Once Upon a Time
Quel giorno pioveva.
Non
che fosse una novità, Seattle
non era soprannominata Rain City per
nulla.
Perché
pioveva, sempre.
Poco
importava non fossero
acquazzoni, ma blande pioggerelline insistenti: il fastidio risultava
anche
maggiore.
E
se non pioveva era comunque
nuvolo: a Seattle il sole era raro come l’ottimismo degli
adolescenti.
Non è un caso se proprio dai suoi
sobborghi – quella Aberdeen che
sarebbe poi diventata meta di pellegrinaggio da lì a pochi
anni per infelici
motivi – qualcuno aveva alzato la
testa e
si era messo ad urlare con quanto fiato aveva in gola fino a diventare
rauco e
trasformare nel frattempo la musica stessa come l’avevano
fino ad allora
conosciuta tutti.
E
dunque quel giorno la stessa
pioggerellina, leggera e molesta, bagnava i lunghi capelli di un
ragazzo
abituato al più ad essere spruzzato dai flutti
dell’oceano, perché a San Diego,
i duecentotrenta giorni nuvolosi di Seattle, erano piuttosto luminose
giornate
da trascorrere scivolando sulle onde schiumose del Pacifico.
Ma
quel giorno pioveva. Piano,
con discrezione, ma indubbiamente non incoraggiava
l’indugiare in pensieri
felici.
Nemmeno lui era
granché
eccitato. A dispetto di tutto.
Nervoso? Nemmeno.
Tutto
quello che lui voleva era andare in studio e cantare: aveva solo quello
in
mente, da un mese abbondante.
Have
I got a little
story for you…
Lui
aveva un sacco di storie da
raccontare, se le sentiva tutte premere in testa e nello stomaco,
dovevano
uscire e quella sembrava l’occasione giusta, quei tre ragazzi
del nord-west
sembravano avere quel che gli serviva per limare il grumo di pensieri
emozioni
parole che gli si erano fermate all’altezza del plesso, come
non gli era mai
riuscito con gli altri,
laggiù nel
sole della California.
Dovevano uscire, non voleva emulare Ridgway, lui.
Nonostante l’Avvocato,
nonostante sua madre, nonostante tutto.
E
dunque si tolse gli inutili
occhiali da sole mentre attraversava il parcheggio del Sea-Tac,
dov’era appena
atterrato. Tanto pioveva.
Controllò
quanto aveva in tasca, non molto, e
decise che un taxi non
poteva permetterselo. Borsone in spalla verso lo stazionamento allora,
perché
di soldi probabilmente non ne avrebbe visti per un po’, ma
non aveva
importanza.
Non
voleva perdere tempo, non
c’era tempo da perdere.
Beth
era rimasta nel casotto
sulla spiaggia a godersi le brezze del primo autunno californiano ed un
po’ si
era pentito di non averle chiesto di accompagnarlo, ma non poteva far
lasciare
il lavoro anche a lei, sarebbe stata una follia: se tutto fosse andato
in porto
si sarebbero riuniti e la loro vita sarebbe tornata come prima,
così come da
quasi dieci anni a quella parte.
Beth,
Beth, Beth…
Non
era lei la donna di cui
cantava a volte né mai lo sarebbe stata, perché
Beth era sua. Non come Karen
che aveva preferito assediarlo con fratelli fratellastri estranei
ostili che lo
guardavano come un intruso pur di compiacere l’Avvocato,
che l’istinto paterno sembrava averlo dato in subaffitto,
ma non per questo recedeva da un ruolo che probabilmente serviva solo a
dargli
una parvenza di rispettabilità nel mondo.
Stronzo.
Ma
Beth non si arrabbiava se
picchiava troppo sulla batteria mentre batteva il ritmo per il suo
gruppo,
piuttosto gli apriva una birra ghiacciata. E rideva. Rideva sempre
Beth.
E nelle risse picchiava quasi più di
lui, poi però - durante le
lunghe notti in cui girava male e i cattivi pensieri non lasciavano che
chiudesse gli occhi nemmeno per pochi minuti -
sapeva tenerlo stretto come non avrebbe mai più permesso
alla madre
da cui era scappato.
Il
bus era troppo lento, ci stava
mettendo una vita per arrivare a destinazione e lui aveva fretta.
Seduto – stipato - su
uno scomodissimo sedile di
plastica era riuscito a riempire pagine e pagine d’agenda di
pensieri
sconnessi, con qualche schizzo sparso rubato ai sobborghi deprimenti
della
provincia del nord-ovest. Fuori dalle città il verde era
talmente intenso da
sembrare irreale, quasi sinistro, ma le prime case riuscivano ad
ingoiarlo nel
loro grigio con una voracità a tratti inquietante, stendendo
su tutto un velo
opaco come di malinconia e rassegnazione.
Non
era abituato a quel verde,
lui. A San Diego non ce n’era tanto, e quello del mare era
dolce, mitigato
dalle mille sfumature del cielo e delle nuvole e dei fondali,
illuminato da un
sole che allo zenith era quasi bianco. A San Diego aveva sempre fatto
troppo
caldo perché le piante potessero davvero reclamare i pochi
stralci di terra
rimasti vuoti.
E
a Chicago… beh, da Chicago era
scappato prima di beccarsi l’inverno più freddo
della storia dell’Illinois, ma
a quella città sarebbe sempre stato grato per avergli
regalato i due grandi
amori della sua vita – a parte la
musica:
Beth e i Chicago Cubs, ovviamente.
Ma a Chicago non c’era l’oceano
ed i Grandi Laghi non erano
un’alternativa allettante.
A
Beth non sarebbe dispiaciuto
restare, lì aveva cominciato a suonare e, piccola e giovane
com’era, s’era
anche fatta un discreto nome come bassista di richiamo.
Ma
Beth era un’altra randagia
come lui, non aveva avuto paura di seguire la scia della sua vecchia
tavola da
surf.
Così avevano iniziato a scivolare
insieme sulle onde del Pacifico.
La
monotonia di quel viaggio lo
stava sfiancando ben più delle quasi tre ore
d’aereo che lo avevano portato a
Seattle ed ancora non riusciva a vedere il capolinea del suo viaggio.
Cominciava
a sentire la tensione
e quando era teso la sua mente vagava sempre troppo e male e non aveva
nemmeno
una bottiglia di birra a portata di mano.
E cosa non avrebbe dato per una canna rollata come
si deve.
Ricontrollò
per l’ennesima volta
l’indirizzo che aveva appuntato sull’agenda: no,
non mancava poi tanto. Si
risistemò il bagaglio sulle spalle e si preparò
ad un incontro che in ogni caso
gli avrebbe cambiato la vita, pretendeva
gli cambiasse la vita, perché non amava perdere tempo, lui.
Non gli piaceva
nemmeno affrettare le cose, ma la musica per lui era come la sua donna,
un’amante cui Beth aveva dovuto – anche
voluto: erano complici in quel crimine - piegarsi: e le sue
donne erano
sempre state il centro del suo mondo.
Anche – soprattutto - quelle
che non lo avrebbero meritato.
Capolinea.
Fine del viaggio.
Cazzo meno male almeno aveva smesso di piovere.
Il
194 lo aveva accompagnato in
una zona residenziale ed anonima, di quelle che si possono trovare in
qualsiasi
città industriale d’America, uno scorcio usato ed
abusato in qualunque film e
telefilm.
Si
era calcato meglio il berretto
da baseball sulla testa prima di accendersi – ironia
della sorte - un’American Spirits e dirigersi
verso quella
che sembrava un’arteria principale: da lì sarebbe
stato semplice orientarsi,
stando alle istruzioni ricevute al telefono dal bassista del suo nuovo
gruppo.
Quanto
avevano parlato al
telefono, due settimane prima? Di sicuro troppo, per due sconosciuti,
ma il
feeling che aveva sentito era stato immediato: Jeff gli andava a genio
e a Jeff
piacevano le sue canzoni.
Non
gli aveva rivelato la storia
dietro quei testi – erano la sua
storia,
la sua vita -, ma sapeva che il bassista qualcosa doveva
aver intuito.
Stoney probabilmente l’aveva
fatto.
Stoney…
Quando al bassista era
scappato quel diminutivo aveva avuto quasi voglia di ridergli in
faccia, ma
Jeff si era corretto subito e quel cognome – Gossard
- gli aveva pure rivelato come Stoney, o meglio Stone,
fosse anche il vero autore delle melodie che si era trovato a
fischiettare
persino sulla tavola da surf rischiando di cascare a più
riprese.
In realtà era davvero cascato in malo
modo rischiando l’osso del collo
e Beth si era incazzata sul serio quando l’aveva visto
tornare a casa con la
schiena dolorante.
Ma,
Dio, non vedeva l’ora di
avere un microfono davanti e poter registrare il contenuto del vecchio
quaderno
che si portava sempre dietro come un amuleto: i suoi pensieri sconnessi
e
cattivi avevano preso forma accompagnati dal riff di quelle chitarre,
erano
stati guidati da quei sapienti tocchi di basso.
E la solitudine di quelle lunghe ore
d’aereo aveva riempito un’altra
pagina, perché portare al limite le proprie paure, viverle
sulla carta, per lui
voleva dire anche esorcizzarle.
Lo
studio di registrazione non
era granché, ma era accettabile. Dave era appena stato
ingaggiato come
batterista ed il cantante stava per arrivare: tutto perfetto.
Jeff
si sentiva abbastanza
tranquillo per la scelta fatta, sia Stone che Mike erano stati
entusiasti quanto
lui nel sentire il nastro arrivato da San Diego: Cristo,
quel ragazzo ci sapeva fare sul serio, Jack non aveva esagerato
nel tesserne le lodi. Stone era il più eccitato di
tutti ed a ragione,
perché dopo tutto quelle melodie le aveva firmate lui, ci
aveva speso su tempo
e fatica. Vederle, o meglio sentirle,
accompagnate da quelle parole, da quella voce, beh… ti faceva
venir voglia
di riempire altri fogli di note e scale.
Si
sforzò di non pensare a
qualche verso che gli aveva suscitato ben più di una
perplessità, soprattutto
cercò di non pensare ad Andy, perché la morte del
precedente cantante era
ancora troppo recente per non essere anche un doloroso monito.
E se…
No,
il surfer di San Diego era un
salutista, pure convinto vegetariano. Beveva e rollava come un
po’ tutti dai quattordici
anni in su sulle spiagge californiane –ma
anche altrove -, ma stava lontano dall’ero, lui,
così aveva detto.
Oddio,
non dovevano essere fatti
suoi quelli, ma vederne morire un altro sarebbe stata la sua fine. In
un modo o
nell’altro, sul ragazzo californiano stava giocando la sua
ultima scommessa con
la musica, perderla avrebbe implicato l’appendere il basso al
chiodo per
concentrarsi esclusivamente sulle sue illustrazioni e i suoi dipinti e
i suoi
skateboards.
In
realtà la morte di Andy gli
aveva fatto passare persino la voglia di disegnare, dal giorno del
funerale di
quel biondo idiota ambiguo non aveva praticamente più
toccato matita o
pennello. E, se non fosse stato per Stone prima, e per Chris poi,
probabilmente
avrebbe continuato a sfinirsi sul suo skateboard ancora a lungo senza
pensare
più né a colori né a scale di note.
Un
assolo di Mike l’aveva
bruscamente riportato alla realtà e si ritrovò a
guardare l’orologio: ormai
l’aereo da San Diego doveva essere atterrato già
da un paio d’ore, si chiese
come mai il nuovo cantante non fosse già arrivato in studio.
Decise
di tenersi impegnato sulle
note di Dollar Short, ma non
riuscì
nemmeno ad arrivare al refrain che qualcuno bussò alla
porta.
Finalmente.
Poggiò
il basso contro lo
sgabello e si diresse verso la porta sotto lo sguardo attento di Mike e
Stone
che fingevano di suonare. Dave era chiuso all’interno della
camera
insonorizzata, quindi picchiava per davvero sui piatti.
“Ehi,
ciao! Tu devi essere Eddie,
io sono Jeff Ament, il bassista. Com’è andato il
viaggio?”
“…Tutto
bene, grazie…”
“Eh?”
Stone
e Mike avevano smesso di
fingere di suonare. McCready aveva lanciato un’occhiata
perplessa al suo
collega chiedendogli tacitamente delucidazioni che non avrebbe mai
potuto
ottenere: perché
nessuno aveva sentito quel che il nuovo
venuto aveva detto.
Il
loro presunto nuovo cantante
era un ragazzo un po’ piccolino, con lunghi capelli chiari e
ondulati, la pelle
tesa e dorata dal sole californiano: l’esatto opposto di
Andrew, insomma, che
era alto, sottile e pallido come una bambola di porcellana, cui
somigliava
talmente tanto da essere continuamente vittima di abbordaggi di uomini
non
sempre abbastanza sbronzi da poter essere per questo giustificati.
Ma
non era esattamente quello il
problema che Jeff aveva subito registrato nel conoscere finalmente di
persona
quel Vedder che li aveva tanto impressionati su un nastro registrato,
no.
L’aspetto era l’ultima delle sue preoccupazioni.
“Dio questo qui nemmeno mi guarda in
faccia mentre parla e si fissa le
scarpe non riesco quasi a sentirlo!”
Come
diavolo avrebbero fatto a
metterlo su un palco a cantare? Era un disastro, un totale disastro: e
avrebbe
riso dell’assurdità di quella situazione se non
avesse avuto l’impressione di
vedere tutto il lavoro di quei mesi sbriciolarsi ai piedi di quel
ragazzetto
dagli occhi grigi.
Che
razza di situazione.
“Beh…
Ecco, loro sono Mike e
Stone, ti ho parlato di loro al telefono.”
Cazzo non limitarti ad annuire, tira fuori la
voce…
“Lì
dietro ai vetri c’è Dave,
Dave Krusen, il nostro nuovo batterista. Si è unito a noi da
poco, ma forse ti
avevo parlato anche di lui, non ricordo…”
E parla cazzo, smettila di annuire e mugugnare!
“…”
“…”
“Bene,
allora…”
“…Possiamo
cominciare a provare?”
Buon
Dio, aveva parlato e persino
alzato un po’ il volume, almeno era riuscito ad intuire quel
che voleva.
Che
avrebbe dovuto fare a quel
punto? Non riusciva nemmeno a pensare in modo coerente, non riusciva a
credere
a quel che stava capitando, non riusciva a credere quello
fosse lo stesso ragazzo con cui aveva parlato al telefono nelle
due settimane precedenti, lo stesso ragazzo che aveva trasformato la
loro Dollar Short in un pezzo
meraviglioso.
Lo stesso ragazzo dalla voce profonda e potente che ringhiava e
piangeva da
quel nastro registrato.
Eddie
non aveva accennato ad
alzare gli occhi dalle sue Dr. Martens, ma si era diretto piuttosto
titubante
verso il microfono. Stone e Mike avevano tirato un grosso sospiro
accennandogli
un sorriso di benvenuto – e
conforto:
pareva averne bisogno - prima di fare un cenno a Dave
– che aveva assistito alla scena
piuttosto
perplesso - per far in modo desse il tempo. Jeff non era
riuscito a non
pensare di nuovo a quanto quella situazione fosse semplicemente assurda.
Jeff,
sempre così tranquillo e
pacato, non aveva potuto far altro che provare un guizzo di odio
purissimo per quel
bastardo di Irons che non solo non aveva accettato di suonare con lui,
Mike e
Stone, no: aveva anche avuto la faccia tosta di assicurare che li
avrebbe
aiutati comunque, che aveva tra le mani quel che avrebbe salvato loro
il gruppo
ed il sistema nervoso.
“È
il cantante ideale per il
vostro gruppo, vedrai che mi ringrazierete.” aveva detto
strizzandogli le
spalle con quelle sue dannate enormi mani da batterista.
In quel momento avrebbe voluto strizzargli le
palle, altro che ringraziarlo.
Aveva
ripreso a suonare
stancamente il basso senza speranze residue quando le casse avevano
cominciato
a rimandargli lo stesso straziante colloquio che avevano ascoltato
giorni e
giorni prima sulla cassetta dei demo.
Ho una piccola storia da raccontarti…
Probabilmente
era vero: dovevano
solo continuare a tesserne la melodia, così che potesse
arrampicarcisi senza
cadere.
End.
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