Dedicata
a Riot Star.
Dedicata
a lei perchè è un'autrice straordinaria, con un senso dell'umorismo
massacrante e un talento invidiabile.
Dedicata
a lei perchè me ne sono praticamente innamorata quando, al tempo di
Miseinen ancora,
mi
ha mandato una mail che ancora oggi vado a rileggere quando ho
bisogno di conforto (te la ricordi?).
Dedicata
a lei perchè è stata la prima scrittrice
che io abbia messo fra le preferite e
perchè
ancora oggi quando rileggo la sua “Distorted Daytime” mi sembra
la prima volta.
Dedicata
a lei perchè mi ha fatto conoscere una canzone strepitosa,
perchè
mi ha contagiato con il suo amore per l'aeronautica
e
perchè è la prima persona che incontro che conosca il videogioco
delle pizze.
Dedicata
a lei perchè sappia che,
anche
se non glielo dimostro spesso,
la
stalkero in ogni suo progetto,
sono
una sua grandissima fan
e
le voglio un mondo di bene.
Otanjobi
omedeto Riot.
All
you need is a RIOT
«No,
Spike. Finisco alle quattro sta notte, devi portare tu la bambina.»
Mi
blaterò nell'orecchio come una fastidiosa macchinetta senza pulsante
di spegnimento.
Spike
non era quel che propriamente si definiva un “padre modello”,
anzi.
Era
scostante, assente e assolutamente non sapeva trattare coi bambini.
Un padre che aveva comprato alla figlia un cellulare per il suo terzo
compleanno, per intenderci. Mi ero pure dovuta mettere a spiegargli
come mai un telefonino non andasse bene per un bambina che a malapena
sapeva articolare una frase di senso compiuto.
«Rika,
non capisci. Elaine sta-»
«Non
me ne frega nulla di cosa Elaine stia o non stia facendo»
Non
era mai stato bravo con Emi, ma da quando Eliane era rimasta incinta,
aveva smesso di darle anche quelle poche e discontinue attenzioni e
quel poco, goffo affetto paterno che cercava di donarle.
Ed
Emi non se lo meritava.
«Anche
lei è tua figlia. Perchè devi trascurarla per un bambino che non è
ancora nato?»
Silenzio.
Spike
sospirò nella cornetta. «Non ho tempo Rika, pensaci tu.»
E
mi riattaccò in faccia.
Pensaci
tu.
Ci
avevo sempre pensato
io.
Anche
quando, completamente al verde, mi ero ritrovata a far carico a
costosissime spese mediche per non perdere quel piccolo miracolo che
ancora non era venuto alla luce. Anche quando i medici le avevano
scoperto una gravissima dislessia, ci avevo pensato io. O quando era
tornata a casa in lacrime perchè delle compagne si scuola l'avevano
presa in giro, oppure quando la maestra mi aveva convocato per
riferirmi che la mia bambina era svogliata
e non seguiva le lezioni. La mia bambina, che confondeva le lettere
le una fra le altre come fossero state granelli di sabbia uguali fra
loro, era stata definita una fannullona.
Lui
non c'era, altrimenti forse avrebbe potuto impedirmi di prendere
quella donna per il colletta della sua costosissima e firmata
camicetta e sputarle in faccia una serie di improperi tali che il
preside era intervenuto consigliandomi caldamente di rivolgersi ad un
altro istituto.
«Riot,
tavolo sette.»
Kuzotare,
mondo. Continua pure a divertirti alle mie spalle, stronzo.
«Non
mi chiamo Riot.» dichiarai lapidaria, afferrando il blocchetto e
infilandolo frettolosamente nella tasca del piccolo grembiulino nero
che portavo sopra la gonna. Sistemai frettolosamente la camicetta
bianca, mi stampai in faccia un sorriso che doveva assomigliare più
ad una colica acuta che ad una dimostrazione di affabilità e mi
diressi verso il tavolo sette.
Il
sette.
Il
fiore dall'occhiello della “Tentazione”.
Un
posto riparato dietro graziosi paraventi in carta di riso color
pastello, circondato da sensuali vasi di rose rosso sangue e bianco
neve, belle ed intoccabili, nascoste dietro spesse coltri di steli
spinosi. Al centro del tavolo, un candelabro arzigogolato che
ospitava cinque candele; i camerieri della Tentazione si assicuravano
costantemente che rimanessero accese per tutta la durata della serata
e, all'occorrenza, le cambiavano veloci come ombre, scusandosi per il
disturbo e versando agli ospiti dell'altro vino.
Se
fosse stato desiderio degli occupanti del sette, durante le stagioni
calde i paraventi potevano essere aperti in modo da dare al tavolo
una visuale aperta sul canale, illuminato con piccoli lampioncini
simili ad abat-joure da esterno e ricoperto di ninfe e piante
acquatiche d'ogni genere.
Chi
sedeva al sette era sacro per la Tentazione, così importante
che non era raro che, nelle serate in cui era prenotato, si
preferisse togliere qualche tavolo e rinunciare così ad altri
facoltosi clienti, per avere più camerieri ed offrire così il
migliore fra i servigi al sette.
«Riot!»
«Ti
ho già chiesto di non chiamarmi Riot, Chomei!»
Lui
sorrise.
Era
così abituato ormai, ai miei sbalzi d'umore, che quasi non ci faceva
più caso. Mi dispiaceva che subisse i miei travasi di bile, lui che
era sempre così buono e comprensivo, ma sembrava avere l'abilità
particolare di riuscire a dire la cosa sbagliata nel momento meno
opportuno.
E,
quella sera, l'unica cosa che volevo era la riesumazione di quel
soprannome che ormai solo pochissime e fidate persone usavano.
«Tavolo
sette?»
Annuii,
cercando di dribblarlo.
Era
dovere di ogni singolo dipendente della Tentazione evitare ogni più
piccolo disagio agli occupanti del sette. Bisognava, perciò, trovare
il momento giusto per andare a raccogliere gli ordini. Nè subito, in
modo da non far sentire l'ospite braccato come una volpe nella
stagione di caccia, nè troppo tardi, per non fargli pensare di non
essere al centro esatto dei nostri pensieri lavorativi.
I
clienti del sette andavano viziati come principessine.
«Janine
sta cercando l'assegnato al sette da almeno venti minuti.» sussurrò
ridacchiando quello spostato di capo cameriere, per poi richiamare
con un gesto una graziosa ragazza dai capelli color cioccolato che si
guardava nervosamente attorno e che, disgraziatamente, sembrava
uscita da una rivista di moda anche con la divisa, i capelli legati e
l'aria di un festoso cagnolino da compagnia.
Dopo
aver controllato che nessuno avesse bisogno di lei -come un buon
cameriere sempre deve fare- si precipitò a spron battuto verso di
noi, sorridendo esageratamente e quasi travolgendomi.
«Tavolo
sette?!»
Sorrisi.
«Scommetto che ci sono i tuoi principi azzurri.»
Annuì
con foga.
«Te
lo cedo volentieri.»
Dribblai
poco cortesemente il suo abbraccio entusiasta e, mormorandole un
muoviti! affrettato all'orecchio sinistro, mi teletrasportai
accanto all'anziano signore del tavolo nove che mi chiese un'altra
bottiglia di vino. Mi inchinai con un sorriso, scusandomi per non
averci pensato da sola, e mi apprestai ad ubbidire.
Nella
mezzora successiva mi occupai dei miei clienti -tavolo cinque, sei e
otto- sorridendo a destra e a manca, ringraziando umilmente coloro
che mi lasciavano mance e accettando i complimenti per le pietanze,
promettendo a tutti di riportare i complimenti allo chef.
Quando
riuscii ad avere un attimo di respiro mi piazzai dietro il bancone
del bar, accanto all'esercito di moke di cui il barman italiano si
era circondato. Sospirai, cacciando fuori dalle tasche fino alla più
piccola ed insignificante monetina che quei facoltosi uomini
d'affari, accompagnati da moglie ingioiellate e piccoli bambolotti
con gli occhi azzurri, mi avevano lasciato.
Non
sarei neanche riuscita a pagarmi un paio di jeans al mercatino
dell'usato.
Vecchi
spilorci.
Ero
completamente al verde.
Per
essere una cameriera di uno dei ristoranti più lussuosi e costosi di
tutta Tokyo, guadagnavo una miseria.
«Rika!
Tavolo tre!»
«Te
lo ricordi il mio nome, eh?»
Chomei
rise, porgendomi il blocchetto che, come al solito, avevo dimenticato
da qualche parte.
«Non
credo che all'otto interessi il tuo blocco.»
«Simpatico.
Davvero Cho, ti eleggo Uomo Simpatia del 2010.»
«Siamo
acide questa sera? O dovrei dire questa mattina?»
Lanciai
una distratta occhiata all'orologio appesa all'ingresso, un costoso
marchingegno dalle lancette sottili e scintillanti e dai numeri
laccati in oro. Pessimo gusto. Ma ai ricchi piacevano quelle
chincaglierie.
Le
tre e trenta.
Tempo
mezz'ora e sarei potuta tornare a casa. Ci sarei arrivata circa alle
cinque, dal momento che essa distava dalla “Tentazione” quaranta
minuti e con quel catorcio di automobile -l'unico che potessi
permettermi- cercavo di procedere il più adagio possibile.
Avrei
trovato Hanae ad attendermi, quell'angelo di Hanae che si sarebbe
svegliata più o meno mezzora dopo il mio arrivo, probabilmente
trovandomi crollata sul divano, e sarebbe uscita per andare al
lavoro, ricordandosi di piazzarmi una sveglia che, dopo neanche
un'ora di sonno, mi avrebbe fatto saltare fin sul soffitto, appena in
tempo per portare Emi a scuola.
E
tutto questo perchè Eliane aveva la prima ecografia.
Spike
non si era degnato di venire neanche quando avevo partorito quella
creatura.
Chomei
mi alzò il mento con due dita.
«Ehi,
Rivolta! Tutto a posto?»
Neanche
quando mio fratello era morto aveva smesso di chiamarmi Riot,
nonostante più volte l'avessi quasi pregato di non ricordarmi quella
perdita. Lui mi aveva ignorato esemplarmente, imitato alla stragrande
dal mio principale e da Hanae. E spesso e volentieri anche da Janine.
Gli
sorrisi. «Fammi andare a casa, Chomei, ti supplico.»
«Porta
il sakè al tavolo sette e poi non voglio più vederti fino a
sabato.»
Gli
baciai una guancia, dirigendomi poi al sette con il vassoio
d'argento.
Il
sette era occupato da loro.
Probabilmente
i clienti più importanti nella storia del locale, venivano viziati
come sultani quando arrivavano. Per loro veniva riservato il sakè
migliore e usate le tovaglie dalle sete più ricche che la
“Tentazione” possedesse; quando loro ordinavano lo chef
preparava ogni singola pietanza con la precisione di un monaco
amanuense e i loro ordini avevano la precedenza su quelli di chiunque
fosse arrivato prima, si trattasse anche dell'imperatore.
Trassi
un gran sospiro, mi stampai in faccia un sorriso e varcai il
paravento.
Effettivamente,
visti tutti e cinque assieme, erano di grande impatto. Assortiti con
una perfezione maniacale, sembravano la vetrina di una boutique di
lusso o il fotogramma patinato di un film.
Inquadrai
subito quello che Janine mi aveva spiegato -con gli occhi a forma di
cuoricino- essere il cantante. Piccolino (anche se decisamente
più alto di me), con un sorriso sprezzante e degli occhi dalla forte
personalità. La sua statura superava di poco il metro e mezzo, ma
era decisamente imponente. Cambiava pettinatura e tinta come
si cambiano i calzini e io me lo ricordavo solo ed esclusivamente per
le lenti a contatto praticamente bianche che usava e per quei
tatuaggi sulla gola, simili a squarci realizzati da una fiera
imbestialita.
Mi
era rimasta molto impressa una sua foto in cui portava un
acconciatura tutta basata su lunghi dread raccolti in una grossa
coda, ma quella sera i suoi capelli gli cadevano poco al di sotto del
mento, erano castano scuro e leggermente mossi. Ammisi che con un
viso del genere poteva osare molte pettinature particolari che in
testa a chiunque altro sarebbero risultate solo ridicole.
Il
batterista (la mia amica mi aveva parlato di loro così tanto che
bene o male era riuscita a crearmi dei deboli collegamenti mentali
fra volto e strumento) era da mangiare. Avresti voluto stropicciargli
le guance solo per assicurarti che fossero vere e il suo sorriso era
così genuino, spontaneo e sincero da sembrare finto.
In
mezzo a quattro uomini dalla bellezza prorompente e talvolta anche
aggressiva, il suo punto di forza stava in un volto semplice ma
strepitoso e, soprattutto, da quelle dannate fossette.
Janine
si chiedeva spesso, intercalando tali domande ai fiumi in piena che
mi travolgevano quando cominciava a parlare di loro, perchè il
Leader (nome con cui il ragazzo era universalmente riconosciuto e
che io tendevo a scordare, facendo seguire alle sue parole, di
conseguenza, un Chi?? alquanto perplesso e acuto) avesse
sempre, nei photoshoot, un'espressione così arcigna nonostante il
sorriso fossettoso avrebbe fatto svenire donne di qualsiasi età; io
mi limitavo a scrollare le spalle, borbottando un vago e veramente
poco interessato mah, chissà! a cui lei rispondeva -
chiudendo così un quadretto che si ripeteva uguale ogni volta
- esponendo una delle sue granitiche e incrollabili convinzioni
basate sul nulla più assoluto (mi faceva così ridere questo
lato così Janine di lei, che le volevo un mondo di bene anche
se mi stressava l'anima con quei cinque).
Ovvero
che quel poveruomo nell'intimità, dietro sorrisoni, trucco leggero e
fossette, fosse, sue testuali parole, un ninfomane
pervertito e affamato di sesso.
Riconoscevo
senza alcuna fatica uno dei due chitarristi perchè aveva un piercing
nero al labbro, che non aveva altro scopo se non quello di completare
diligentemente l'armonia già perfetta di quel viso; portava i lunghi
e lisci capelli sciolti sulle spalle. Io, che in barba al fatto che
il mio albero genealogico affondasse le sue radici in generazioni e
generazioni di giapponesi purosangue, avevo ricevuto in eredità una
chioma vagamente mossa e di un colore a metà fra il castano e il
biondo, una sorta di beige scuro molto sbiadito, avrei dato una mano
per quella cascata d'inchiostro.
Il
bassista era il più riconoscibile; vuoi perchè aveva quella
fascetta sul naso vuoi perchè quei capelli biondi sparati in mille
direzioni si notavano. Quella sera il suo volto era scoperto e
ammetto che mi faceva uno strano effetto, per quanto potesse farmi
effetto il bassista di un gruppo del quale non conoscevo pressoché
nulla.
Janine
era innamorata persa di Reita.
Aveva
perfino, alla veneranda età di quasi venticinque anni, un poster
gigantesco che copriva gran parte della parete a sinistra della sua
camera, raffigurante lui assieme al suo basso.
Personalmente
lo ritenevo molto più che ben fatto, ma aveva qualcosa, in quello
sguardo accentuato e carismatico, che mi dissuadeva dal dargli troppa
attenzione. Solo dopo un bel po' di volte che la Tentazione aveva
ospitato i Gazetto, che Janine aveva risposto agli sguardi di Reita
con principi di svenimento e che il tavolo sette era stato imbandito
come se si dovesse ospitare l'imperatore in persona, mi ero resa
conto di cosa, in quegli occhi, mi mettesse a disagio.
Era
lo stesso sguardo che aveva Spike la sera in cui era cambiata la mia
vita, lo sguardo di un uomo bello e consapevole d'esserlo. Avevo
perso troppo, lasciandomi abbindolare da uno sguardo simile, perchè
fossi così sciocca da caderci una seconda volta.
In
compenso, se Janine non perdeva una sola occasione per sospirare in
direzione del bassista dei suoi sogni proibiti, era l'ultimo
componente del gruppo ad aver attirato il mio interesse, per quanto
la cosa mi infastidisse non poco.
Il
chitarrista solista era alto, forse il più alto della band (il che
significava che per me era una sottospecie di gigante, dal momento
che avevo sommariamente calcolato che gli altri, tolto il cantante,
avrebbero potuto comodamente appoggiarsi alla mia testa con un
gomito), coi capelli color rame, tendente al rossiccio. Aveva due
mani che avrebbero suscitato (e forse suscitavano veramente) le
invidie di qualsiasi donna ci posasse sopra lo sguardo, comprese le
mie. Era umiliante, per una ragazza, dover scendere a patti col fatto
che un paio di mani del genere appartenessero ad un uomo.
Non
avevo mai avuto direttamente a che fare con i Gazetto. Quando
mangiavano alla Tentazione, Janine rispolverava un'agilità atletica
sorprendente nel battere le altre cameriere e accaparrarsi il tavolo
sette, anche grazie a sleali aiuta da parte mia e di Chomei.
Le
poche volte che avevo visto quell'uomo staccato dal suo gruppo, mi
ero stupita del fatto che attirasse tanti sguardi.
Alzai
mentalmente le spalle, posando il vassoio coi bicchierini di sakè
sul loro tavolo; i cinque mi ringraziarono e io mi profusi in un
inchino degno della corte del re di Francia.
Certo
era uno dei musicisti più famosi del Sol Levante e aveva una
bellezza al di sopra della media. Ma non bastava questo a renderlo
così magnetico.
Stavo
giusto cercando di capire cosa diavolo avesse di così stratosferico
da attrarre gli sguardi da triglia di tutte le donne sposate o meno
della “Tentazione” quando, alzando lo sguardo, incontrai un paio
di occhi castano chiaro che mi fissavano, col rimasuglio di un
sorriso sulle labbra.
Touchè,
Riot. Fregata.
Avrei
dovuto chinare capo e sguardo, allontanarmi dal tavolo; ma rimasi
stupidamente incantata, quasi a bocca aperta.
Dei,
quegli occhi!
«Sei
nuova alla Tentazione?»
Mi
sforzai di voltarmi verso la voce che mi aveva chiamato. Il bassista,
Reita, mi guardava con uno strano sorriso sul volto. Con un brivido
rividi in quegli occhi sottili, da cacciatore, una pericolosa
scintilla che era stata la mia rovina e nello stesso tempo la mia
salvezza, anni prima.
Mi
sforzai di ricordare i pomeriggi (una quantità molteplice di
pomeriggi) in cui Janine mi aveva riempito la testa di lodi riguardo
quell'uomo e cercai di racimolare quanto più materiale fosse
possibile per non fare una figura da chiodi. E devo dire che, a parte
i vari Oh, Dei, ma guarda quanto è bello!,
non riuscii a rievocare molto.
«No,
Suzuki-sama. Lavoro qui da quasi sei anni.»
Ero
anche riuscita ad azzeccare il cognome, non ci avrei mai scommesso.
Reita
inclinò il volto, guardandomi con una strana luce negli occhi.
Indubbiamente
era bello, tutti e cinque lo erano in modo diverso e spaventoso.
«Non
ti avevo mai vista... Sei molto carina.»
Arrossii
istantaneamente, sbattendo le ciglia come un cerbiatto intimidito.
Riot,
tieni quegli occhi incollati al pavimento. E, per la pietà degli Dei
onnipotenti, non farti mettere nel sacco da quello sguardo!
«Ryo...»
mormorò qualcuno con un tono di vago rimprovero.
C'era
qualcosa, in quella sottospecie di bambola dagli occhi portentosi,
che stonasse, accidenti?
Aveva
una voce dal timbro tipicamente maschile, ma, incredibile a dirsi,
gli stava divinamente pure quella ed era così perfettamente in
contrasto con la dolcezza dei lineamenti da suscitare in qualsiasi
persona una curiosa attrazione.
«Ryo,
sei ubriaco.» mormorò con indolenza il cantante, accendendosi una
sigaretta. Ovviamente alla Tentazione era vietato fumare e
altrettanto ovviamente il vocalist dei Gazetto avrebbe potuto
dare fuoco alla tovaglia senza che nessuno si sarebbe azzardato a
togliersi dal volto un'espressione devota e servizievole.
«Non
è vero.»
Non
sapevo cosa fare.
Da
un lato mi era proibito categoricamente dare le spalle ad un ospite
che mi stava rivolgendo la parola, a maggior ragione ad un cliente
del tavolo sette, soprattutto se era il bassista dei GazettE.
Dall'altra l'unica cosa che volevo fare era fuggire da quello sguardo
invadente e tornarmene a casa.
C'era
poi una parte di me, chissà quanto grande e quanto importante, che
non riusciva a distogliere l'attenzione dal chitarrista, che peraltro
mi stava ancora osservando come se fossi il nuovo arrivato ad una
festa, un sorriso appena accennato su quelle labbra da mordere e una
tranquilla curiosità nello sguardo.
C'era
una cosa, fra le miriadi di notizie che mi aveva snocciolato Janine.
che mi si era stampata in testa come un incisione a fuoco e che
sembrava quasi pulsare quando mi ritrovavo a pensare a lui.
Si
chiamava Kouyou, come mio fratello.
Decisi
che la cosa più saggia da fare fosse allontanarmi il più
velocemente da quel tavolo e farmi promettere da Chomei che non mi
avrebbe mai più assegnato al sette. Avevo perso troppo, lasciandomi
intrappolare da uno sguardo del genere e mi conoscevo a sufficienza
per sapere che potevo ricascarci.
Mi
inchinai brevemente, auto-congedandomi con un'abilità impressionante
e feci un rapidissimo dietrofront.
Sarebbe
stato decisamente troppo chiedere agli Dei di distrarre
momentaneamente quegli occhi da cacciatore per permettere a me,
piccolo coniglietto spaurito, di darmela a gambe. Decisamente troppo.
E mia madre mi diceva sempre che non bisogna essere egoisti.
Sussultai
come una frusta ancora prima di rendermi conto di cos'era successo e
la mano affusolata di Reita era ancora sfacciatamente appoggiata sul
mio sedere quando mi voltai. Il suo viso era un ghigno malizioso.
Solo
quando vidi le mie dita stampate in rosso sulla sua guancia, mi resi
conto di ciò che avevo fatto. Tutti e cinque mi stavano guardando
come fossi un alieno, in particolar modo Reita a cui, se non fossi
stata così sconvolta, avrei consigliato di chiudere la bocca onde
evitare di fari strisciare la mascella sul pavimento.
Mi
portai la mano incriminata dietro la schiena, come se potessi in
qualche modo negare il delitto che avevo commesso. Solo poi mi
resi conto che niente e nessuno avrebbe potuto salvarmi dalle
conseguenze delle mie azioni.
Avevo
schiaffeggiato il bassista dei Gazetto!
Cominciai
a piangere, silenziosa ed immobile come una roccia, senza neanche
rendermene conto.
Sembravamo
nel bel mezzo di una agonistica partita a Le belle statuine
tale l'immobilità che ci aveva preso. Poi il cantante – il cui
nome mi sembrava avesse a che fare con un demone – si riscosse e
riprese a fumare con indolenza. Le sue labbra si tesero in un pacato
sogghigno, mentre soffiava il fumo dalle narici.
«Ben
ti sta, tonno.»
~
«Moshi
moshi?»
«Ha-hanae?»
Dall'altro
capo del telefono ci fu un attimo di silenzio.
«Cos'ha
fatto quello stronzo?» sibilò poi a voce bassa, improvvisamente
molto più sveglia di come mi aveva risposto.
Rimasi
così sbigottita che smisi all'istante di singhiozzare
silenziosamente e scollegai momentaneamente il cervello.
«Come
fai a saperlo?» mormorai incredula.
«Dei
del cielo, vi prego, fermatemi prima che venga lì e faccia una
strage!» esclamò lei, quasi gridando. Lanciò poi un'imprecazione
così indecente che mi ritrovai a pregare che la mia Emi non fosse in
ascolto.
«Hanae...»
«Non
dirmelo, non dirmelo!» berciò lei, fuori controllo «Scommetto che
quella si è rotta un'unghia e perciò lui non può portare
Emi-chan a scuola!»
E
mentre Hanae, mia coinquilina, nonché mia migliore amica e mia
personale guardia del corpo, mormorava un tenerissimo no, piccina,
non succede nulla, torna a fare la nanna, molto probabilmente
riferito a mia figlia, mi resi conto che non stavamo decisamente
parlando della stessa persona.
«Ma
ce l'hai con Spike?»
«E
con chi dovrei avercela?»
Forse
con un coglione di bassista a caso che mi ha appena fatto perdere il
posto?
Sospirai,
mentre le lacrime minacciavano di rompere nuovamente gli argini.
«No,
niente. Hanae, devi farmi un favore...»
«Non
prima che tu mi abbia detto chi ti ha fatto piangere, dal
momento che sembra io abbia insultato Spike per nulla.» fece una
piccola pausa, ponderando su ciò che aveva appena detto; emise uno
sbuffo e io fui certa che dall'altra parte della cornetta lei avesse
agitato una mano in aria, rifiutandosi anche di prendere in
considerazione l'idea che Spike non meritasse degli insulti a
vuoto.
«C'è
un problema al lavoro. Devi portare Emi a scuola. Anche prima
dell'apertura, le bidelle mi conoscono e sanno che ho degli orari
incasin-»
«Che
genere di problema lavorativo può far piangere te?»
Chiusi
gli occhi. Hanae aveva un intuito che mi risparmiava spesso e
volentieri la fatica di aprire bocca e parlare.
«Un
problema che rischia di farmi perdere il posto.» intravidi Chomei
che mi faceva un inequivocabile cenno col mento «Devo scappare
Hanae, ti racconto tutto questa sera.»
Vivevamo
assieme, eppure potevamo vederci solamente un'ora alla sera e il
venerdì. Aveva minacciato di dare le dimissioni alla casa editrice,
se il direttore non le avesse concesso di avere il giorno libero
assieme a me e quell'uomo era stato abbastanza sveglio da
accontentarla al più presto.
Il
venerdì era una festa per tutta la nostra ristretta famiglia di sole
donne.
Portavamo
assieme Emi a scuola e poi passavamo un'intera mattinata assieme,
anche sedute sulla panchina del parco, con l'immancabile termos del
caffè e la bocca piena di chiacchiere. Poi, all'una, passavamo a
prendere la piccolina alle elementari e andavamo a pranzo fuori, poi
al parco giochi, al cinema o allo zoo, o dovunque volesse lei. Era la
principessa della giornata.
Non
sapevo se il pensiero di poter avere una quantità enorme di giorni
liberi da dedicare alla mia Emi mi desse più gioia o angoscia.
«Hana-chan,
ti prego. La bambina.»
Capitolò
con un sospiro, ma io non gli permisi di pronunciare alcunché;
Chomei si stava avvicinando frettolosamente.
«Arigato,
tesoro. Ti voglio bene.»
Interruppi
la telefonata con un sospiro pesante.
«Rika...»
«Sì...
Arrivo, sì.» mormorai infilando il cellulare nella borsa e
seguendolo fino alla porta del capo. Mi diede un affettuoso colpetto
al gomito col dorso della mano e gli risposi con un sorriso sincero.
Dovevo
entrare nelle ordine d'idee che non mi sarei più alleata con quel
ragazzo scarno e dinoccolato per far arrivare gli ordini del sette a
Janine.
Alzai
gli occhi al soffitto, mentre bussavo.
Janine
mi avrebbe fatto a fette appena avesse scoperto che avevo
schiaffeggiato l'amore della sua vita.
Sogghignai.
Salvo
poi chiedermi con voce trepidante come fosse stato toccare il suo
viso.
«Avanti!»
Junnosuke
Fujishima mi rivolse un'occhiata severa.
Lavoravo
alla Tentazione da ben prima di incontrare Spike e rimanere incinta.
Junnosuke era stato un po' come un padre per me: mi aveva dato più
di anno di ferie pagate quando avevo scoperto di aspettare Emi,
quando qualsiasi altro proprietario mi avrebbe semplicemente
licenziato appena il mio ventre avrebbe cominciato ad arrotondarsi.
Mi aveva aiutato moltissimo, anche quando la difficile gravidanza
aveva richiesto spese mediche molto al disopra del mio stipendio. Se
guadagnavo così poco in quel periodo era perchè gli stavo ancora
tornando quanto mi aveva generosamente prestato.
Scherzando,
mi definiva la sua figlioccia.
Oltre
alla pacata disperazione che provavo nel trovarmi improvvisamente
senza lavoro, nel mio cuore c'era spazio anche per un profondo
sconforto nato dalla delusione che vedevo nei suoi occhi.
«Riot,
l'uomo cui hai appena rotto il setto nasale è Takashima-sama.»
Kouyou
apparve quasi dal nulla con un sorriso sulle labbra e in quello mi
accorsi di avergli praticamente sbattuto la porta sul naso quand'ero
entrata.
Avvampai.
«Perdonatemi...»
sussurrai con un filo di voce.
«Non
fa nulla, non si preoccupi.»
Cadde
un silenzio opprimente; dopo qualche istante di vuoto assordante
capii che entrambi si aspettavano che dicessi qualcosa.
Mi
inchinai a lui quanto più profondamente e sinceramente mi riuscii,
la qual cosa mi permise di nascondere il volto in fiamme e gli occhi
liquidi dietro i capelli.
«Sono...
mortificata. La prego di portare le mie più sentite scuse a
Suzuki-sama. Forse potrei venire a porgergliele io stessa alla casa
discog-»
«Credo
che dovrebbe avvenire il contrario.»
Alzai
confusa gli occhi e mi ritrovai a fissare il suo sguardo limpido.
Riot,
abbassa lo sguardo, ora.
«In
mie modesta opinione, sarebbe Ryo a dover venire qui da lei. E
soprattutto dovrebbero essere lui a farle le sue più sentite
scuse per essere stato così maleducato.»
Stavo
sognando o quell'uomo mi stava difendendo quando aveva malmenato
ferocemente uno dei suoi migliori amici?
«Ero
intenzionato a licenziarti, Riot.»
Mi
voltai verso Junnosuke con gli occhi sbarrati, il cuore al galoppo.
«Conosco
bene la storia che hai alle spalle.» arrossii e provai un moto di
irritazione; non mi piaceva che la prova tangibile della mia
stupidità ed ingenuità venisse sbandierata, soprattutto se c'erano
di mezzo estranei «Tuttavia voglio sperare che sia stato un
episodio isolato.»
Il
mio inchino fu così profondo ed entusiasta che rischiai quasi di
cascare ai suoi piedi; barcollai leggermente, mentre un involontario
sorriso mi piegava le labbra.
«Assolutamente
sì, Fujishima-sama. Sono desolat-»
«Non
devi impressionare nessuno, Riot.» mi riprese bonariamente, e con la
coda dell'occhio vidi Kouyou accennare un sorriso «Chiamami come fai
di solito.»
Annuii,
il capo ancora chino.
«Ti
ringrazio infinitamente, Junno.»
«Non
me, Riot. Ringrazia Takashima-sama se continuerai ad indossare quella
divisa.»
Mi
ricomposi in tempo per intercettare uno sguardo del chitarrista.
Quegli
occhi.
«Ora,
se volete scusarmi, vado a dire a Chomei di rifiutare anche un solo
yen per la cena.»
...cena
che io ovviamente dovrò rimborsare di tasca mia.
Quel
sorriso composto si accentuò, quasi abbagliandomi.
«Mi
perdoni Fujishima-sama, tempo di aver erroneamente allungato
un assegno al vostro capo cameriere prima di raggiungervi.» mormorò
con voce tranquilla.
Non
erano in molte le persone che potevano vantare di aver preso in
contropiede Junnosuke. Questi inarcò deciso un sopracciglio, ma lo
lasciò ricadere morbidamente con un sorriso. Si inchinò senza
pronunciare una parola e uscì dall'ufficio, chiudendosi la porta
alle spalle e lasciandoci soli.
Tanto
di cappello, biondino.
Era
notte fonda e io ero chiusa dentro ad una stanza col chitarrista
solista più famoso di tutto il Sol Levante. C'erano ragazze (e
supponevo a buon ragione, anche ragazzi) che avrebbero venduto
l'anima al miglior offerente dello Yomi per trovarsi al mio posto, e
la sola cosa che riuscii a fare fu esalare un sospiro carico di
sollievo e lasciarmi cadere sulla poltrona in pelle davanti alla
scrivania.
«Posso
darti del tu?»
Alzai
lo sguardo sul suo viso con uno scatto. Ero così spossata dal
nervosismo e dall'ansia che dimenticai perfino i convenevoli e
mormorai un flebile sì.
«Posso
farti una richiesta?»
Anche
la Luna se me la chiedi con quel sorriso.
Annuii,
incapace di proferire parola.
«Dammi
del tu.»
Mi
alzai lentamente e la severa educazione che mi era stata impartita mi
piovve in testa come un secchio d'acqua: mi prodigai in un inchino da
manuale, salvo poi rendermi conto di cosa effettivamente mi aveva
chiesto.
«Del...
tu.» ripetei, convinta di aver capito male.
Ma
lui annuì, accecandomi con un ennesimo sospiro, poi fece un piccolo
inchino.
«Molto
piacere, Rika...» mormorò dando un'occhiata alla traghetta che
portavo appuntata al seno e mi chiesi per quale astrusa ragione uno
sguardo così innocente riuscisse ad imbarazzarmi «...mi chiamo
Kouyou.»
Kouyou.
«Lo
so...» ribattei stupidamente.
Inclinò
lentamente il volto e i capelli gli scivolarono su una spalla. Un
sorriso portentoso gli piegò le labbra.
«Sei
una nostra fan?»
Scossi
la testa.
«C'è
una mia collega, Janine, che non fa altro che parlare di voi,
così...»
«Ah,
sì. Credo di aver capito chi è. Ryo ha fatto lo scemo anche con
lei.»
Mi
scappò un sorrisetto. Anche per una persona poco avvezza allo star
system e al caleidoscopico mondo dei fan come me, era palese che una
fangirl come Janine avrebbe dato anche un braccio per essere palpata
dal bassista dei Gazetto.
Alzai
lo sguardo sul suo viso e mi presi la libertà di studiarlo. Era
semplicemente indecente che un uomo avesse della labbra così
carnose e sensuali.
Mi
riscossi appena in tempo per accorgermi del cenno che mi faceva:
ubbidii e presi posto sul divanetto di pelle; lui si sedette accanto
a me, appena oltre la linea invisibile che distingueva la spazio
vitale di ogni persona e che, oltrepassata, avrebbe rivelato
un'interesse o un'invadenza ai limite della maleducazione.
Il
profumo forte ma piacevole della sua colonia mi avvolse la mente.
«Devi
perdonare Ryo.»
Accavallò
le gambe con un movimento che avevo visto così aggraziato solo da
alcune avvenenti clienti della Tentazione. Rimasi quasi incantata
dall'eleganza di quel semplice movimento e feci forza su di me per
spostare lo sguardo al suo volto.
“Come
cadere dalla padella alla brace – Dieci mosse per infinocchiarsi da
soli” di Rika Yamashita.
«Di
solito non è così... così...» corrugò la fronte, in cerca di un
aggettivo adeguato.
«Idiota?»
suggerii io acidamente, prima di rendermi conto dell'ennesima gaffe.
Sembrava che quell'uomo mi togliesse la capacità di ragionare
lucidamente e lasciasse al suo posto un criceto obeso che non era in
grado di far muovere la ruota neanche rotolandoci sopra.
Sghignazzò,
portandosi una ciocca color miele dietro l'orecchio.
Tirai
un mentale e profondo sospiro di sollievo. Finalmente. Erano almeno
cinque minuti che resistevo stoicamente alla tentazione di
sistemargliela io stessa.
«No,
mi spiace, idiota lo è sempre. Volevo dire maleducato.»
Mi
regalò all'improvviso un sorriso dolcissimo.
Terra
chiama Riot!
«Perciò
perdonalo, in condizioni normali sono certo che non l'avrebbe mai
fatto. Era solo ubriaco.» aggiunse con un sorriso, a mo' di scusa.
Mi
irrigidii, raggiungendo la solidità di una statua di marmo.
«Non
avevo nessuna intenzione di metterti incinta, troia, ero ubriaco!»
Strinsi
le dita fino a conficcarmi le unghie nella carne e a sbiancarmi le
nocche.
«Ti
devo ricordare per la milionesima volta che non volevo una figlia e
che ero ubriaco?»
Sbuffai
una risata amara come fiele.
«Ero
ubriaco, Rika, ficcatelo in quella testa.»
«Certo.»
mormorai amaramente, facendo un sorriso tirato. Mi lisciai la gonna
sulle gambe con un movimento stizzito, prima di alzarmi.
Dovevo
uscire da quella stanza prima di perdere il controllo o Junno non ci
avrebbe pensato due volte prima di licenziarmi.
«Le
auguro una buona serata, Takashima-sama.» sibilai acidamente e
infilando la porta.
Sentii
il rumore della pelle del divano che si piegava su se stessa, quando
lui alzò rapidamente.
«Ho
detto qualcosa di sbagliato?»
Riot...
«No,
affatto!» mi voltai verso di lui, quasi strillando «Voi uomini
tirate fuori la scusa dell'alcool ogni volta che non avete voglia di
prendervi le vostre responsabilità.» feci una pausa, tirando il
fiato, mentre lui sgranava gli occhi «Non volevo causare un
incidente stradale, ero solo ubriaco!» la voce mi si spezzò in un
singhiozzo e gli argini si ruppero definitivamente dopo sei anni «Non
volevo stuprarla e metterla incinta, ero ubriaco!» soffiai senza
fiato, le guance ardenti e gli occhi gonfi di lacrime.
«Rika...»
«Se
non abitassimo in una società così schifosamente maschilista io
avrei avuto tutto il diritto di schiaffeggiare quel maiale del suo
amico fino a domani mattina, invece di umiliarmi a porgere le mie
scuse.»
Junno
si precipitò dentro la stanza, probabilmente attirato dal tono alto
della mia voce.
«Che
succede?» domandò truce a tutti e a nessuno. Lo conoscevo da molto
tempo, ma non riuscii a capire se stesse fulminando me per star
creando altri problemi o Kouyou per le lacrime che rigavano le guance
della sua figlioccia. Era sempre stato estremamente rispettoso coi
suoi clienti, ma era nello stesso tempo un uomo molto onesto che
detestava le ingiustizie e le angherie.
A
suo tempo avevo dovuto convincerlo a non andare di filato da Spike
per riempirlo di botte. Cosa della quale a volte mi pentivo.
«Niente.»
sibilai, cercando di recuperare anche solo un pelo di dignità «Io e
Takashima-sama stavamo scambiandoci alcune opinioni.»
Feci
un grosso respiro, inchinandomi scompostamente ad entrambi, prima di
uscire dall'ufficio sbattendomi la porta alle spalle.
~
«Non
capisco perchè ti mortifichi tanto!»
Trassi
un gran sospiro, addentando un panino al prosciutto crudo; ce ne
erano altri due nella mia borsa, avremmo dato il tempo ad Emi di
mangiarli all'ombra di un albero e poi l'avremmo portata al luna park
itinerante che si era stabilito nel parcheggio del Tokyo Dome.
Speravo solo che la mia bimba fosse grande abbastanza da non
pretendere la mia presenza sul Bruco Mela; sapevo per certo che non
avrei resistito ad un altro viaggetto con le ginocchia in bocca.
«Hanae,
non l'ha detto per ferirmi...»
«E
vorrei ben vedere! Se l'avesse fatto ci sarebbe un bassista in meno
al mondo!»
«È
il chitarrista lui. Il bassista è quello che mi ha palpato.»
Liquidò
la mia precisazione con un gesto della mano. Finì di inghiottire il
boccone e poi riprese con la sua polemica contro il povero Kouyou.
Mi
rendevo conto perfettamente che non meritava assolutamente il mio
travaso di bile e che la sua unica colpa fosse stata trovarmisi
davanti in quella serata di reazioni esagerate. Avrei voluto
domandargli scusa per la mia maleducazione, ma avevo convenuto con
Hanae che meno avrei visto quel gruppo in futuro, meglio avrei
vissuto la mia vita. La sera prima avevo chiesto a Chomei di non
assegnarmi più al sette, se i Gazetto lo avessero occupato, e lui
era stato molto comprensivo.
Il
suono della campanella della scuola interruppe il mio flusso di sensi
di colpa e le parole di Hanae.
Mi
alzai dalla panchina in tempo per vedere quella testolina di capelli
ricci venirmi incontro correndo, la divisa sbottonata e uno sbaffo
d'inchiostro sulla guancia.
Fin
dalla prima volta che l'avevo presa in braccio mi ero perdutamente
innamorata di lei e l'avrei amata anche se fosse stata un orco. Ma
durante la sua crescita avevo tirato un sospiro di sollievo: Emi era
identica a me e non somigliava a Spike neanche nella forma delle
orecchie. Non avevo esultato per la piccola rivincita che avevo preso
su di lui, ma perchè ogni volta che avrei posato lo sguardo su di
lei, avrei visto mia figlia, e non l'errore che mi era costato
l'università.
D'altra
parte, quei capelli neri e ricci venivano fuori praticamente dal
nulla, dal momento che sia io che Spike avevamo capelli mossi e
castani.
«Mamma!»
Mi
saltò in braccio con l'entusiasmo di un cucciolo e io la strinsi a
me con tutte le forze.
«Anima
mia, com'è andata a scuola?»
Emi
richiese un abbraccio anche alla “zia Hana” e poi si voltò con
un sorriso gigantesco in volto.
«Guarda!»
strillò eccitata, togliendosi dalle spalle l'enorme zaino e
frugandoci dentro; ne tirò fuori un spelacchiatissimo coniglietto di
pezza che le avevo fatto io stessa, riportando alla memoria polverosi
ricordi di lezioni di cucito. L'avevo imbottito con del cotone, ma le
mie scarse doti di cucitrice avevano fatto sì che un'orecchia gli
penzolasse sul bottone nero che gli fungeva da occhio sinistro,
mentre l'altra stava dritta come un soldatino in aria. Recentemente
poi, il simpatico codino gli si era proprio staccato, provocando
pianti infiniti ed inconsolabili.
«La
maestra Utaku ha aggiustato Mikki-chan!» esclamò Emi agitando
Mikki-chan in aria con così tanta foga ed entusiasmo che sfuggì da
quelle piccole manine e cadde a terra pochi metri più in là.
Lei
trattenne il respiro, portandosi una manina alla bocca e
precipitandosi in soccorso del suo coniglietto.
Ma
Kouyou arrivò prima.
Sbucò
praticamente dal nulla, raccolse il pupazzo fra le mani e lo spolverò
delicatamente, con un sorriso intenerito in volto; Emi, che si era
cristallizzata sul posto appena si era accorta della sua presenza,
fece un rapidissimo dietrofront, nascondendosi dietro le mie gambe.
Gambe
la cui padrona era rimasta stupidamente con l'ultimo boccone del
panino a mezz'aria, il golf pieno di briciole e un'espressione da
idiota in volto. Arrossii come un pomodoro maturo senza riuscire ad
impedirmelo.
Dannazione.
Alla luce del sole era ancora più affascinante.
«È
tuo?» domandò con dolcezza ad Emi, la quale lo stava guardando come
fosse un alieno verde fosforescente. Lei annuì timidamente, sempre
continuando ad usarmi come scudo umano.
Kouyou
si avvicinò lentamente, accovacciandosi accanto alle mie gambe e
tendendo il pupazzo verso mia figlia, la quale esitò qualche istante
prima di prenderlo e stringerselo al petto. Abbandonò il suo rifugio
sicuro – sempre, però, tenendosi stretta con una manina ai miei
jeans – per abbozzare un tenerissimo inchino di ringraziamento.
«È
molto bello. Come si chiama?»
«Mikki.
Ed è una femmina...» aggiunse un po' risentita.
«Oh,
perdonami.»
Possibile
che la sera prima fossi uscita di casa con delle fette di prosciutto
sopra agli occhi? Porca miseria, mi ero resa conto fosse una creatura
eccezionale, ma dovevo aver stupidamente rimosso il fatto che
riuscisse a farmi avvampare solo arricciando il naso.
Arricciando
il naso!
Mi
voltai attonita verso Hanae che, sopracciglio inarcato nella sua più
sprezzante espressione, fissava Kouyou con lo stesso sguardo di un
bodyguard incerto fra la castrazione o la decapitazione del
disgraziato avvicinatosi troppo al suo protetto.
La
vidi rilassarsi improvvisamente, non appena Emi cominciò a
raccontare a quel perfetto sconosciuto le intricate parentele di
Mikiki-chan (parentele che mi vedevano nonna alla sola età di
ventidue anni).
Incontrò
il mio sguardo e mi fece un sorriso che mi disse milioni di cose in
pochi istanti.
«Emi-chan?
Vieni con zia Hanae a prendere un gelato?»
Feci
una smorfia allucinata. Stava veramente tentando poco discretamente -
con tanto di sorriso malizioso e strizzatina d'occhi - di lasciarci
da soli?
Emi
si voltò con uno scatto verso il camioncino rosa confetto attorniato
da bambini che svettava nel piccolo parcheggio della scuola, poi
guardò verso la mia amica, un'espressione seria sul volto paffuto
«Solo se prendiamo un cono anche a Mikki.»
Hanae
ridacchiò, prendendo per mano la piccola e allontanandosi insieme a
lei.
Quando
Kouyou si alzò – facendomi sentire ancora più nana di quel che
ero – si spolverò i jeans in un gesto che fatto da chiunque
sarebbe sembrato inopportuno e presuntuoso, ma che in lui assumeva un
tocco di eleganza tutta sua.
«Ciao.»
Gli
risposi con un piccolo movimento del capo, ancora totalmente attonita
dalla sua apparizione.
Lui
indico Hanae ed Emi con cenno del volto.
«Sono
le tue sorelle?»
«La
mia migliore amica e mia... figlia.» mormorai sulla difensiva,
pronta a dovermela vedere con occhi sgranati e mascelle al pavimento.
Con tutta la buona volontà di questo mondo, purtroppo sapevo che di
non poter dimostrare più ventiquattro-venticinque anni; la
matematica non era un'opinione e la gente tendeva a scandalizzarsi
quando calcolava approssimativamente l'età in cui avevo dato alla
luce quella creatura.
Ma
lui fece l'ennesimo sorriso. «Ti somiglia moltissimo.»
Mi
rilassai leggermente, abbandonando il cipiglio battagliero. «Grazie.»
Di
nuovo quel pacato e cortese invito ad accomodarsi, che avrebbe
completato il quadretto di una cena di gala e che suonava
piacevolmente fuori luogo in un piccolo parcheggio. Presi posto sulla
panchina e lui sedette accanto a me.
«Sono
stato al ristorante, questa mattina...» cominciò con voce pacata,
guardando davanti a sé «...ma tu non c'eri. Il capo cameriere mi ha
dato qualche dritta per raggiungere questo posto.»
Lista
delle cose da fare, primo punto: strozzare Chomei non appena il collo
di quel disgraziato mi fosse casualmente pervenuto fra le
mani.
«Volevo
porgerti le mie scuse...»
«Non
fa niente.» lo interruppi, rischiarandomi la voce «È stata colpa
mia, ero nervosa.»
«Eri
nervosa perchè ho detto qualcosa di estremamente inappropriato alla
situazione.»
Gli
lanciai un'occhiata interrogativa, cui lui rispose con un altro
piccolo sorriso.
«Temo
di aver intuito molto più di quanto tu vorresti venisse a galla del
tuo passato, ma me ne sono reso conto troppo tardi e forse ho detto
la cosa più irritante e fastidiosa potessi mai dirti.»
Non
solo era bello come il Sole, fatto come una statua, non solo aveva un
paio di occhi che sembravano due trappole d'ambra, non solo era
affascinante, carismatico e probabilmente un chitarrista eccezionale,
non solo queste sue caratteristiche sembravano moltiplicarsi come
conigli nella stagione degli amori alla luce del giorno, era pure
intelligente.
Abbassai
lo sguardo sulle mie mani intrecciate.
«Non
avrei comunque dovuto scattare così. Quello che mi è successo non è
una giustificazione alla mia reazione.»
Calò
un silenzio in qualche modo rassicurante.
«Perchè
Fukishima-sama ti chiama Riot?» domandò poco dopo.
Sgranai
gli occhi, sorpresa da quella domanda. Alzai per l'ennesima volta lo
sguardo sul suo volto e ci lessi una sincera curiosità. Abbozzò un
sorrisetto.
«Sono
abituato al fatto che mi venga sempre detto di sì, ma tu puoi
benissimo mandarmi a quel paese se sono indiscreto...»
«No,
no, affatto...» lo rassicurai, scuotendo il capo. Trassi poi un gran
sospiro.
«Mio
fratello ha cominciato a chiamarmi Riot il giorno in cui abbiamo
partecipato assieme ad un corteo di protesta.» abbozzai un sorriso,
al ricordo di tanta, caotica confusione.
Quello
che mi era subito piaciuto di quella serie di ribellioni era stata
l'unione fra i partecipanti. Non conoscevo nessuno a parte mio
fratello, ma quei perfetti sconosciuti mi avevano teso un sacco di
mani per aiutarmi a salire sulla statua della stazione e un gruppo di
spaventosi punk dai capelli colorati - dai quali, normalmente, sarei
stata alla larga - aveva condiviso con me la sua scorta di birra,
come fossi stata una di loro. Una donna che poi era sparita dalla mia
vista mi aveva aiutato a rialzarmi quando ero caduta spintonata dalla
folla e un ragazzo del quale non ricordavo il nome mi aveva preso
sulle spalle per farmi guardare il corteo dall'alto.
Io
e Kouyou ci eravamo persi di vista all'inizio della protesta, ma,
quando la sera eravamo tornati a casa, gli avevo raccontato tutto con
tanto entusiasmo che mi aveva affibbiato quel nomignolo.
«Lui
è... mancato tre anni fa e adesso mi chiamano così poche persone.»
«Mi
dispiace, non volevo far riaffiorare brutti ricordi...»
Gli
rivolsi il sorriso più sincero che fossi in grado di fare.
«Non
ti preoccupare, mi sono abituata a ripensare a lui con la gioia che
mi ha dato quand'era in vita.»
Annuì,
pensieroso. «Io ho due sorelle...» mormorò dopo un po' «...e
credo impazzirei se perdessi una di loro.»
Abbassai
nuovamente lo sguardo sulle mie ginocchia, stando in silenzio.
Perdere
Kouyou era stato deleterio. In una famiglia bigotta come la mia, che
non aveva speso una lacrima alla morte del ribelle figlio maggiore,
l'alternativo, rockettaro e bisessuale Kouyou era stata la mia ancora
di salvezza e mancata quella avevo rischiato di lasciarmi sopraffare
dalle onde.
La
benevolenza degli Dei volle che mi rendessi conto, una sera, di non
avere il diritto di lasciarmi andare, non quando avevo una figlia
piccola che mi considerava il punto fermo della sua vita.
Feci
un piccolo sospiro, incavando il collo nelle spalle.
Si
chiama Kouyou, fa il chitarrista e ha due sorelle. Non mi sembra
abbastanza per cominciare ad innamorarsi di lui, ne, Riot?
Avvampai,
imbarazzata dai miei stessi, irragionevoli pensieri.
Era
bello. Mh, okay, okay, forse molto più che solamente bello.
Aveva due occhi spettacolari che si illuminavano come lucine quando
curiosava discretamente nella mia vita. Era pure gentile, cortese
come un gentiluomo d'altri tempi, onesto e molto acuto.
Perchè
mi faceva venire l'irrefrenabile voglia di infrangere la promessa di
chiudere con gli uomini per dedicarmi solo alla mia bambina? Perchè
– e soprattutto come? - riusciva a cancellare, con un
sorriso, tutte le difficoltà e le ingiustizie che avevo subito
innamorandomi di Spike?
«Quanti
anni ha lei?»
Seguii
lo sguardo e vidi Hanae che ripuliva le guance di Emi dal gelato;
anche Mikki-chan, tenuto sotto al gomito della mia migliore amica,
era tutto imbrattato di gelato rosa confetto.
«Cinque.
Ne compie sei fra pochi mesi.»
Altro
piacevole ed avvolgente silenzio.
Senza
contare il fatto che in tutto avevo passato con lui un'oretta scarsa
della mia vita. Decisamente troppo poco anche solo per cominciare
a conoscere una persona.
«Rika?»
Mi
voltai per concentrarmi sulla sua prossima domanda (magari
togliendomi dalla testa quei deleteri pensieri), ma era decisamente
troppo vicino; mi ritrovai improvvisamente a respirare
affannosamente sulle sue labbra. Mi diede un piccolissimo bacio, così
lieve e leggero che mi chiesi se me lo fossi solamente sognato.
Quando
si allontanò dal mio volto sorrise.
«È
tuo diritto, ora, prendermi a schiaffi fino a domani mattina.»
Mi
portai una mano alle labbra, incredula e divisa fra un sorriso e uno
sbuffo. Aveva lo stesso identico aspetto di una bambola di un metro e
ottanta, ma al suo interno nascondeva un cervellino niente male che,
al contrario del mio grasso cricetino, lavorava senza sosta nella
costruzione di un carattere mansueto, ma decisamente troppo sveglio.
«Non
ho intenzione di schiaffeggiarti.» lo rassicurai con un sorriso
intimidito.
«Volevo
solo dirti che non sono ubriaco, che mi prendo tutte le
responsabilità del caso e che sono disposto a rischiare la
decapitazione dandoti un altro bacio.»
Il
criceto obeso riprese ad oziare pigramente nel mio cervello e non si
degnò di mandare l'impulso per una qualsiasi reazione quando
registrò il lento ma inesorabile avvicinamento del suo volto. Chiusi
gli occhi, abbandonandomi a quelle labbra carnose; si mossero piano a
contatto con le mie, chiudendosi con dolcezza sul mio labbro
inferiore e lambendolo con estrema lentezza.
Provai
l'irrefrenabile desiderio di affondare una mano nei suoi capelli e
lui, con un tempismo che mi fece quasi credere che potesse leggermi
nel pensiero, prese una mia mano e la porto alla sua nuca; mi cinse
poi, con quello stesso braccio, la vita, attirandomi a lui.
Aderii
al suo torace con un sospiro, socchiudendo le labbra.
In
tutta la mia vita avevo avuto una sola relazione, se quella con Spike
si possa chiamare così e lui di certo non mi aveva prestato tante
attenzioni. Kouyou, invece, mi sfiorava come fossi stato un
delicatissimo bicchiere di cristallo, con la stessa reverenziale
devozione che io invidiavo a tutte le coppie degne di questo nome e
che Gidayu, santo d'uomo che acconsentiva al volere della fidanzata
di non lasciarmi sola nel mio appartamento, usava per abbracciare
Hanae quando...
Porca
troia.
Mi
staccai poco cortesemente dal bacio, spintonando Kouyou per le
spalle. Mi raggomitolai su me stessa, sul bordo della panchina, e
respirai a fondo, tentando di recuperare un po' di fiato e pregando
gli Dei che Hanae fosse distratta da altro.
Ma
quando alzai lo sguardo sulla strada, la prima cosa che vidi fu il
suo volto. Emi si stava dondolando sull'altalena e mi dava le spalle,
ma mi detti della cretina per aver pensato, anche solo per un
istante, che Hanae non mi avrebbe tenuta d'occhio, pronta a
precipitarsi da noi a passo di carica e a prendere Kouyou a
borsettate al primo passo falso.
Mi
regalò un sorriso raggiante, così splendente che ne rimasi quasi
accecata. Inarcai le sopracciglia, sgranando lentamente gli occhi,
come per chiederle se si fosse resa conto di cosa aveva appena visto.
Lei chiuse entrambe le mani a pugno, lasciando i pollici sollevati e
associò questo gesto internazionale ad un'espressione così
soddisfatta che mi venne quasi da ridere.
“Mi
piace” diceva quello sguardo e io le risposi con un sorriso.
«La
tua amica approva?»
Avvampai
come un semaforo, voltandomi verso di lui. La sua posizione era molto
più rilassata di prima, il suo volto era luminoso e un suo braccio
era appoggiato pigramente allo schienale della panchina, proprio
dietro le mie spalle.
«Ehm,
lei...»
«...è
la tua guardiana.» completò per me con un sorrisetto divertito.
Annuii,
sorridendo anch'io.
Avevo
appena baciato un uomo di cui conoscevo solo il nome e la professione
e l'avrei rifatto in quel preciso istante. Il consenso di Hanae era
stato come un sigillo posto sull'affidabilità di quell'uomo.
«E
credi che mi permetterà di invitarti fuori a cena questa sera?»
«Vieni
con noi a vedere “Bambi”?!» strillò eccitata Emi ad un metro di
distanza, facendoci sobbalzare come salmoni in un fiume. Quando
accidenti si erano mosse quelle due?
Hanae
si avvicinò lentamente, un cono mezzo sbocconcellato in una mano e
Mikki-chan nell'altra.
«Mi
spiace...» mormorai abbassando lo sguardo «...ma il venerdì lo
dedico solo a loro due.»
Gli
lanciai un'occhiata di soppiatto, aspettandomi di vedere confusione
sul suo volto, che invece era una sottospecie di sorriso fattosi
viso.
«Beh,
potrei portare Emi-chan con me e Gidayu all'acquario...» buttò lì
con noncuranza Hanae, ignorando poi con una maestria invidiabile il
mio umiliante rossore «...che ne dici dolcezza?»
Emi,
che si era illuminata come una lampadina alla parola “acquario”
sembrò sgonfiarsi come un palloncino bucato.
«Ma
io volevo stare con...» si interruppe, voltandosi poi severamente
verso Kouyou.
«Non
mi hai detto come ti chiami!» borbottò indignata, gonfiando le
guance.
«Perdonami,
principessa...» mormorò lui, toccandosi un inesistente cappello
«...mi chiamo Kouyou.»
«Ah!»
esclamò allora la piccina, avvicinandosi e posandogli le manine
sulle ginocchia «Ti chiami come il mio zio!»
Mi
irrigidii come un pezzo di ghiaccio.
«La
mamma ha la foto di un signore che si chiama Kouyou nella sua camera
e lui è mio zio.» proclamò fiera ed orgogliosa «Però adesso non
c'è più...» aggiunse poi a voce bassa.
Sentii
lo sguardo di Kouyou arroventarmi una guancia, già abbastanza
ardente e rossa per conto suo, ma non riuscii a sostenere il suo
sguardo.
«Allora
vieni con noi a vedere Bambi?»
Conoscevo
troppo bene Hanae, per non pensare che in quel preciso istante non
stesse mentalmente sghignazzando soddisfatta e senza pietà alcuna.
«Solo
se tua madre mi lascia...» rispose Kouyou, togliendo il braccio
dallo schienale per piegarsi sulle ginocchia e guardare negli occhi
mia figlia che, dimentica di tutta la timidezza di prima, gli afferrò
una mano (le sue manine sparivano quasi in quelle di Kouyou) e si
sporse verso di me con un'espressione implorante sul volto.
«Oh,
tipregotipregotiprego!»
«Ma
veramente...» provai a balbettare.
«Io
non ho mai visto Bambi...» mormorò in quello Kouyou; le
labbra (le stesse labbra che riuscivano a farmi venire una
tachicardia acuta solo tendendosi in un innocentissimo sorriso) si
incresparono in un broncio che mi sciolse le ginocchia.
Oh,
bambolina, sai anche sbattere le ciglia come una gatta in calore? Non
manca proprio nulla all'arsenale generosamente donatoti dagli Dei.
«Va
bene...» mormorai allora, improvvisamente senza fiato di fronte ad
un sorriso così... candido.
Hanae
mi osservava compiaciuta. Quando io e Kouyou ci alzammo lei sorrise,
inchinandosi a lui.
«Emi-chan
mi perdonerà se vi do buca.» dichiarò soddisfatta guardandoci come
se fossimo due sposini in viaggio di nozze e con quell'odioso sorriso
che lasciava veramente poco all'immaginazione «Colgo l'occasione per
vedere Gidayu, che mi avrà data per dispersa.»
In
quello, Emi prese a trascinare Kouyou verso il parchetto giochi e
rimbambendolo di chiacchiere. Lui ebbe appena il tempo di farmi
l'occhiolino, regalandomi un ultimo sorriso, e accennare un saluto in
direzione di Hanae prima di assecondare la mia piccola e aiutarla a
salire sull'altalena.
Distolsi
lo sguardo dai due, essenzialmente perchè la sola vista di
un'ipotetica figura paterna accanto ad Emi mi aveva dato le lacrime
agli occhi. Hanae mi si avvicinò, alzandomi il mento con due dita.
«Io
non conosco quel tipo, non so se è uguale a Spike o se è un
gentiluomo...» mi accarezzò una guancia, sorridendo «...so solo
che sono anni che non vedo un sorriso del genere sul tuo volto
e che se è una rockstar a forma di bambola che ti rende così
felice, io ti ordino di non lasciarti scappare suddetta
bambola, sono stata chiara?»
Annuii
in silenzio, perchè sapevo che se solo avessi provato ad aprire
bocca mi sarei messa a piangere come una bambina. Quando mi porse
Mikki-chan, poi, sentii un groppo alla gola che mi impedì
fisicamente di ringraziarla come si deve.
Quando
Hanae si allontanò raggiunsi con lentezza lo scivolo sopra cui stava
giocando Emi; la passione per le altalene si era spenta ben presto.
Kouyou le tendeva una mano, preoccupandosi che non scivolasse dalle
scalette. Si conoscevano da quanto, quei due? Dieci, venti minuti?
Sorrisi.
Quando gli fui vicino, ed Emi si lanciò giù dallo scivolo con uno
strilletto, Kouyou mi avvolse la vita con un braccio attirandomi a
lui e posandomi un bacio leggerissimo sulle labbra.
Una
mezz'oretta dopo ci stavamo allontanando dal parco, dopo aver
raccatto vari componenti di vestiario che la mia bambina aveva
disseminato in giro, feci scivolare timidamente una mano nella sua e
mi resi conto, arrossendo quasi nel sentire l'intenso calore
sprigionato dalla sua pelle, che le due dita lunghe ed snelle
avvolgevano le mie come le braccia di un amante avrebbero avvolto il
corpo della compagna.
«Con
chi esci stasera?»
Kouyou
sorride, passandosi una mano fra i capelli.
«Con
la seconda ragazza più carina di tutta Tokyo.» fece una pausa,
fissando la sua immagine riflessa allo specchio «E se te lo stessi
chiedendo, la più bella sei tu.»
Sorrisi
soddisfatta, pavoneggiandomi di quei complimenti sinceri.
«Mi
chiedo solo perchè una forza della natura come te si sia andata ad
infatuare di un idiota come Spike.»
Sbuffai.
Non
era certo la prima volta che Kouyou esprimeva il suo disaccordo nei
confronti dei miei sentimenti per Spike; la cosa mi irritava
soprattutto perchè fin dalla nostra prima uscita lui si era
comportato in maniera encomiabile.
«Non
è un'infatuazione. Io lui lo amo.»
Kouyou
mi guardò, un sorriso leggermente amaro sul volto.
«Cosa
te lo dico a fare? Tanto l'attrazione in genere è cieca come una
talpa. Ti renderai da sola conto dell'errore che stai facendo.»
Sospirò,
soddisfatto della propria immagine.
«Dolcezza,
vado, Romi-chan mi starà aspettando.»
Annuii,
ancora pensierosa riguardo le sue parole.
Mi
riscossi quando mi diede un buffetto sulla guancia.
«La
ragazza più affascinante di tutta Tokyo mi permetterà di
accompagnarla al cinema domani sera?»
Ridacchiai,
deliziata. Kouyou mi trattava come una principessina nonostante
avessi già quasi diciotto anni.
«Certo
che sì.»
Mi
baciò la fronte.
«Ripensa
a quello che ti ho detto, nee-chan. Chiamala intuizione, ma so di per
certo che Spike non è quello giusto per te.»
Inarcai
un sopracciglio, accarezzandogli piano un braccio.
«E
come deve essere quello giusto per me?»
Lui
ci pensò su qualche istante, grattandosi il mento.
«Ecco...»
rispose infine, regalandomi un ultimo sorriso e infilandosi la giacca
«Dev'essere in tutto e per tutto uguale a me.»
N/A:
Questa
shot è stata scritta per Riot Star.
Dal
momento che io stavo cercando un modo carino per imporle una yaoi,
siamo finite a parlare su msn “E se Riot scrivesse una shonen... E
se Mya scrivesse una etero...”. E visto che Riot la sua parte l'ha
fatta già da mo, io mi trascino dietro a lei mogia mogia come un
cane bastonato, auto-flagellandomi col gatto a nove code per il
ritardo.
Per
chi non lo sapesse riot in inglese significa rivolta,
sommossa, insurrezione.
E
io porterò per sempre nel cuore quella settimana di sciopero con
tanto di occupazione nel mio piccolo liceo friulano.
Sembrava
di stare ad una grandissima festa in famiglia.
Questa
shot è quanto di più etero io sia riuscita a sfornare, si vede
benissimo e non mi convince affatto (seghe mentali congenite, figlia
mia, ordinaria amministrazione u.u), lei si merita molto di più di
questa cosa che parla parla parla e non conclude una cippa lippa.
Mi
schifo da sola per questa robaccia -.-”
Il
solo motivo per cui la posto è perchè Riot l'aspetta da un sacco di
mesi e perchè oggi è il suo compleanno :3
Sappi
che mi rimarrà sempre nel cuore l'immensa soddisfazione di essere
riuscita a farti scrivere una shonen-ai xD
Un
bacione, dolcezza, ti voglio bene!
Mya
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