Avevo
detto che non sarei mai riuscita a scrivere niente più di una
drabble. A quanto sembra, sono una bugiarda. XD Festeggiamo comunque
la prima one-shot: finalmente riesco a scriverne una senza andare a
sfociare in una long di (almeno) nove/dieci capitoli. :)
A
dire la verità, questa storia era partita proprio con l'idea
di dover essere una drabble che aveva come tema il “colpo di
fulmine”, cosa di cui i nostri protagonisti parleranno nella
prima parte, infatti. Dato che, quando avevo finito di scrivere,
c'erano molte più di cento parole, mi sono detta: non ho
voglia di modificarla. Vediamo che cosa potrebbe succedere se decido
di allungare il brodo. Beh, questa è la risposta. Spero che la
apprezzerete e che vi diverta come ha divertito me scriverla.
Un
piccolo (grande) ringraziamento va a mia sorella che mi ha aiutata a
trovare tutte le incongruenze del caso. Se questa storia esiste, è
anche un po' merito suo. ;)
A
voi, buona lettura. ^^
(Ringraziamenti
ed eventuali risposte ad eventuali recensioni in fondo al capitolo).
Ne approfitto per ringraziare tutti coloro che hanno inserito in
preferiti e ricordate le precedenti due drabble (ne ho un'altra
pronta ma la pubblicherò più avanti, non vorrei
viziarvi troppo XD ) e coloro che, naturalmente, hanno lasciato un commentino.
E, adesso, vi lascio davvero.
Come
in quei film
Era
una fredda notte di pioggia; New York sembrava essere stata sommersa,
il traffico era bloccato e le auto arrancavano in mezzo alle altre
quasi galleggiando. Dall'ufficio del capo in cui erano rinchiusi per
via del blackout provocato da quel temporale che pareva volersi
portare via l'intera città, l'unico che possedeva una luce
d'emergenza abbastanza forte per vedere in tutta tranquillità
senza dover sbattere il naso su qualche muro, Castle teneva gli occhi
puntati sul cielo plumbeo e la bocca aperta, meravigliato.
«Castle?
Che ne dici di chiudere la bocca?» lo rimproverò
Beckett, guardando il suo riflesso sul vetro.
«Scusa.
Era da un po' che non vedevo un fulmine così da vicino!
Accidenti! È proprio come nei cartoni animati... bianco e...»
fece dei segni a zigzag nell'aria, per mimare il fulmine che si era
abbattuto sulla città pochi secondi prima. «A zigzag!»
disse, infatti, elettrizzato.
«Sono
felice che tu sappia che forma hanno i fulmini, Castle, ora ti va di
sederti?»
Lui
si sedette velocemente e, ammiccando, la guardò con
un'espressione furba che la fece irrigidire, ma lei non ebbe il tempo
di rendersi conto di cosa era successo, che Castle era tornato alla
finestra, il cellulare in mano e un'espressione di gioia fanciullesca
stampata in faccia. «Ah, quasi quasi, il prossimo lo filmo e lo
metto su Youtube.» dichiarò.
Beckett
corrugò la fronte, cercando di capire come fare per frenare
quella nuova follia rendendosi conto di avere la testa vuota, proprio
come per il caso: pareva che New York, con la sua pioggia, fosse
riuscita a lavare via tutte le sue capacità deduttive. La
verità, però, era che era in piedi da più di due
giorni, ad arrovellarsi sul classico delitto della stanza chiusa:
Lanie aveva detto che la vittima non si era suicidata, ma era stata
uccisa con un coccio di vetro che gli si era conficcato nel petto; la
scientifica aveva specificato che la porta era stata chiusa
dall'interno e le finestre non erano mai state aperte, né per
fare entrare, né per fare uscire eventuali assassini. I
rilievi sembravano dare ragione a questa teoria.
«Se
hai finito con le idiozie, possiamo continuare a lavorare al caso?
Credevo che ti piacesse!» lo stuzzicò, giusto per
ricordargli che era stato lui il primo ad arrivare e, saltando da un
angolo all'altro dell'appartamento dentro il quale era stato trovato
il corpo, aveva agguanto lei, Ryan e Esposito per far vedere loro la
posizione di quello stesso corpo mai identificato.
«Certo
che mi piace!» esclamò Castle, convinto. «Ma,
detective, tu non senti la magia di questa notte?»
Tese
l'orecchio, come se il sentire la magia implicasse doverla percepire
con l'udito. Beckett lo guardò soltanto, picchiettando
impaziente il cappuccio della penna contro il rapporto della
scientifica. Era lì che, secondo lei, la storia non tornava.
C'era qualcosa a cui nessuno aveva pensato, tutti troppo elettrizzati
dall'idea di avere a che fare con quel vecchio rompicapo.
«Tu
hai mai avuto il colpo di fulmine?» la domanda di Castle
distolse la sua attenzione dal caso. Di nuovo.
«Come?»
replicò, incerta.
«Il
colpo di fulmine. È... quando vedi una persona, la guardi e
capisci che sarà quella con cui vorrai passare tutto il resto
della tua vita.»
«So
cos'è. Comunque no.» replicò lei. «Castle...
davvero... torna in te e dammi una mano!»
Castle
mise su un'espressione pensierosa, anzi, a Beckett sembrava che fosse
diventato pressoché triste. Lo guardò, mentre senza
dire una parola si sedeva sulla sedia dall'altra parte della
scrivania. Non era proprio quello che lei aveva in mente, ma era un
notevole passo avanti: nessun cellulare, nessun fulmine, solo un
tuono particolarmente lontano che li fece sussultare entrambi. Ma
Castle non parlò neanche per fare una battutina, o per
punzecchiarla. Ancora pensava al colpo di fulmine?
«Castle?
Non ti sembra il caso di...» si interruppe, adesso preoccupata,
vedendo che non c'erano reazioni di alcun tipo, da parte sua.
«Castle?»
Castle
rimase zitto. Senza la sua voce, il silenzio al distretto era
pressoché totale e sembrava mancare la vita fondamentale per
continuare a lavorare: il capo era andato a casa – e Beckett
sperava che fosse riuscito ad arrivarci, prima dell'arrivo della
tempesta – Ryan era con la sua fidanzata ed Esposito era andato
a casa a dormire ancora prima che scoppiasse quell'inferno. Della
squadra, quella notte, a parte i pochi del turno di notte, c'erano
lei e... beh, c'era Castle.
«Neanche
io ho mai avuto il colpo di fulmine...» mormorò lui, ad
un tratto. «cioè... senza contare Meredith... ma lei non
credo che conti... è successo persino a Derrick Storm e non a
me... è piuttosto imbarazzante.»
Beckett
non riuscì a trattenersi dal mostrarsi sconcertata, credendo
di cominciare a capire. «E tu... sei riuscito a stare zitto
per...» guardò l'orologio di suo padre, sperando di
poter contare il tempo per cui era riuscito a rimanere in silenzio (e
se poteva essere considerato un record personale). «cinque
minuti... per ricordare tutte le tue fiamme?»
Lui
arricciò le labbra, divertito. «Sì, più o
meno.» rispose, al che Beckett alzò gli occhi al cielo,
un po' per l'esasperazione un po' per darsi della stupida per essersi
preoccupata inutilmente un'altra volta: avrebbe dovuto fare il callo
alle stupidaggini di Castle, ma ci cascava puntualmente e faceva
sempre la figura della stupida. Quello sì che era un record
personale, pensò, scuotendo la testa rassegnata.
«Se
hai finito, puoi tornare a fare la persona seria e ad aiutarmi?»
chiese, quindi.
Lui
annuì, corrugando la fronte e tentando di riprendere un
contegno. «Okay, detective, sono pronto. Qual è la
domanda?»
«La
domanda è sempre la stessa: come è stato ucciso John
Doe?»
Il
silenzio calò di nuovo tra loro e stavolta non per contare
tutte le fiamme di Castle; se fosse stato possibile, ognuno dei due
avrebbe potuto sentire le rotelle dell'altro lavorare alacremente per
trovare una risposta. Solo che sembrava non esserci una risposta,
solo un'altra infinita serie di domande da aggiungere alle
precedenti. Castle fu il primo a desistere e confermò la
propria sconfitta con un sospiro esausto.
«Forse
dovremmo tornare sul luogo dell'incidente.» propose per
l'ennesima volta. «Ma con questa pioggia... credo che ci
convenga aspettare fino a domani mattina. Ha aspettato tanto, potrà
aspettare qualche altra ora...»
Era
vero: il cadavere era stato lì per più di una settimana
e, se non fosse stato per la puzza che aveva cominciato a dare
fastidio agli inquilini del palazzo, nessuno se ne sarebbe accorto.
La cosa più strana era che il morto non era il proprietario
dell'appartamento: quello, il signor Joseph Kepner, era tornato dagli
Hamptons quando la polizia aveva cercato di rintracciarlo e il suo
alibi per il giorno dell'omicidio era talmente ferreo che nessuno era
andato a cercare oltre. Avevano setacciato vecchie fiamme con cui si
era lasciato nel peggiore dei modi, avevano cercato concorrenti, soci
in affari, tutti quelli che conosceva – o almeno era quello che
gli aveva dato ad intendere. Neanche Ryan e Esposito avevano trovato
niente, neanche la più piccola macchia, una sbavatura nel
curriculum del proprietario dell'appartamento. Niente di niente. Un
uomo d'affari, ma un uomo per bene. Per Beckett era frustrante.
«Almeno
trovassimo una macchia, un'ombra... qualcosa, diamine!» sbottò.
«Ah,
appunto penso sia colpevole: è troppo perfetto... anche io ho
la fedina penale sporca e posso, tutto sommato, considerarmi un bravo
ragazzo...»
«Già...»
borbottò Beckett, scontenta, guardando il rapporto della
scientifica. Poi, rendendosi conto di ciò che Castle aveva
detto, alzò lo sguardo. «Hai detto che hai la fedina
penale sporca?»
«Sì...»
Castle sorrise, come se la cosa lo rendesse particolarmente
orgoglioso di se stesso. «Avrò avuto l'età di
Alexis... ho rubato la macchina del compagno di mia madre... avevo
fatto una scommessa col mio amico Ronald Parrish... che tipo... non
mi ha mai potuto sopportare.»
«Ma
chi? Il tuo amico?»
«No,
il compagno di mia madre.»
«E'
per questo che gli hai rubato la macchina?»
«No,
non avevo idea che fosse la sua.»
«E
com'è finita?»
«Ha
ritirato la denuncia, soprattutto perché non voleva che io
dicessi a mia madre che lui aveva usato quella macchina per andare
dalla sua amante...» rispose lui, come se la cosa avesse dovuto
essere ovvia per chiunque.
Beckett
rimase interdetta a fissarlo. «E' vera questa storia?»
«Assolutamente
sì!»
Beckett,
sconcertata, si ritrovò ad annuire e Castle ad inclinare la
testa, come se questo avesse potuto aiutarlo ad osservarla meglio.
«Sei
sorpresa?»
«Tu
hai il potere di lasciarmi sempre senza parole.» dichiarò
lei, sincera.
Un
tuono improvviso li fece sussultare per la sorpresa e disse loro che
era anche tempo di lasciar perdere i discorsi stupidi e di riprendere
a fare qualcosa per dare un nome e un volto ad un assassino.
«Allora
scaviamo nel passato di Kepner.» tagliò corto Beckett e
Castle rizzò le orecchie, i suoi occhi si illuminarono come
ogni volta che veniva proposto un qualcosa di interessante per
trovare un assassino o per incastrarlo. Sembrava non stare nella
pelle, quando riuscivano a combinare qualcosa.
«Cerchiamo
le sue auto rubate?»
«Sì,
più o meno.»
«Ma
come?» e si sgonfiò come un palloncino. «Neanche
il telefono funziona!»
Entrambi
guardarono il telefono sulla scrivania del capo e sospirarono
all'unisono. Mentre lui si buttava sullo schienale, sfiduciato, lei
appoggiò la guancia sul pugno chiuso, guardando, senza
realmente vederlo, il rapporto della scientifica che ormai conosceva
a memoria. Sarebbe stata in grado di recitarlo, se solo Castle
gliel'avesse chiesto.
«La
verità» disse. «è che ci siamo fissati che
è il rompicapo della camera chiusa. Ci deve essere una
ragione. C'è sempre!»
«Mi
sembra di sentir parlare me, sai?» rispose lui, sorridendo
sornione.
Lei
gli scoccò un'occhiata omicida. «Togliti quel ghigno
dalla faccia, Castle.»
Castle
si affrettò ad ubbidire: non era mai consigliabile
disobbedire, quando Beckett metteva su certe espressioni per le quali
pure lui riusciva a tremare di paura.
Ma
Beckett aveva già perso interesse per il battibecco: non
riusciva a venire a capo di quella storia e la cosa la frustrava.
Cominciò a ripetere a memoria il rapporto della scientifica,
per evitare di guardare Castle che le rivolgeva un'espressione da
cucciolo bastonato. Le prime righe erano stampate a fuoco nella sua
mente. E fu in quel momento, mentre un altro fulmine illuminava a
giorno l'ufficio del capo, che lei e lui scattarono in piedi,
fissandosi intensamente come quando entrambi capivano qualcosa nello
stesso momento. Ultimamente, poi, capitava sempre più spesso.
«L'appartamento
era chiuso dall'interno!» esclamarono all'unisono.
«Questo
significa che John Doe aveva le chiavi!» disse lei.
«E
qualcuno doveva avergliele date.» rispose lui.
«E
l'unico che poteva farlo era il proprietario!»
«Oppure
il portiere.»
«Ma
il portiere gliele avrebbe date solo se il proprietario gli avesse
detto di poterle prendere.»
«Cioè
il nostro uomo d'affari gli ha permesso di entrare in casa.»
«E
noi in casa abbiamo trovato il mazzo di riserva.» replicò
lei. Si allontanò dalla scrivania e la aggirò,
ritrovandosi faccia a faccia con lui. Entrambi sorridevano e lei
cominciava a sentire l'euforia tipica del momento in cui riuscivano,
insieme, ad approdare a qualcosa. «Quindi il proprietario ci ha
mentito, quando ha detto che non conosceva l'uomo morto in casa sua.»
«Ma
che ci faceva in casa sua? Perché ci era andato?»
domandò Castle.
Beckett
fece marcia indietro. «E se stessimo sbagliando? Se lui fosse
davvero lì senza il consenso del proprietario?»
«Potrebbe
aver mentito al portiere e dato una scusa qualunque per entrare.
Forse gli aveva detto di essere atteso e lui non ce l'ha detto perché
non ci ha fatto caso... ricordi? John Doe era un tipo distinto,
giacca e cravatta...»
«L'immagine
di un uomo rispettabile.»
«Si
era fatto fare le chiavi da qualcuno. In un ferramenta.»
«Un
mazzo di riserva che non è un mazzo di riserva!»
«Ah,
questo comincia a sembrare uno dei miei romanzi!» rispose lui,
sorridendo eccitato. «Quindi il proprietario non ha mentito?»
«Non
necessariamente...» rispose Beckett, lentamente. Rapida, si
avviò verso la porta e, proprio mentre la apriva, un tuono
spazzò via il nuovo silenzio che aveva seguito le sue parole,
la luce elettrica si riaccese, illuminando a giorno il distretto, i
telefoni cominciarono a squillare e tutto sembrava, improvvisamente,
tornato alla normalità. «Su, Castle, andiamo!»
Castle
corrugò la fronte. «Dove?»
«All'appartamento!»
«Ma...
piove!»
«E
allora? Muoviti, non abbiamo tutto il giorno!»
Lui
si affrettò a seguirla verso l'ascensore. «Hai risolto
il caso, allora? Ehm... non sarebbe il caso di prendere le scale?
Sai... con questa pioggia... rischiamo di rimanere chiusi dentro.»
«No.»
rispose lei, senza accennare a fermarsi. «Ci rallenterebbero e
abbiamo poco tempo. Voglio vederci chiaro prima di domani mattina!»
Si
fermò di fronte alle porte e premette con tutta la sua forza
il pulsante di chiamata, strappando a Castle un gemito di dolore,
quasi avesse colpito lui, ma lei era completamente presa dal caso e
non se ne sarebbe accorta, a meno che lui non fosse stramazzato a
terra e non avesse gridato la propria sofferenza. O, almeno, era
quello che Castle pensava.
«Insomma,
hai risolto il caso?» insistette.
«No...» «E
allora perché hai fretta?»
Non
ebbe il tempo di rimuginarci sopra un attimo di più che lei lo
trascinò dentro l'ascensore e con evidente piacere premette il
pulsante contrassegnato col numero -1.
«Bene...»
dichiarò, poco convinto, Castle. «e se si ferma?»
«La
vuoi smettere di fare l'uccellaccio del malaugurio?»
Durante
il tragitto, la tensione che era calata si poteva tagliare con un
coltello e il fatto che lei picchiettasse un po' troppo ferocemente
la punta della scarpa contro il pavimento minava all'autocontrollo di
Castle che si sentiva mettere fretta. Per aiutare lei e anche un po'
se stesso a calmarsi le posò una mano sulla spalla.
«Detective, così non lo spingerai verso il basso. Non
farà prima.»
Beckett
non lo ascoltava; guardava intensamente il display con i numeri che
decrescevano lentamente. Pareva quasi che avesse degli auricolari
invisibili attaccati ad un iPod ancora più invisibile. Castle
ci rinunciò, ma finché non gli avesse intimato di
togliere quella mano, lui non l'avrebbe fatto: gli piaceva quel
contatto così effimero, eppure in qualche modo tanto intimo e
se lei glielo permetteva, almeno quello... che male poteva esserci ad
approfittarne?
«Castle?»
Lui
sospirò: era arrivato il momento e fece per togliere la mano.
Beckett aprì la bocca per dirgli di farlo, quando la lampada
al di sopra dell'ascensore cominciò a tremare e, infine, dopo
una lenta agonia, si spense. Buio. Immobili e rigidi, entrambi
trattennero il respiro come se si fossero accordati per farlo.
Castle
fu il primo a riprendersi. «Ops.» commentò.
Beckett non rispose, ma almeno il suo piede aveva smesso di provocare
quel rumore ossessivo. Il problema era che Castle sapeva che lei era
viva semplicemente perché aveva sospirato pesantemente.
«Beckett?»
Sentendosi
chiamare, la detective esplose: «Chiudi il becco, Castle! È
colpa tua se siamo in questa situazione!»
Se
pensava che Castle sarebbe rimasto zitto a farsi riversare addosso
tutta la frustrazione per qualcosa che si era andata a cercare, si
sbagliava di grosso. Ma era più stupefatto che arrabbiato.
«Colpa mia? Sei stata tu a voler prendere l'ascensore!»
esclamò, infatti, indignato.
«Sì,
ma chi continuava a piagnucolare e a dire che l'ascensore si sarebbe
fermato?»
«Beh,
è colpa tua comunque. Io ti avevo avvertita!»
Castle
era sicuro che Beckett, potendo, gli avrebbe fatto pagare cara questa
frase ed era quasi contento di non poter vedere l'occhiata-killer che
lei, sicuramente gli stava rivolgendo, anche al buio. «Non si
vede un palmo dal naso.» sibilò lei, contrariata. La
sentì spostarsi e, inavvertitamente, pestò il piede di
Castle che, per la sorpresa, più che per il dolore, gridò.
«Che
c'è?» esclamò lei, allarmata.
«Niente...
mi hai solo infilato il tuo tacco nel piede... sicuramente sarà
da amputare!» rispose Castle, sofferente.
Beckett
imprecò tra i denti, in un sibilo appena percettibile, forse
solo da lui che le era accanto. Castle la sentiva armeggiare nel buio
contro le porte dell'ascensore e sentiva le pareti rimbombare. Il
buio amplificava i suoni e dilatava gli spazi, gli sembrava di essere
in un luogo senza fine, non in quel buco d'ascensore dentro al quale
aveva ascoltato Beckett picchiare la punta della scarpa contro il
pavimento. Anche lei pareva essersi allontanata di molte miglia.
«Hai
provato a suonare l'allarme?» domandò.
Gli
parve che la sua voce fosse troppo bassa per arrivare fino a lei, ma
Beckett rispose senza esitazione, fremente di rabbia. «Sì,
ma non funziona. Non funziona niente, in questa notte schifosa!»
«Te
l'av...»
«E
non mi dire che me l'avevi detto!» sbraitò lei.
Castle
si morse la lingua. «Okay.»
Calò
un lungo e pesante silenzio tra loro, uno di quei silenzi pieni di
rimproveri e di frasi non dette che rendeva l'aria irrespirabile. E
Castle odiava quella sensazione. Doveva stemperare gli animi, se ci
riusciva; punzecchiarla un po' riteneva che fosse il modo migliore
per ottenere il proprio scopo. «Proviamo ad urlare?»
chiese, in tono leggero. Aspettò una risposta che non arrivò
mai. «Detective?»
«Sono
qui.» replicò lei, gelida.
«Non
ti vedo.»
«Per
forza, Castle! È buio. Notoriamente, al buio non ci si vede!»
«E
dai... non essere così arrabbiata! Quel che fatto è
fatto e io...»
«Castle,»
lo interruppe lei, ben sapendo che lui voleva semplicemente
rinfacciarle che lui sapeva come sarebbe andata a finire. Beh, non
proprio al buio. «perché non provi a conservare l'aria,
stando zitto?»
«Ma
mi annoio! Il buio è noioso!»
Lei
sospirò, esasperata e non disse nient'altro. Di nuovo, aleggiò
tra loro quella tensione così netta che si poteva
tranquillamente tagliare con un coltello. Castle cominciava a
sentirsi mancare l'aria; forse Beckett aveva avuto ragione a dirgli
di fare silenzio: non era solo perché lui parlava
effettivamente troppo – ma era uno scrittore, diamine! Uno
scrittore deve saperci fare con le parole! – ma anche perché
l'aria respirabile finiva prima o dopo... quella viziata intorpidiva
la mente e rendeva le membra stanche. Castle cominciò a
sentirsi effettivamente molto stanco, ma non sapeva se era perché
era rimasto in piedi molto a lungo e aveva bisogno di sedersi o se
era davvero il fatto di rimanere al chiuso in uno spazio angusto a
renderlo tale.
«Io
mi siedo.» dichiarò.
«Fallo.»
«Ti
metti vicino a me?»
«Non
so neanche dove sei...»
«Allunga
un braccio!» esclamò lui, facendo lo stesso. Ci mise
troppo entusiasmo e, quando lo tese, colpì qualcosa; Beckett
protestò con un «ahi» inviperito che gli fece
ritrarre il braccio, spaventato dall'idea che lei, in un impeto di
rabbia, per vendetta, gli afferrasse il polso e glielo torcesse fino
a spezzarglielo. Le aveva visto fare cose mirabolanti, con i
malviventi, e poi praticava kick boxing... anche quello poteva valere
qualcosa.
«Ups...
che cos'era?» domandò, preoccupato.
«Il
mio naso...» replicò lei, acre.
«Scusa.»
davvero dispiaciuto, si lasciò scivolare fin sul pavimento. Di
nuovo, lei protestò, stavolta quando il piede di Castle colpì
un'altra parte di lei, forse un piede o una caviglia.
«Ma
la vuoi smettere?»
«Non
ci vedo!» si scusò lui, di nuovo. «Cos'era?»
«Il
mio piede.»
«Consideralo
un risarcimento per quel tacco...»
«Quello
te lo sei già preso col naso!» rispose lei, scontenta.
Stava
per rispondere, quando si sentì stringere i capelli e poi
tirare verso l'alto. Un dolore lancinante si propagò per il
suo povero cuoio capelluto. «Ahi. Ahi. Ahi. Detective, che
stai... ah... bastabastabasta!» proprio mentre diceva il terzo
“basta”, la presa di Beckett si annullò e lui
sentì vibrare il muro mentre lei ci si accasciava contro.
Sentì i suoi capelli sfiorargli la faccia, segno che anche lei
si era seduta.
«Sei
riuscita a trovarmi!»
«Non
ci voleva tanto... respiri come un elefante...»
«Adesso
siamo pari.»
Percepì
il suo sorriso nel buio. «Sì, diciamo così...»
«Sei
ancora arrabbiata.» constatò.
«Un
po'... eravamo ad un passo così dal risolvere il caso...»
«Beh,
più di un passo.» la corresse lui. «Insomma... non
avevamo ancora niente, in mano. Solo un paio di congetture e niente
di più.»
«Almeno
potessi chiamare quelli della scientifica per dire loro di analizzare
le chiavi...» sospirò lei, con evidente desiderio.
«Prendi
il cellulare, no?»
«E'
scarico. Posso usare il tuo?»
«Sì,
cert... no! L'ho lasciato sul davanzale per registrare i fulmini! Si
sarà scaricata la batteria!» batté un pugno sul
palmo teso dell'altra mano. «Cavolo!»
Beckett
sospirò. Anche quell'ultima possibilità era sfumata del
tutto. Seduti, l'uno accanto all'altra, dentro un ascensore e un
temporale coi fiocchi che era riuscito persino a mandare in blackout
il distretto e un'indagine in corso, aspettavano. Non esisteva niente
di peggio, per Beckett.
Sentì
Castle che sospirava. «Sarebbe il momento ideale per un po' di
sesso. Hai mai fatto sesso in ascensore, detective?»
Beckett
si sentì cadere le braccia e mugolò, disperata:
esisteva qualcosa di peggio, ed erano le battute stupide di Castle.
«Perché dovevo essere chiusa con te, in un ascensore?
Insomma... con le tante persone che esistono al mondo, perché
proprio con te?»
Percepiva
che lui si muoveva accanto a lei e, dopotutto, la cosa, per quanto la
rendesse impotente di fronte al caso di omicidio, non le dispiaceva
del tutto: se non fosse stato per quella situazione di emergenza in
cui si era andata a cacciare con le sue stesse mani, seduta accanto a
Castle, in perfetto silenzio, lontano dalla frenesia del lavoro o
dalle sue battutine stupide, avrebbe pensato ad un perfetto idillio.
Ma lui riusciva ad aprire sempre bocca con frasi a sproposito: «E
se dovessimo morire, tu me lo daresti un bacio? Intendo... un bacio
con la lingua... uno di quei baci che si vedono solo nei film e che
l'eroina dà sempre al suo eroe prima di morire.»
Beckett
benedì l'oscurità che impedì a lui di vedere
l'espressione omicida che le era apparsa sul volto, insieme ad un
leggero imbarazzo. Non poteva farle certe dichiarazioni... non su un
ascensore. Non su un ascensore bloccato. Non su un ascensore bloccato
dove c'erano solo loro due.
Cercò
di allontanarsi, ma l'ascensore era troppo piccolo e dovunque si
spostasse, lui c'era sempre: o un ginocchio, o un fianco, una mano,
un braccio. Lui era lì, insieme a lei, appiccicato a
lei, e la cosa cominciava a diventare soffocante.
«Non
è il momento, Castle...»
«Ma
se lo fosse, lo faresti?»
«Non
moriremo, quindi il problema non si pone.»
«Che
cosa ne sai? Magari su New York si è abbattuta la più
brutta tempesta degli ultimi cento anni, magari verrà spazzata
via da uno tsunami e noi moriremo soffocati qui dentro. Pensaci, non
vorresti darmi un bacio prima di morire?»
Beckett
girò la testa dalla parte opposta a quella in cui si trovava
Castle. «A volte mi chiedo perché ti sto a sentire...»
«Perché
dico solo cose interessanti.» rispose lui, solenne.
«Sì...
certo.»
«Detective?»
«Eh.»
«Sei
girata verso di me?»
«Che
cosa hai...»
Beckett
non seppe bene cosa fosse successo. Aveva solo la vaga consapevolezza
che le labbra di Richard Castle si fossero posate sul suo naso nel
momento stesso in cui lei si era nuovamente voltata verso di lui.
Rimase paralizzata; il corpo le chiedeva di allontanarlo e di
tirargli contro un pugno tanto forte da tramortirlo, ma la sorpresa
le aveva tolto la capacità di farlo, così come la
capacità di opporsi alle sue mani che le toccarono gentilmente
il viso e che glielo tennero fermo.
«C-Castle...
che... che stai...»
Tacque,
quando lui posò le labbra sulle sue, come attratto dalla sua
voce, desideroso di spegnerla. Le diede un bacio, un bacio appena
accennato, un bacio gentile, pudico. Non era un bacio che si sarebbe
aspettata da Rick Castle. Per qualche ragione, quasi per volergli
dimostrare ciò che avrebbe voluto che facesse, ma più
semplicemente guidata dall'istinto, Beckett lo costrinse ad aprire la
bocca per dargli quel bacio con la lingua che lui le aveva chiesto
poco prima, per gioco. Forse non se l'era aspettato, perché,
sulle prime, era stato lui a rimanere stupefatto esattamente come lo
era stata lei. Durò un attimo, il tempo di capire che poteva
andare avanti.
Una
vocina fastidiosa nella testa di Beckett, però, la costrinse
ad aprire gli occhi e a spingerlo lontano da sé nello stesso
momento in cui sentiva di perdere il lume della ragione, soggiogata
dalle vertigini e dalle piacevoli sensazioni. Si alzò in
piedi, ansimando, con la stessa velocità che poteva metterci
un gatto nel saltare addosso ad un topo. L'unica cosa che la
terrorizzava era il fatto che lui gliel'avrebbe rinfacciato da lì
fino alla fine dei suoi giorni.
«Ehi!
Ho un'idea!» esclamò lui, allegro. «E se aprissi
il tettuccio e provassimo a risalire le funi fino al piano?»
«Eh?»
domandò lei, sconvolta.
«Le
funi. Sei un po' distratta?»
«N-no...
per niente! Mi chiedo se tu sia stupido o... o cosa.»
«Perché?
Come nei film d'azione!»
«Tu
vedi troppi film!» replicò lei, brusca. Prima la baciava
e poi faceva finta di niente. Avrebbe dovuto essere lei quella
indifferente, e, invece, era lui che aveva aperto le danze e lui che
le aveva chiuse, come una parentesi senza importanza. Ma che poteva
aspettarsi da Rick Castle? Era di un donnaiolo che stava parlando...
e la cosa la metteva di cattivo umore.
L'ascensore
vibrò di nuovo come in risposta alle sue sensazioni. Entrambi
si appiattirono contro le pareti, mentre la lampada si riaccendeva
senza esitazione e l'ascensore riprendeva a muoversi verso il basso,
placidamente, senza scossoni o proteste o rumori strani, come se
quella parentesi e quel buio totale non fossero mai esistiti. Meglio
così, pensava Beckett, ma non riusciva a guardare in faccia
Castle, né lui riusciva a farlo con lei.
Uscirono
dall'ascensore, con un sospiro di sollievo ciascuno, e si diressero
verso la macchina di Beckett che si infilò alla guida, in
silenzio. Non c'era bisogno di parlare e nessuno dei due ne aveva
davvero voglia; quasi si fossero messi d'accordo, andarono entrambi
ad accendere l'autoradio ed entrambi desistettero, quando le loro
dita tese inavvertitamente si sfiorarono.
Castle
si girò verso il finestrino, guardando fisso il vetro su cui
scrosciava incessantemente la pioggia e impediva di vedere il
paesaggio, mentre lei teneva lo sguardo sullo strada, il poco
che poteva vedere, prima che l'acqua si abbattesse sul parabrezza.
Si
avviarono verso la casa di Joseph Kepner in religioso silenzio.
Niente battute, niente sciocchezze, niente chiacchiere. Persino
Castle sembrava considerare buona l'idea di stare in silenzio. Forse,
pensò Beckett con una punta di vergogna e rammarico, stava
semplicemente spuntando una sua lista mentale e il suo non era
imbarazzo.
La
macchina slittava in avanti, come i suoi pensieri, scivolosi come le
ruote sull'acqua alta che ricopriva la strada come se questa fosse il
letto di un fiume.
L'unica
cosa da fare, pensò, mentre trovava un parcheggio di fortuna
in seconda fila, era fare finta di niente, esattamente come aveva
fatto lui. Niente complicazioni inutili: lei non era di certo una di
quelle sciacquette che strillavano per il bacio dato alla star di
turno o che assillavano gli uomini con mille messaggi di gelosia per
sapere dov'erano. Era stato un bacio, una sciocchezza dettata dalla
paura del buio e di uno spazio angusto, tutto qui. Solo un modo per
scaricare la tensione, un bacio di addio... come l'aveva chiamato
lui.
Correndo
per mettersi al riparo sotto la tettoia al di fuori dell'edificio che
ospitava l'appartamento, si convinse che non doveva mostrarsi diversa
da ciò che era sempre stata. Non avrebbe giovato al caso e non
voleva che Castle, per quella sciocchezza, smettesse di aiutarla nel
suo lavoro: la sua presenza era diventata una costante al distretto.
Nella sua vita.
«Non
potevi cercare un posto più vicino? Guarda! Sono... sono...
pronto per essere strizzato!»
«Non
ti lamentare, Castle! È solo acqua!»
«Mi
prenderò una polmonite, lo sai questo, vero?»
«Ti
spedirò un biglietto di auguri di pronta guarigione...»
replicò lei ed entrò nell'edificio senza aspettarlo.
Forse lo faceva un po' per scappare da lui e da quello che era
successo.
Mostrò
il distintivo al portiere del turno di notte e, stavolta, per evitare
incidenti, prese le scale. Si fecero cinque piani a piedi, in cima ai
quali Castle si fermò, posò una mano sulla milza e si
piegò in avanti, ansimando. «La prossima volta, ti
aspetto giù!» dichiarò.
«Sono
solo cinque piani...»
«Ma
tu... tu non ti senti male?»
Beckett
inarcò le sopracciglia e poi sogghignò, rendendosi
conto che la cosa le venne facile, quasi naturale, proprio come prima
che succedesse l'incidente. «Non è colpa mia, se
non hai il fisico...»
«Il
fisico?» sbottò lui, rimettendosi in piedi con la stessa
velocità alla quale Beckett si era allontanata da lui in
quell'ascensore. «Detective, non mi hai visto nudo!»
Beckett
si voltò e si sbrigò ad attraversare il corridoio per
arrivare all'appartamento numero 514.
«E
non ci tengo!»
Castle
la inseguì a breve distanza, ma senza mai superarla. La
guardava da sopra la spalla, come se volesse vedere la sua
espressione, ma non avesse il coraggio di guardarla davvero. «Sei
sicura?»
«Sì.»
«Io
pensavo il contrario.»
«Mi
pare ovvio che pensavi male!»
Si
fermarono di fronte all'appartamento. Bastò tagliare il nastro
e dare un calcio alla porta, per aprirla, e ritrovarono lo stesso
scenario che li aveva accolti la prima volta, con la differenza che,
stavolta, non c'era nessun cadavere nell'ingresso. L'aria di quella
stanza disordinata, carica dell'odore della polvere, era a dir poco
spettrale e la pioggia incessante che scrosciava all'esterno non
aiutava a darle una prospettiva più rassicurante. Dietro di
lei, Castle si era acquattato così che il suo mento sfiorasse
la spalla di Beckett.
«E
se ci fossero i fantasmi?» chiese, in un sussurro appena
udibile, scoccando occhiate preoccupate da una parte all'altra della
stanza.
«Un
altro film?»
«Sì.»
«Piantala
e accendi la luce.»
Un
tuono seguì quelle parole, ma rese bene lo sconcerto di Castle
che trovò l'interruttore e constatò che la luce non se
n'era andata.
«Dev'essere
un privilegio del distretto...» disse, in tono leggero.
«Che
cosa?»
«Il
blackout... non credo che in questa zona sia successo lo stesso che
da noi.»
Beckett
non gli rispose. Non era più interessata alle sue sciocchezze
o a quello che era successo in ascensore: adesso c'erano lei e una
scena del crimine. Girò intorno alla sagoma del cadavere un
paio di volte, guardandola come se quella potesse rivelarle cosa
c'era di sbagliato nel delitto della stanza chiusa, senza arrivare a
niente, neanche stavolta. Perché il proprietario avrebbe
dovuto dare al morto la sua chiave di riserva o farsi fare una copia
da un ferramenta? Come aveva fatto a morire assassinato se era stato
tutto solo, in casa?
«Magari
è stato un fantasma.» disse Castle, come in risposta ai
suoi pensieri. «O del gas nervino, come ne La Fuga di Storm...»
Beckett
si spostò nell'altra stanza, la camera da letto. Non c'era
niente che non andasse: il letto era disfatto come l'aveva lasciato
la scientifica per i rilevamenti, nell'armadio continuavano ad
esserci vestiti sobri del padrone di casa, le scarpe non erano
sistemate con pedante pignoleria le une accanto alle altre, ma
disseminate qua e là nel caos prodotto dai poliziotti. Sotto
al letto continuava a non esserci altro che polvere, il bagno non
aveva niente che non andasse.
«Hai
mai pensato che potrebbe averlo ingerito?» domandò
Castle, entrando in camera da letto con una bottiglia di vino in
mano.
«Che
cosa? Il gas nervino?» replicò lei, girandosi per
tornare indietro.
«Ma
no! La cosa che l'ha ammazzato!»
«Veleno?»
Lui
alzò le spalle. «No. Pensaci bene... è l'unica
ipotesi che non abbiamo vagliato...»
«Allora,»
replicò lei. «ricapitoliamo: è stato ucciso da
una scheggia di vetro che gli si è conficcata nel petto. Come
può essere stato avvelenato?»
«Sì,
beh... c'è del vetro di là, per terra.»
«Sì,
lo ha rilevato la scientifica.»
«Mettiamo
che lui... sia stato... diciamo avvelenato... in qualche modo... e
che... per sbaglio, abbia fatto cadere un bicchiere. Era stordito e
non se n'è accorto. Puf, atterra addosso alle schegge.»
«Oppure
è semplicemente inciampato...» rispose lei, cominciando
a seguire il filo del suo ragionamento. Lui sorrise. Si avvicinarono
l'uno all'altra proprio come era successo al distretto, davanti alla
scrivania del capo.
«E
il pezzo di vetro, in qualche modo, gli si è conficcato in
petto.»
«Uccidendolo
all'istante!» concluse trionfante Beckett. Poi corrugò
la fronte. «Il pezzo di vetro sarebbe il killer?»
«Sì.
Era già lui il killer, prima che ci venisse in mente il
delitto della camera chiusa.» le fece notare Castle.
Beckett
era sicura di non aver capito niente. Indicò la bottiglia. «E
che c'entra il vino?»
«Non
è vino.» rispose lui, aprendo il tappo. «Volevo
ricordare l'odore del Chianti. L'ho assaggiato solo una volta, quando
sono andato in Italia e, per il mio secondo matrimonio, l'ho fatto
arrivare appositamente dalle colline omonime. Ma quella fu una
pessima annata. È per questo che non siamo mai andati molto
d'accordo, io e Gina...»
«Castle...»
Beckett lo richiamò alla realtà e lui, il cui sguardo
si era fatto vacuo nel ricordare quell'altro episodio della sua vita,
ci tornò senza fiatare. Sorrise e le indicò il letto.
«Puoi
metterti lì davanti?»
«Perché?»
«Perché...
se lo faccio senza che tu abbia qualcosa di morbido dietro, credimi,
fa male.» rispose lui, con l'aria convinta di chi sappia cosa
stia dicendo e che abbia una lunga esperienza alle spalle, in
materia. «Una volta facemmo lo stesso scherzo a quel Ronald
Parrish di cui ti parlavo prima... solo che, chissà come, fui
io a rimanerne vittima e... ho avuto un bernoccolo per lungo, lungo
tempo.»
«Di
che stai...»
«Il
letto, Beckett.»
«Dimmi
di che si tratta!»
«Ah,
con te non ci si può proprio divertire!» sbuffò
lui. Le fece un cenno e la condusse di nuovo nel salotto dove,
adesso, sul tavolino di cristallo al centro della stanza troneggiava
un bicchiere con un liquido trasparente all'interno. Di sicuro,
quando erano entrati, non c'era stato.
«Che
cos'è, vodka?»
«No...
cloroformio.»
«Cloro...»
Beckett guardò Castle che stava sorridendo. «Non lascia
traccia!» capì. «Ma cosa ci faceva il cloroformio
in una bottiglia di Chianti?»
«E
dov'è il Chianti?»
«E
come se l'è procurato il cloroformio?»
«Direi
che il caso è risolto...» dichiarò Castle, in
posa solenne, tenendo la bottiglia come se fosse in attesa
dell'arrivo della mezzanotte dell'anno nuovo e lui non aspettasse
altro che di stapparla. «l'assassino è il cloroformio.»
La
mattina dopo, esausti ma a caso risolto, Beckett e Castle erano
tornati al distretto e lei aveva convocato Joseph Kepner per un
colloquio. Il temporale era cessato e, pian piano, New York stava
tornando alla normalità; il flusso di auto aveva ripreso a
scorrere normalmente, l'acqua si stava ritirando nei tombini senza
difficoltà e tutto il distretto pullulava di vita. Castle
aveva recuperato il suo cellulare scarico e l'aveva riposto in tasca,
carezzandolo con affetto, quindi aveva raccontato a Ryan e Esposito
come era giunto alla conclusione.
«E
tutto solo perché voleva farsi un goccetto!» sospirò
Esposito, scuotendo la testa, accennando a Castle.
«Noi
non ci saremmo mai arrivati.» annuì Ryan, rammaricato.
«Noi non possiamo bere in servizio. Non vale!»
Castle
ammiccò. «E' il bello di non essere un poliziotto.»
Proprio
mentre finiva di parlare, arrivò Beckett con una carpetta tra
le mani e un'aria sfinita.
«Allora,
ha confessato?» chiese Castle.
«Il
cloroformio è arrivato con Robert Randall. È il nome
del nostro John Doe.»
Ryan
inarcò un sopracciglio. «Il nostro Kepner lo conosceva?»
«Lo
sapevo!» esclamò Castle, stringendo il pugno in segno di
vittoria.
«Sì,
pare che appartenessero alla stessa confraternita al college e si era
fatto la copia delle chiavi senza che il proprietario ne sapesse
niente. Le telecamere hanno confermato che aveva rubato la copia
dalla portineria e Kepner afferma che non si vedevano da anni e che,
all'inizio, non lo aveva riconosciuto. In effetti, ho visto una foto
dell'annuario... è difficile credere che quel Robert Randall
fosse lo stesso Robert Randall trovato morto in casa di Kepner... ma
il Dna ci dirà di più, quando arriveranno i risultati.»
fece sapere loro Beckett. «E ho fatto controllare la bottiglia:
non ci sono impronte di Kepner, ma sono tutte di Randall e di
un'altra persona... ma, se ci ho visto giusto, sono di una donna.»
Castle
sembrava scontento. «Non è possibile che Kepner gli
avesse dato il suo benestare per entrare in casa?»
«Se
l'avesse saputo, credimi, non gli avrebbe permesso di godere di
Labbra Rosse da solo. Almeno è così che si è
espresso lui.»
«Labbra
Rosse?» ripeté Esposito.
«Sì,
una prostituta che Randall aveva... ingaggiato, diciamo così.
È stato il portiere di notte a vederla entrare ed era da sola;
poco dopo è scesa di nuovo borbottando contro gli idioti:
erano le due e quaranta, circa un'ora dopo quella della morte. Ho
interrogato anche il portiere, stamattina, ed ha confermato questa
versione. Lei conferma di non aver mai visto Kepner in vita sua, ma
ha visto un uomo che la seguiva, il giorno precedente. E ho chiesto
alla scientifica un confronto: era Thomas Talbott, un investigatore
privato del Queens.»
«Un
investigatore privato?»
«L'ho
convocato per oggi pomeriggio. Ne sapremo di più quando l'avrò
interrogato, ma per quel che mi riguarda, il caso è chiuso.»
Esposito
e Ryan scossero la testa. «Ci perdiamo sempre l'azione.»
esclamò Ryan, scontento. «E' ingiusto!»
«Ma
io non ho ancora capito una cosa.» si interruppe Esposito. «Che
ci faceva il cloroformio nella bottiglia del Chianti?»
«La
gente ormai prova di tutto.» disse Beckett, in tono neutro.
Castle alzò lo sguardo su di lei, scivolando sulla schiena per
poter posare il collo sullo schienale della propria sedia accanto
alla scrivania.
«Altri
segreti della detective che vengono a galla!» esclamò,
con un sorrisetto divertito.
«Chiudi
il becco, Castle! Non sono stata io a dirlo: è stata la
prostituta, Labbra Rosse.»
«Ah...»
rispose lui, tornando a sedere composto. Si strinse nelle spalle,
deluso e amareggiato. «Però c'è ancora un'altra
cosa che non mi è chiara.»
«Avanti,
spara.» lo esortò Esposito.
«Perché
non andare in un motel come fanno in tutti i film?» alzò
di nuovo lo sguardo su Beckett. «Hai una risposta anche per
questo?»
«Randall
era un burlone. Un po' come il tuo amico Parrish.»
«Cioè...
tutto questo solo per andare con una prostituta. Sarebbe stato più
facile chiedere le chiavi a Kepner, piuttosto che rubarle...»
borbottò Castle.
«Sì,
beh... non sai mai come ragionate voi uomini con il cervello sotto la
cintura...»
Castle
abbassò la testa e tacque, pensieroso. Beckett, felice di
averlo zittito, si sedette alla sua scrivania, mentre, dopo essersi
complimentati per la risoluzione del caso, Ryan ed Esposito se ne
tornavano al loro posto.
Beckett
si piegò per accendere il computer e cominciare a redigere il
rapporto da consegnare al capo; solo quando si rialzò, si rese
conto dell'espressione imbronciata di Castle.
«Che
succede? Non dirmi che te la sei presa per quella stupida frase!»
«No,
figurati! È solo che c'è qualcosa che non mi torna.»
Beckett
corrugò la fronte.
«Se
fosse uno dei miei libri,» Castle accavallò le gambe.
«non avrebbe di certo un finale così banale.»
«Sì,
ma visto che non è un tuo libro, è plausibile.»
gli ricordò Beckett.
«Oh,
andiamo, Beckett!» esclamò lui, indignato. «Quale
persona sana di mente userebbe il cloroformio per sballarsi?»
poi, come ripensandoci, inarcò le sopracciglia. «Eccetto
il sottoscritto, ovviamente...»
«Castle...»
lo ammonì lei.
«Insomma,
è risaputo che il cloroformio è cancerogeno e che può
portare danni a reni e fegato.»
«E
da quando sei così esperto?»
«Da
quando Ronald Parrish mi ha quasi ammazzato con lo scherzo di cui tu
già sai.»
«Okay,
scusa, vai avanti.»
«La
domanda è: perché volersi sballare col cloroformio?»
«Perché
anche tu lo faresti!»
«Lascia
perdere me!»
Beckett
lo fissò con interesse. «Tu... pensi che lui non sapesse
del Chianti nella bottiglia?»
Lui
annuì, con un sorriso.
«Quindi,
qualcuno doveva per forza averlo messo lì dentro!»
continuò Beckett, improvvisamente elettrizzata. Sì,
c'era qualcosa di logico in quel pensiero, qualcosa che quadrava.
«Qualcuno che sapeva che lui avrebbe preso la bottiglia e che
l'avrebbe usata per divertirsi.»
«Qualcuno
che sapeva dove stava andando.» puntualizzò Castle.
«Qualcuno
che aveva fatto pedinare una prostituta da un investigatore privato
imbranato.»
Poi,
come in un fulmine, gridarono, trionfanti, all'unisono: «Sua
moglie!»
Ormai
verso sera, Beckett si accasciò sulla propria sedia, decisa a
finire il rapporto per il capo che, erroneamente, aveva pensato di
poter consegnare nelle mattinate. Avevano passato le ultime ore in
sala interrogatori, dove la moglie di Randall aveva confessato di
aver sostituito il cloroformio al Chianti, ma che le sue vere
intenzioni fossero state quelle di tramortire lui e la sua amante per
coglierli sul fatto, così che potesse chiedere il divorzio e
vivere felice e contenta dei grossi alimenti che avrebbe chiesto come
risarcimento. Invece avrebbe passato molto tempo in galera. Era stata
lei ad ingaggiare l'investigatore privato il cui vero bersaglio non
era Labbra Rosse, ma Randall, naturalmente: Talbott avrebbe dovuto
aiutare la signora ad ottenere il divorzio, ma non c'entrava niente
con la storia del cloroformio. L'unica cosa di cui lo potevano
accusare era di essere un pessimo mastino.
«Davvero
un caso degno di questo nome.» Castle, sistemandosi sulla sedia
accanto alla scrivania, sospirò stancamente, come se, per
tutto il giorno, non avesse fatto altro che scaricare navi al porto.
«E anche Joseph Kepner ha il suo scheletro nell'armadio... non
poteva andare meglio.»
Beckett
alzò di nuovo lo sguardo. «E sarebbe?»
«Gli
piacciono le prostitute.» rispose lui, pronto e soddisfatto.
«Non
è mai andato con le prostitute, a quel che ne sappiamo,
Castle.»
«Sì,
ma ha detto che si sarebbe fatto quella di Randall. E poi te l'ha
detto come se niente fosse: è un porco.»
Stavolta
lei dovette dirsi d'accordo, ricordando il momento in cui le aveva
confessato che avrebbe volentieri fatto un giro con quella donna di
cui lei aveva avuto solo la foto.
«Tutti
hanno i loro scheletri.» commentò Castle, imperterrito.
«Non è irritante?»
Beckett
corrugò la fronte, fingendosi preoccupata. «Non è
il caso che tu torni a casa? Credo che Alexis sia in pensiero, no?»
«Ah,
ho chiesto il permesso prima che mi si scaricasse il cellulare.»
poi fece una smorfia sofferente, mentre riprendeva il cellulare tra
le mani. «Spero che abbia registrato i fulmini di ieri sera!»
Beckett
arricciò le labbra, stavolta, ma era divertita.
«Allora
buona serata, detective.»
«Buona
serata, Castle.»
Castle
si alzò dalla sua sedia accanto alla scrivania di Beckett e si
stiracchiò, come per indugiare ancora un po' lì al
distretto, quasi si stesse godendo i suoi ultimi istanti lì.
Alla fine, era meglio così: Beckett credeva che, ad un giorno
di distanza, quello che era successo in ascensore, non fosse così
terribile come le era parso la sera prima, in mezzo a quella pioggia
e a quel buio impenetrabile. L'importante era che non ricapitasse e
che non se ne parlasse più. Potevano continuare a lavorare
bene insieme e ad avere quello strano rapporto che, altrimenti, le
sarebbe mancato.
«Comunque...»
Castle la distolse dai suoi pensieri parlando e abbassando le
braccia. Le puntò un dito addosso, con un sorriso sornione che
non diceva niente di buono. Sembrava assaporare quel momento, per
qualche motivo che lei non poteva capire.
«Sì?»
lo spronò, anche se non era sicura di voler sentire quello che
aveva da dire.
Il
sorriso sul volto di Castle si allargò. Ammiccò. «E'
stato un bel bacio.» e detto ciò se ne andò,
impedendole di replicare. Con la bocca aperta per l'incredulità,
Beckett lo seguì con lo sguardo finché non fu sparito
nell'ascensore e poi, solo poi, si concesse un breve sorriso.
FINE
E, ora, come promesso, le... risposte alle recensioni!
Blah:
come ho già detto, quando ho cominciato a scrivere non sapevo
bene dove sarei andata a parare, però... il bacio ci voleva!
XD Perché penso che, alla fine, si comporterebbero proprio
così: prima scintille, poi un po' di freddezza e imbarazzo e
poi... niente. Come fanno sempre in queste serie dove i protagonisti
si girano attorno. Stai già guardando la terza stagione? Mi
sembra che qui lo stiate facendo tutti e io rimango indietro! È
proprio una fissazione mia quella di guardare la versione doppiata,
per una questione di voci. Trovo che alcuni doppiatori siano persino
più bravi degli attori, a parlare. XD Grazie infinite per la
tua recensione!
23jo:
grazie per i tuoi complimenti. ^^ Riuscire a far piacere una mia
storia – anche a pochissimi – è, per me, un
piccolo traguardo raggiunto! Grazie ancora e a presto!
LazioNelCuore 1711: felice che ti sia piaciuta e
che tu abbia lasciato un commentino. ^^ Alla prossima!
Berenike:
ehilà! Mi stavo quasi preoccupando! XD Scherzo, naturalmente.
Come periodo è un po' incasinato davvero, anche se spero che,
presto o tardi, si decidano a ricominciare le lezioni. Agitazioni in
corso! XD Sono contenta, se il capitolo non è stato noioso e
che sia completo: ho sempre il terrore di non aver scritto tutto o di
aver dimenticato qualcosa, anche un particolare insignificante di
cui, durante la stesura, mi dimentico (ho una memoria!). Va beh, a
presto e grazie per la recensione!
KittyFarron_95: in effetti, gli autori non hanno capito che i fan vogliono vedere un bacio! Neanche chissà quali scene hot, un bacetto, che male ci sarà mai? Ci fanno sperare fino all'ultimo e invece rimaniamo sempre con un palmo di naso. U.U Che altro dire? Grazie per la tua recensione e per i tuoi complimenti (quelli fanno sempre piacere XD )! ^^
Ringraziamenti vari:
a Blah, 23jo e bambola_e_bibola per aver inserito la storia tra le loro
preferite
a tykisgirl per averla inserita tra sue ricordate
a LazioNelCuore 1711 per averla inserita tra le sue
seguite.
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