Chiamatemi Angel. Nella vita di
un uomo ci sono occasioni che il volgo suole definire irripetibili, e in
siffatte circostanze il volgo si dimostra ben poco volgare, perché è difficile
trovare un termine migliore di questo per indicare il meraviglioso concorrere
di coincidenze grazie al quale i sogni della nostra vita, che pensavamo
irrealizzabili, diventano all’improvviso accessibili, a portata di mano, purché
ci sia il coraggio e la destrezza nel coglierli.
Proprio questo mi è accaduto,
alcuni mesi fa. Sono uno studente di Sociologia presso l’Università di Madrid,
e per quanto il mio futuro ambito professionale sia lo sviluppo urbano dei
servizi sociali, la mia passione sin dalla più tenera infanzia è stato il
Giappone: anime, manga, film kaiju, j-pop, e più
tardi il teatro nō e kabuki, Banana Yoshimoto, e
Yukio Mishima, passando per
Haruki Murakami… tutte le
espressioni culturali del Sol Levante mi hanno sempre rapito l’anima, al punto
che, da quando ho scoperto l’esistenza degli aerei (all’età di sette anni
circa) il mio desiderio maggiore è sempre stato quello di recarmi in Giappone
per una lunga permanenza.
Alas! Sembrava un pio desiderio: per quanto non povera, la mia famiglia
non aveva i mezzi per pagare il viaggio in un paese tanto bello quanto caro,
né, una volta diventato studente, ho trovato lavori tali da poter finanziare il
mio sogno; la recente crisi economica, dopo anni di crescita gonfiata, ha fatto
il resto, tarpando le ali alle mie speranze di autonomia finanziaria,
condizione indispensabile per qualsivoglia viaggio di piacere. Ero ormai
rassegnato a guardare il Giappone solo attraverso il filtro della tv e di
internet quando un professore – che loderò sino alla morte (la sua, ovviamente)
– mi venne in soccorso ventilandomi una possibilità che avevo ignorato: il
progetto Overseas, per compiere un semestre di studi
universitari in un paese extraeuropeo. Tra le università che partecipavano
c’era anche la Waseda di Tokyo, una prestigiosa
università privata. Poche erano le borse di studio disponibili, ma partivo avvantaggiato
dalla conoscenza della lingua: il mio amore per il Giappone è tale, infatti,
che sin dalle scuole superiori ho iniziato a studiare il giapponese, e lo parlo
abbastanza bene per essere un occidentale. Insomma, sta di fatto che riuscii ad
ottenere la borsa di studio, una bella somma, certo non sufficiente a
mantenermi per sei mesi, ma è proprio vero che la fortuna aiuta gli audaci: lo
stesso professore che mi aveva segnalato l’Overseas
era già stato più volte in Giappone (da quel che ho capito ha la mia stessa
passione, ed è anche per questo, oltre che perché ho passato a pieni voti la
sua materia, che ha deciso di aiutarmi) e aveva conosciuto un giovane
ricercatore della Waseda, a cui aveva scritto del mio
arrivo. Ebbene, costui – tale Shinsuke Kobayashi – si è offerto di ospitarmi a casa sua per tutto
il periodo della mia permanenza. Tolti i costi dell’alloggio, la borsa di
studio era sufficiente per vivere abbastanza decentemente per sei mesi.
Potete immaginare la mia gioia di
quei giorni. Sembrava che ogni cosa al mondo avesse cospirato per permettermi
di realizzare il mio sogno, ed ecco che finalmente mi si aprivano le porte
dell’Estremo Oriente. Quello che ignoravo era che, nel corso del mio viaggio,
avrei fatto esperienze ancora più straordinarie di quelle che mi aspettavo.
Non avevo ancora sperimentato
appieno la gentilezza di Shinsuke Kobayashi:
si era offerto addirittura di venirmi a prendere all’aeroporto, e, sebbene
riluttante ad abusare della sua cortesia, accettai con piacere, se non altro
perché almeno il primo giorno avrei avuto bisogno di tutto l’aiuto necessario
per orientarmi a Tokyo.
Così, quando il mio aereo atterrò
ed uscii dall’area Arrivi, mi trovai di fronte ad un giovane alto e smilzo che
sventolava un cartello con il mio nome (con due errori di scrittura nel
cognome, per la cronaca). Lo raggiunsi, mi presentai, ci stringemmo la mano.
“Felice di conoscerti” disse
“Spero che ti troverai bene qui in Giappone.”
“Ne sono sicuro” risposi “E non
ti potrò mai ringraziare abbastanza per l’ospitalità.”
“Nessun problema, per me è un
piacere. Ma” soggiunse guardando con aria preoccupata la mia valigia, una
imponente Cosmolite Spinner
“sicuro di dover portare tutto quel bagaglio?”
Rimasi perplesso per qualche
istante: per stare sei mesi in un paese straniero, mi sembrava addirittura di
essere venuto con poca roba.
“Be’, sì” risposi infine “C’è
qualche problema?”
“No, no, figurati. È solo che… vabbe’ dai, ne parleremo a
tempo debito. Andiamo, ora.”
Lì per lì non capii il motivo di
quella riluttanza, ma mi fu chiaro poco dopo. “A tempo debito”, infatti, voleva
dire una volta raggiunta l’automobile di Shinsuke nel
parcheggio dell’aeroporto. Gli chiesi di aprire il cofano per metterci la
valigia, e anche lì sembro recalcitrante.
“Non so se è il metodo migliore…” disse.
“E come devo portarla, tenendola
dal finestrino?” obiettai, un po’ spazientito. Ospitarmi per un semestre e fare
obiezioni per una valigia mi sembrava un po’ contraddittorio.
Alla fine Shinsuke
si decise ad aprire il cofano. Mi avvicinai, e rimasi paralizzato, mentre il
mio ospite sembrava rimpicciolirsi per la vergogna: il vano dell’auto era
completamente pieno di libri di tutte le dimensioni, al punto che non c’era
spazio nemmeno per metterci uno zainetto, figuriamoci la mia valigia.
“Sai com’è” disse Shinsuke, rosso d’imbarazzo “Sono un collezionista di
libri, questi li ho ordinati e mi sono arrivati da poco” (da più di sei mesi,
scoprii in seguito) “e non ho ancora avuto il tempo di portarli su in casa…”
Io ero senza parole. Con un
sospiro, mi avvicinai agli sportelli, per cercare di posizionare la valigia sui
sedili posteriori, ma mi accorsi che anche quelli erano stracolmi di tomi, e
libri erano anche sul sedile anteriore dove avrei dovuto sedermi io, e persino
su quello dell’autista. A momenti c’erano più libri lì dentro che nella
biblioteca comunale di Alcantara. Shinsuke aveva la
faccia di chi voleva morire sul posto.
“Sono mortificato” disse “Mi sono
reso conto del problema solo mentre arrivavo in aeroporto, ma era un po’ tardi
per tornare indietro…”
Riflessi veloci eh, pensai, ma non lo dissi. Mi limitai a mormorare
“Sì, ma ora dove la metto la valigia?”
“Proviamo a legarla sul
tettuccio” disse Shinsuke, chinandosi a frugare sotto
il sedile dell’autista e tirandone fuori una corda di nylon che sembrava aver
fatto la guerra di Corea.
Legammo alla bell’e meglio la
valigia, e ripartimmo con qualche sbandata, a causa del peso eccessivo di noi,
del bagaglio e dei libri. Mentre avanzamo a stento
per le trafficatissime strade di Tokyo, pensavo che
la coabitazione con Shinsuke non sarebbe stata quel
che si dice una passeggiata.
Le settimane successive
confermarono in parte le mie previsioni, ma non nel senso negativo che temevo. Shinsuke si dimostrò certamente un individuo piuttosto svampito
e con il senso pratico di un filosofo di corte del Seicento, ma compensava
questo difetto con una grande disponibilità e simpatia.
Aveva un dottorato di ricerca in
sociologia, e contemporaneamente insegnava scienze sociali come supplente
presso l’istituto superiore privato Kisshō; quei
due impegni lo tenevano lontano da casa per buona parte della giornata, e
questo spiegava come mai non si facesse problemi ad ospitare altre persone,
tanto non le vedeva quasi mai. Tuttavia, quando ci trovavamo nel suo
appartamento negli stessi orari, insorgevano delle difficoltà, soprattutto
perché il suo appartamento era un monolocale che bastava a malapena per uno, e
fu difficile adattarlo ad una convivenza di medio periodo. Un problema non
secondario era che un buon terzo della cubatura complessiva dell’immobile era
occupato dai suoi stramaledetti libri, e giuro che se mi avessero detto che un
giorno sarei arrivato a preferire gli e-book al formato cartaceo avrei reagito
con una risata, e invece è successo.
Il collezionismo era per Shinsuke quello che il Giappone era per me, ma lui
coltivava la sua passione in maniera molto più ossessiva: ordinava libri che
non sapeva dove mettere usando, per pagarli, stipendi che ancora doveva
ricevere, e quando aveva tempo e soldi a sufficienza si avventurava in viaggi
in Cina, Europa e Stati Uniti al solo scopo di cercare opere introvabili in
Giappone. Frugando tra i suoi tomi – un’attività pericolosissima, se cadeva una
pila di libri si rischiava di morire schiacciati – trovai anche testi scritti
in lingue che lui, per sua stessa ammissione, non conosceva (parlava bene
l’inglese e un po’ di tedesco e francese, ma per le altre era negato). Insomma,
era come se quando si dedicava al collezionismo mettesse da parte la
razionalità che gli era invece necessaria per i suoi lavori ufficiali. Chissà,
magari è anche un modo intelligente di vivere; ma per chi viveva vicino a lui
non era proprio il massimo, e non a caso era single.
Comunque, eravamo abbastanza
affiatati come coinquilini, e l’amicizia tra noi fiorì come gli alberi di
ciliegio nelle primavere nipponiche. Lui mi dava consigli su come comportarmi
all’università, dove vigevano codici di comportamento ben diversi da quelli
spagnoli, e io gli traducevo in giapponese le quarte di copertina dei suoi
libri in castigliano.
Un giorno capitò che, causa
l’assenza di un mio professore, avevo un’intera giornata libera. Quando lo
dissi a Shinsuke, lui mi propose di seguirlo alla
scuola privata dove insegnava.
“Ma è possibile?” chiesi.
“Di solito non fanno entrare
chiunque, ma se vieni con me non ci sarà problema. Io non ti potrò accompagnare
in giro perché devo insegnare, ma tu puoi benissimo fare quel che vuoi, e se
qualcuno ti chiede chi sei ignoralo, ché tanto non succederà niente.”
“Non mi sembra una strategia lungimirante…”
“Stai tranquillo, se non dai
fastidio non ti dirà niente nessuno. Del resto quando ti ricapiterà di visitare
una classica scuola come quelle descritte nei manga? Fossi in te non mi
lascerei sfuggire l’occasione.”
Aveva ragione, ed accettai. Mai
decisione aprì scenari più imprevedibili.
L’istituto Kisshō
era una scuola privata molto rinomata, stando a quanto mi disse Shinsuke, e di certo le dimensioni dell’edificio e del
cortile sembravano confermare quelle opinioni. Non posso negare di aver provato
una certa emozione nel varcare il portone di ingresso e ritrovarmi
all’improvviso tra studenti e studentesse con le classiche divise giapponesi.
Accompagnai Shinsuke
sino alla porta della sua classe, dopo di che lo lascia al lavoro e iniziai a
bighellonare per i corridoi, sbirciando dentro le aule. Non potevo certo andare
avanti così per tutta la mattinata, così pensai di tornare verso l’ingresso e
cercare i laboratori informatici, se c’erano, e mi avviai verso le scale; ma,
mentre stavo per girare l’angolo di un corridoio, sentii una voce femminile in
avvicinamento:
“Oh, no, sono di nuovo in ritardooooo!”
Prima che potessi realizzare
quello che stava accadendo, una studentessa apparve e mi si schiantò contro, e
cademmo entrambi a terra, io semischiacciato dal peso
della sconosciuto e dalla massa dei suoi capelli biondi che mi era finita in
faccia, ostruendomi le vie respiratorie.
La giovine si rialzò gridando
“Che maleeee!” con voce lamentosa, ma per fortuna
ebbe la buona creanza di accorgersi di me e di aiutarmi ad alzarmi.
“Scusami, non volevo…”
“Tranquilla, non mi sono fatto
niente” mentii; poi la osservai incuriosito.
“Come ti chiami?” chiesi.
“Tsukino
Usagi.”