Era la mia paura in quel momento, e
grazie al
cielo ringraziai che non aveva fatto in tempo.
Quella
sera mi sgridarono entrambi, ma in fondo sapevo che
erano contenti, perché ero uscita di casa con un’amica, e mi ero
divertita,
anche se non dissi niente a loro della serata.
Avrei
dovuto parlare con Jessica e dirle di mentire per me,
o almeno quella era la mia idea di partenza. Avevo bisogno che i miei
nonni non
scoprissero che non ero con lei e che non ci sarei stata nei giorni
successivi.
Mi
svegliai molto presto la mattina seguente, e lavata e
vestita, senza nemmeno far colazione, m’incamminai spedita a casa di
Jessica.
Purtroppo mi accorsi solo dopo esser quasi arrivata, dei bambini del
vicinato
che scendevano giù per il paese tutti insieme per la scuola. Troppo
tardi.
A
casa tornai sconfitta e feci colazione brontolando.
«Jessica
va a scuola, non puoi giocare con lei la mattina…»,
mi disse la nonna, che stava già preparando il pranzo.
«Però
esco lo stesso, voglio andare a raccogliere fiori…».
Un’altra
bugia.
I
fiori ci sarebbero certamente stati, ma il motivo per cui
dovevo uscire si chiamava Sillybell, ed era una ninfa.
Entrai
nella foresta di corsa e non mi era mai sembrata così
magica. Non scorgevo Sillybell, eppure vedevo quella foresta con occhi
nuovi.
«Sillybell!»,
la chiamai. «Sono io, Kati…».
Feci
qualche passo che vidi dei fiori gialli che si voltarono
a me. Sì, si voltarono: prima erano con la testa voltati verso il cielo
e poi
tutti insieme si girarono, come per guardarmi.
Feci
qualche altro passo e sentii qualcosa sfiorarmi la
schiena.
Inutile
dire che mi vennero i brividi, mentre lentamente mi voltavo
per capire cosa era stato.
«Sillybell,
sei tu?».
Alle
mie spalle non c’era nessuno, solo il ramo di un
albero.
Feci
degli altri passi, forse un po’ più veloci, impauriti, quando
un altro brivido ancora mi percorse la schiena: mi parve di veder un
albero
muoversi. Chinò i suoi rami e le sue foglie si mossero tutte insieme.
Sotto
di me l’erba tremava anche senza vento.
Cosa
stava succedendo?
«Eccoti,
sei tornata!».
Sillybell
apparve dal nulla, come dentro ad un cespuglio, e
mi abbracciò.
«Perché
quella faccia? Cos’hai?»,
mi domandò improvvisamente.
«Tutto
si muove…», le dissi impaurita.
Si
guardò intorno e poi si volse nuovamente a me.
«Anche
ieri…», mi rispose subito.
«Anche gli altri giorni
prima, e ancora prima…»,
continuava. «Sono vivi,
certo che si muovono! Respirano! Non senti il loro respiro?».
Lei
chiuse gli occhi ed io la seguii, facendomi coccolare
dal vento invisibile di era cui immerso quel posto.
Mi
sentivo ancora una volta galleggiare per aria, libera.
Sentivo il respiro degli alberi, dell’erba, dei fiori, quello di
Sillybell, il
mio, tutto quello che ci circondava. Sentivo gli animali: i bruchi che
lenti
strusciavano contro i tronchi degli alberi, gli scoiattoli che si
procuravano
il cibo, le farfalline che volavano leggiadre, sbattendo le loro
piccole e
graziose ali nell’aria, le formichine sull’erba ai miei piedi che
camminavano
svelte in fila per esplorare, tutte in gruppo.
Era
un mondo pieno di vita.
«Cosa
succede…?», chiesi al
vento, lentamente. «Io non
avevo mai sentito tutto questo…».
Era
come aver scoperto come utilizzare i miei sensi. Mi
sentivo appena nata, che avevo appena scoperto la vita.
«Io
sono una ninfa, Kati…», mi
sussurrò così lei. «Non
sono umana, io sono come loro… Sono un fiore, una pianta, sono molto
più simile
a loro che a te… Forse è per questo. Tu vedi me, e riesci così a vedere
loro…».
Era
come se mi si fossero appena aperte delle porte sigillate
a tutti gli uomini. Porte che ho aperto io stessa, senza saperlo, al
fianco di
Sillybell.
«Adesso
sai cosa sono le ninfe, Kati, e puoi vedere…».
Mi
trascinò nel cuore della foresta, e senza sapere come
vidi i fiori sorridere, gli alberi inchinarsi a me con educazione, per
fare la
mia conoscenza, gli scoiattoli che si avvicinavano, sussurrandomi
all’orecchia
se avevo da mangiare per loro. Sillybell mi fece conoscere delle lepri,
e
quella sera strinsi addirittura amicizia con una colonia di formiche.
Gli
alberi non potevano parlare, i fiori, le foglie d’erba
come gli animali, non potevano, eppure sentivo la loro voce nella
mente,
dentro, e riuscivo a comunicare.
Con
Sillybell mi arrampicai fino alla cima di uno degli
alberi più alti, e felicissima mi sporsi ad osservare la casa dei
nonni.
«Io
abito lì!», le dissi
indicando la casa. «Perché
non vieni con me?».
«Con
te? Nella tua casa?».
«Sì!
Puoi venire, Sillybell? Ti faccio assaggiare la cucina di mia nonna, è
brava,
eh! Tanto basta dirle che sei una bambina del villaggio e ci crede!».
«Io
non
mangio il cibo degli uomini!».
«Cosa?».
Mi
sorpresi. In effetti non avevo idea di cosa mangiassero
le ninfe, avevo dato quasi per scontato il fatto che se somigliasse
agli uomini
mangiasse come noi.
«E
cosa
mangi?».
«Mangio
il cibo delle ninfe e solo quello…»,
mi rispose.
Si
fece più triste che scese anche a me la malinconia. Non
ne sapevo la ragione, eppure non riuscii a fare altrimenti.
Tornai
là la sera e Sillybell non si fece vedere.
Mi
addormentai coccolata dal dolce fragore dei fiori e dal
loro respiro puro, fino a che a tarda sera mi svegliai. Corsi veloce a
casa, e
anche se il buio era già calato mia nonna non mi sgridò.
«Ti
sei
divertita con Jessica?».
Triste
non riuscii a risponderla. Non sarei riuscita a mentirle
e la verità mi mancava, così me ne andai dritta per la mia stanza.
«Sillybell…»,
soffiai, guardando attraverso
la finestra.
Non
era venuta a salutarmi. Me ne domandai la ragione, ma
non riuscivo a capire.
Tuttavia
proprio quella notte, prima di andare a dormire, sentii
bussare alla mia finestra. Mi avvicinai e la vidi, sul cornicione,
piccola come
li gnomi.
«Sillybell!».
Ero così felice che aprii
immediatamente, quasi senza neppure domandarmi del perché della sua
inaspettata
altezza. «Sei venuta a
trovarmi?».
«Sst!»,
mi fece cenno di far piano. «Se vuoi posso restare un po’
qui…».
Dormimmo
l’una al fianco dell’altra quella notte, sul mio
letto. La scrutai addormentata, sfiorandola con la mia mano per lei in
quel
momento enorme, per accertarmi fosse vera, e poi mi addormentai
felicissima.
Passarono
i giorni e mattina e sera andavo là nella foresta,
per giocare con lei, e quando si faceva sera tornavo a casa, per poi
trovarla
in camera mia, passata dalla finestra che tenevo sempre appositamente
socchiusa, per dormire vicine l’una all’altra.
Non
uscivo più a giocare con Jessica o con altri bambini, restavo
a casa solo per mangiare e dormire, e ultimamente mi prendevo
l’abitudine di
saltare i pasti. Eravamo sempre più unite, che cominciavo a sperare di
non
rivederli più i miei genitori, che mi avrebbero portato via.
La
foresta: era ormai quella la mia casa. E Sillybell era la
mia famiglia.
Là
nella foresta c’era tutto quello di cui avevo bisogno,
così una sera, osservando il cielo farsi scuro, decisi di restare lì a
dormire.
«Davvero
vuoi dormire qui con me?».
Non
l’avevo mai vista così felice.
«Sì,
certo!».
Ci
sdraiammo entrambe sull’erba, sopra i fiori che ci
facevano da caldi cuscini.
«Oggi
non diventi piccolina?»,
le chiesi.
«No…
Non ne ho bisogno! Divento piccola solo quando sono fuori dalla
foresta, perché
non dovrei uscire…».
«Non
dovresti?».
«Io
sono parte della foresta, Kati… Stando troppo fuori potrei dissolvermi…».
«La
foresta ti protegge?».
Forse
cominciavo a capire, allora, o non ancora bene, cosa
volesse dire essere una ninfa.
«Io
proteggo la foresta e la foresta protegge me… Siamo una cosa sola…».
Continuava
a sussurrarmi; forse si stava addormentando.
«Perché
la prima volta che ci siamo incontrate avevi detto che la foresta era
pericolosa?», domandai
allora. Cosa c’era di pericoloso? Gli animali, gli alberi e i fiori,
tutto
laggiù era loro amico, perché allora era pericolosa?
«Non
me
lo ricordo…», chiuse gli
occhi per addormentarsi, afferrandomi una mano.
Come
potevo capire se si era veramente dimenticata oppure
non era così? Che mi stesse mentendo? Avevo quella sensazione. Forse
era però
una bugia a fin di bene, mi dicevo allora, come quelle che dicevo alla
nonna.
«Kati…
Resti
sempre con me?».
«Va
bene…».
Scappare
di casa era quello che volevo, in fondo. Restare
con Sillybell era l’unica cosa che desideravo.
Una
risposta data dal sonno ad una domanda innocente, ma
forse non era così.
Quando
l’indomani mattina mi svegliai il mio corpo era un
cubo di ghiaccio. Avevo freddo ovunque e Sillybell che mi abbracciava
non la
sentivo neppure.
La
mia vista si era offuscata e quasi non riuscivo a
muovermi. Era una delle sensazioni più brutte mai provate.
«Kati…
Ti sei svegliata…», mi
sorrise.
Che
sorriso innocente il suo, pieno d’amore per me.
«Come
ti senti?», mi domandò,
toccando il mio volto spento e ghiacciato.
«Non
lo
so…», risposi.
Mi
sentivo vuota, fredda, leggera. Mi sentivo male, ma non
riuscivo a dirglielo, come bloccata dall’interno.
La
bambina della foresta davanti a me poggiò una mano
sull’erba, nel terreno, e sollevandola vidi che stringeva delle palline
colorate.
Ne
prese una con l’altra mano e svelta se la infilò in
bocca.
«Che
buona…».
Cos’era
quello? Il cibo delle ninfe? Mi chiesi in quel
momento.
«Vuoi?»,
me ne offrì una.
Rimasi
a fissarla per brevi istanti, senza capirci niente.
Il mio cervello era completamente svuotato.
Me
la avvicinò alla bocca e la presi, senza pensarci, gettandomela
in bocca.
Un
sapore dolce m’involse appena la masticai, subito,
riempiendomi la bocca di un succo paradisiaco. Mai avevo assaggiato
tale
prelibatezza in un sol piccolo boccone. In quel momento non sentivo più
nulla,
solo quel magnifico sapore nella mia bocca. Dolce, tanto dolce che i
dolci
umani non erano nulla a confronto, ma per niente pesante o nauseante,
solo
dolce e buono, tanto buono.
«Ti
piace?», udii la sua voce
solo quando ebbi ingoiato ogni minimo spicchio di quella prelibatezza.
Allungai
la mano involontariamente, d’istinto, verso la sua con
le bacche, per prenderne un’altra, e un’altra ancora.
Lei
però tirò la mano indietro, bloccandomi con l’altra.
«Che
fai?». Sembrava quasi
arrabbiata, con quell’espressione che appena riuscivo a vedere con i
miei occhi
sfocati. «Una al giorno,
va bene?».
Sentivo
la sua voce lontana, ciò che m’interessava erano
solo quelle bacche.
«Una
sola, ok? Hai capito?».
Sentivo
di nuovo il sangue scorrermi vivo nelle vene, il mio
petto che si riscaldava.
«Kati!».
Ma
scocciata lei le gettò lontano, e la mia vista per poco
non s’annebbiò del tutto.
La
gettai a terra con tutta la forza che avevo in corpo, per
precipitarmi là, dove aveva gettato quelle bacche tanto buone da
sentirmi
rinata. Non le vedevo, non le trovavo, ero disperata.
«Kati,
smettila! Mi stai facendo paura!».
Si
gettò a me per bloccarmi, ma io non riuscivo a stare
ferma.
Ma
cosa mi succedeva in quel momento?
Sentirsi
vuota e al tempo stesso piena.
Morta
e rinata.
Lentamente,
sempre più un’altra.
Ancora
oggi non so dire cosa stesse accadendo in quegli
istanti, quando sentivo il mio cuore tanto forte da poter scoppiare.
«Sil!
Chi
è questa?».
Udii
appena quella voce arrabbiata, chinata ancora com’ero a
cercar le bacche precipitate sul terreno.
«Mai!»,
la sentivo piangere…
Sillybell piangeva ed io la vedevo e sentivo appena. «Mai, aiutala, ti
prego! Ho sbagliato io, Mai… Ha
mangiato una bacca, non credevo che…».
«Non
credevi che cosa, piccola sconsiderata?! E’ umana? Rispondimi: è umana?
Tu hai
dato da mangiare il nostro cibo ad un’umana?».
In
quel momento mi sentii mancare. La frenesia mi abbandonò
all’improvviso, completamente, e sentii di nuovo il mio corpo
ghiacciato che
cadeva sul terreno bagnato di pioggia. Vedevo male, sentivo peggio le
voci che
mi circondavano, mentre ancora meno sentivo la foresta intorno a me:
non c’era
più alcun respiro, più nessuna voce degli animali o delle piante, c’era
solo il
vuoto, e il mio respiro sempre più lento. Solo una cosa non riuscì a
sfuggire
alle mie orecchie in quell’attimo: la voce di quella donna nell’unica
frase che
mi arrivò…
«Sta
morendo…».
Sillybell…
Io
volevo restare con lei.
Mollare
tutto e stare nel magico mondo di quella foresta,
con gli amici animali e i fiori gialli, dove nessuno mi avrebbe
abbandonata.
Dove non ci sarebbero stati i miei genitori che litigavano e
divorziavano.
Volevo un mondo per nascondermi dalla realtà e lo avevo trovato, senza
rendermi
però conto che questo mi stava trascinando via giorno dopo giorno.
Quando
mi svegliai mi ritrovai in un letto completamente
bianco. La stoffa fredda era l’unica cosa che mi avvolgeva. La forte
luce
bianca mi fece spalancare gli occhi, ma solo dopo capii che non si
trattava del
paradiso, ma del sole fuori dalla finestra dell’ospedale.
Mia
madre e mio padre vennero insieme a trovarmi, ma seppi
che si erano separati del tutto, e che papà si stava trasferendo in
un’altra
casa. Ero tornata al mio mondo di sempre, quello dove non c’erano
magici
scoiattoli o alberi incantati, ma dove la natura era ben lontana,
circondata
dai grandi palazzi e dalle strade piene di smog.
Ero
tornata al punto di partenza, dove volevo stare, eppure
qualcosa mi mancava.
Mi
rifugiavo al parco ogni giorno, ma nessuna ninfa veniva a
salutarmi. Non sentivo più il respiro dei fiori e degli alberi; ero
tornata
quella di sempre, la Katia di prima.
Niente
della me che aveva giocato con Sillybell era restato.
Tornai
l’estate seguente dai nonni, e da sola, m’immersi
nella foresta.
Mi
voltavo osservando con occhi estranei quello che un tempo
era. Non riconoscevo più niente di ciò che era stato.
«Sillybell…»,
soffiai.
Credevo
di non poterla mai più rivedere. Ero già certa che
tutto quel magico mondo che era stato in quel pizzico periodo della mia
vita si
trattasse solo di un sogno. Avevo passato mesi piangendo per
convincermene,
invece…
«Kati!».
Udii
la sua voce portata dal vento e le lacrime mi bagnarono
gli occhi.
«Sillybell,
dove sei?».
«La
foresta è pericolosa, torna a casa…».
«La
foresta non è pericolosa! E’ mia amica! Tu sei mia amica!».
«Le
ninfe sono pericolose, Kati… “Stai lontana dagli umani”…», ricordò a se
stessa. «Avrei dovuto dare ascolto alle mie sorelle più
grandi… Ti volevo per me, ma ti stavo strappando al tuo mondo. Hai
capito
perché la foresta è pericolosa, adesso?».
Continuavo
a voltarmi lentamente avanti e indietro, sperando
di vederla, ma era lontano da me, e allo stesso tempo vicina, la sua
flebile
voce.
«La
foresta è pericolosa perché le ninfe fanno parte di lei… Vai a casa,
Kati… Ti
voglio bene…».
Fu
l’ultima volta che la sentii.
Sillybell
mi voleva per sé, come io volevo lei e il suo
mondo per me.
Avevamo
le stesse colpe.
Può
nascere un’amicizia tra una bambina umana e una bambina
ninfa?
Crescendo
mi sono posta più volte questa domanda, e alla
fine sono arrivata ad una conclusione, quando ad ogni estate andavo a
trovarla
nella foresta accanto alla casa dei nonni…
«Adesso
andiamo, Jennyfer! Ti faccio conoscere una persona speciale!».
Le
slaccio il seggiolino della macchina e la prendo in
braccio, baciandole la testolina ancora tonda e con pochi capelli. Le
misi il
ciuccio, e camminando lentamente mi avvio alla vecchia casa dei nonni.
Il
fiore giallo lo porto al petto come un fermaglio. Era un
tuo regalo per me, vero Sillybell? Non si è mai smacchiato, fresco e
puro come
allora.
I
miei cari nonni non ci sono più e la casa sono riuscita ad
averla io, tra mille pratiche da firmare.
Entro
per rivederla esattamente come un tempo, non era
cambiato niente.
«Vedi,
Jenny! Questa è la casa preferita della mamma!».
Uscendo
rivedo casa della mia amica Jessica e saluto il suo
figlioletto di due anni, per poi dirigermi verso la mia amata e magica
foresta.
«Jennyfer,
guarda! Questo è il posto più magico che esista al mondo! Ma bisogna
stare
attenti, è anche pericoloso…».
Sorrido,
vedendo davanti a me, dal cuore della foresta e tra
i raggi del sole, la piccola Sillybell ancora bambina correre, ridendo,
per
venirmi incontro.
«Kati!».
Fine
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Ho
scritto
questa piccola storiella mesi fa ma non mi ero decisa ancora a
postarla. Non è
nulla di eccezionale e ricordo di aver tagliato parecchio di ciò che in
verità
volevo scrivere; purtroppo non ho la costanza di riprenderla in mano,
altrimenti l’avrei allungata con i pezzi mancanti…
Questa
storia ha partecipato al contest di Eylis [Original Concorso 6] La
Foresta e... la Bambina, ecco la
targhetta:
Un
grazie
di cuore anticipato a chi si è messo a leggerla, e a chi, nel caso,
voglia
commentarla ^^
Alla
prossima,
ciao,
ciao
da Ghen =^____^=
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