«Mh…»
mi lamentai lievemente, tirandomi a sedere sul
divano. L’intera stanza era avvolta nella penombra. Sentivo
il corpo pesante e pervaso
dal torpore che segue a un sonno poco comodo. «Mi sono
addormentata?». La
domanda mi uscì con un tono impastato, diretta al vuoto
dinanzi a me.
Sentii subito dopo l’eco
di alcuni passi sul
pavimento, e le finestre furono subito aperte. «Avresti
potuto dormire ancora».
La voce di Edward, il viso lievemente accigliato.
Sospirai, raddrizzando le gambe e
poggiandomi contro
lo schienale del divano. Magari sì, avrei potuto dormire
ancora. Non dicevo di
non essere completamente esausta. Ma in quel momento la mia mente aveva
qualcosa di meglio a cui pensare.
Non appena Edward mi raggiunse,
sedendosi al mio
fianco, intrecciai le dita con le sue in un gesto di automatica ricerca
di
forza e conforto. Era così. Sentirlo accanto, fisicamente e
non, era la
necessità della mia vita.
«Andrà tutto
bene, vero?» chiesi insicura.
Annuì, silenzioso,
scendendo con le labbra fredde a
lambirmi una guancia, lasciando sulla mia pelle l’impronta
perfetta.
Eravamo entrambi preoccupati, ed
entrambi sapevamo
quanto inevitabile fosse quello che stava per accadere. Non potevamo
continuare
più a lungo in queste condizioni.
«Katie?»
chiesi, senza riuscire a nascondere il
tremore nella voce.
Edward mi accarezzò i
capelli. «Era con i nonni.
Stanno per arrivare», si voltò a guardarmi con un
sorriso appena accennato,
rigirandosi una mia ciocca sul dito. L’aria era densa
d’attesa. «Vuoi mangiare
qualcosa?».
Scossi il capo, sollevandomi
goffamente dal mio posto.
«Credo di avere lo stomaco chiuso».
Non feci a tempo a finire la frase
che la porta di
casa si aprì, sbattendo, rompendo l’attesa e
inviandomi immediatamente una
scarica lungo la spina dorsale. «Mammi!»
gridò, sgambettando, la mia piccola
bambina.
«Tesoro» la
chiamai con un sorriso. Ogni volta, ogni
volta che la vedevo mi rendevo conto della meraviglia che avevamo
creato. Era
un vero amore. Dolce, così riflessiva. Così
intelligente…
Corse verso di me e si
fermò, appena un passo prima. I
suoi vispi occhi verdi cercarono immediatamente il padre, come se si
aspettasse
un rimprovero, come se fosse perfettamente cosciente che quella che
stava per
fare era una marachella.
«Kate, non saltare in
braccio alla mamma» la riprese
bonariamente, come c’era da aspettarsi.
Ridacchiai, cercando di mascherare
tutto il mio
nervosismo, accovacciandomi goffamente a terra nonostante il grosso
pancione.
«Vieni qui tesoro» dissi, aprendo le braccia e
stringendomela al petto. I suoi
capelli si erano man mano scuriti, fino a diventare dello stesso color
mogano
dei miei. Mori, morbidi, profumati.
Si strinse a me, strofinando la
guancia soffice e rosa
contro la mia. Aveva appena un anno e mezzo, capacità
intellettive decisamente
più sviluppate, e si dimostrava appena più minuta
per la sua età.
Fortunatamente, la crescita sarebbe rallentata sempre più
nel corso degli anni,
senza far apparire troppo forte il contrasto fra
l’età del suo corpo e quella
della sua mente.
Edward la sollevò dalle
mie braccia, facendole fare
una mezza giravolta, e riempiendo la stanza del suono della sua risata
fanciullesca. «Ti sei divertita con i nonni?»
chiese, baciandole la fronte.
«Ti, papà!
Ancola, ancola!» chiese, saltellando
impaziente fra le sue braccia.
Edward spalancò la bocca
con fare teatrale. «Ancora?
Sei sicura?». E contemporaneamente la fece volteggiare
ancora, lanciandola in
aria e facendola ridere.
Sospirai, con un sorriso. Mi tirai
a sedere per
sistemarmi sul divano, un nugolo in petto. Era sempre stata una bambina
allegra
e serena, fin da quando era nata. Vederla così, ancora,
ancora oggi, mi
rincuorava e mi destabilizzava enormemente.
E non riuscivo a non pensare,
mentre il cuore mi
batteva sordo nel petto, che quello che stavamo per fare era un grosso
errore,
la scelta più sbagliata per la nostra bambina.
«Bella» mi
salutò Esme, entrando in casa affiancata da
Carlisle. Feci per alzarmi, ma immediatamente mi raggiunse, posandomi
una mano
sulla spalla. «Stai seduta, cara» mi
ammonì, baciandomi una guancia.
Edward si lasciò cadere,
fintamente esausto, sul
divano accanto a me. «Basta… Papà
è stanchissimo…». Trascinò
la bambina fra le
sue braccia, prima di lasciarla andare fra me e lui. La
verità era che non si
sarebbe mai stancato di giocare con lei. Ogni volta che la guardava
leggevo una
tale devozione nei suoi occhi… pari solo a quella che, mi
rendevo conto, aveva
quando guardava me.
«Dai papà,
ancola, ancola!» protestò. Poi volse lo
sguardo verso di me, e la bocca si aprì in un sorriso pieno
di minuscoli
dentini. «Atellino! Papà! Atellino!».
Edward ridacchiò,
accarezzandole una guancia. «E come
vuoi giocare col fratellino? É ancora troppo piccolo. Quando
nascerà potrai
giocarci» disse, con uno sguardo affettuoso. Mi sorrise, un
sorriso pieno
d’amore e devozione, d’affetto per me, per sua
figlia, per quel piccolo che
stava per venire. Per tutta la famiglia. Posò la mano alla
base del pancione,
facendomi rabbrividire.
La bambina seguì il
movimento e puntò i suoi grandi
occhioni verdi nei miei. Le sopracciglia si piegarono leggermente, e le
guanciotte si gonfiarono, dandole una buffa aria pensierosa.
«Mammi… bascio».
Prima che potessi accontentarla le
mani di Edward la
tirarono indietro, facendola voltare verso di lui. «Come ho
detto che si dice? Bacio.
Ba-cio» fece, scandendo con le labbra le parole.
Sollevai gli occhi al cielo. Edward
aveva la fissa di
insegnarle a pronunciare correttamente le parole che usava
più spesso. Ma per
quanto fosse strano da dire, non mi piaceva l’idea che mia
figlia imparasse a
parlare così bene. Insomma… era già
strano che parlasse, che lo facesse così
tanto e così scioltamente. Non mi piaceva insegnarle
qualcosa e poi chiederle
di non farla. E poi, imparava sempre così presto…
«Scio. Scio.
Papà, no!» strinse le piccole
labbra in un buffissimo sforzo, mentre sbatteva i piccoli pugnetti sul
suo
vestitino. «Bacio». I suoi occhioni si allargarono,
liquidi, soddisfatti,
appagati. Felici, come solo un bambino può esserlo.
«Cio!» esclamò
contenta,
ridendo a battendo le mani.
Edward, contento, orgoglioso, la
prese fra le braccia
e cominciò a tempestarle il viso di baci, appagando
l’ilarità di Kate.
Sentii l’esigenza di
distogliere lo sguardo da mia
figlia e mio marito, per evitare che il fastidio pungente agli occhi si
trasformasse in lacrime. «É stata
brava?» chiesi, quasi sottovoce, accarezzandole
distrattamente i capelli.
«Certo Bella. Tua figlia
è sempre un amore» rispose
con piacere Esme, seduta sul divano davanti al nostro, accanto a
Carlisle.
Non potevo essere propriamente
d’accordo con la sua
affermazione. Mia figlia aveva… molta voglia di vivere, e
molta curiosità.
Appena nata mi aveva tenuta sveglia per più di una notte.
Avere un marito
vampiro senza bisogno di dormire era stata una benedizione, ma
all’ora della
pappa nessuno poteva convincere mia figlia a preferire un biberon al
mio seno.
Ed ero lusingata, in un certo
senso, di questo suo
attaccamento a me. Mi mancava il contatto speciale che avevamo avuto
quando era
nella mia pancia, tutta quell’armonia, quello scambio
costante di emozioni. E
sapere di non aver perso completamente quel nostro legame non poteva
che farmi
felice.
Carlisle sorrise, stringendo la
mano sul ginocchio di
sua moglie. «É stata a casa per
un’oretta, e ha fatto la merenda. Volevi che si
distraesse un po’, così…»
fece, con un sorriso appena accennato.
«Non dirmelo»
esalai, un misto di bonaria
esasperazione.
Kate scivolò sulle
gambine, giù dal divano, correndo
verso Carlisle. «Nonno ha portato Kate al lavolo!»
gridò entusiasta, afferrando
la sua mano e saltellando. «Lavolo! Lavolo!».
Mia figlia… che adorava
andare a lavoro in ospedale
con Carlisle. Questa sì che era una cosa che di certo non
poteva aver ereditato
da me.
Sulla mia fronte comparve una ruga
d’apprensione. «Non
hai parlato Katie, vero? Ricordi quello che ti hanno detto mamma e
papà?».
Inclinò lievemente la
testa per guardarmi di
sottecchi, portandosi un dito sulle labbra umide. «No,
mammi» dichiarò sincera.
Carlisle sorrise, accarezzandole i
capelli. «É stata
brava. Si è limitata ai monosillabi e a
“nonno”». Esme la prese fra le braccia
e se la tirò a sé, parlandole intensamente.
«É una bambina intelligente, Bella»
continuò rivolto a me, e sapevo che le sue parole non si
riferivano solo a
quanto gli avevo chiesto. «Lei capisce, capisce
tutto» disse eloquentemente. Poi
sospirò, «si è comportata molto bene,
è un piacere per noi tenerla, lo sai».
Annuii, e ringraziai. Se non fosse
stato per l’aiuto
su cui sapevo di poter contare, su tutta la famiglia di Edward, non mi
sarei mai
lasciata convincere ad avere un altro figlio, non così
presto.
Accarezzai il grosso pancione con
una mano, l’altra
stretta costantemente a quella di mio marito.
«Emmett dice che ci
aspettano per le sei di stasera.
Al crepuscolo» ci informò Carlisle, acquisendo un
tono estremamente serio.
Rabbrividii, e mi lasciai andare
con la testa
nell’incavo del collo di Edward.
«Andrà tutto
bene» mi rassicurò, accarezzandomi
dolcemente il fianco. Le dita scorrevano sul vestito leggero, senza
quasi
toccarmi. Sentivo la rigidità del suo corpo e il suo
nervosismo, specchio del
mio.
«Mammi, mammi!»
gridò Katie, distogliendomi
improvvisamente dai miei pensieri. Mi liberai da Edward per prestare
attenzione
a mia figlia, che sgambettava verso di me col suo zainetto rosa - dono
di zia
Alice. «Mammi! Uarda cosa mi hanno legalato nonno e
nonna!» disse contenta.
Mi ripresi in fretta, scacciando
ogni traccia d’ansia
dal mio viso. «Oh, nonno e nonna ti viziano
incredibilmente» dissi, scuotendo
il capo con un’occhiata affettuosa. «Fammi vedere
tesoro».
Posò lo zainetto a
terra, attenta a non sbilanciarsi,
e subito dopo si lasciò cautamente cadere a terra col
sedere. Sbirciò nello
zainetto e vi infilò una manina, tirando fuori
l’oggetto che stava cercando. «Uarda,
mammi!» disse, mostrandomi quello che aveva tutta
l’aria di essere un camice in
miniatura… rosa. «Uesto me l’ha regalato
nonna» fece seriamente, posandolo con
precisione accanto a sé, sul pavimento. Il sorriso si
allargò, birichino,
quando dallo zainetto afferrò l’altro oggetto.
Mi portai le mani alla bocca,
guardandola con tutta la
sorpresa che si aspettava di ricevere.
«Setoscopo!»
disse, dimenando la mano con l’oggetto in
questione. «E uarda mammi, è osa, osa!».
Scossi il capo, lanciando
un’occhiata a mio suocero.
Volevo che mia figlia capisse il valore delle cose che aveva in mano.
Una cosa
erano oggetti con cui giocare, un’altra era prendere uno
strumento medico e
consegnarlo in mano a una creatura che non volevo rinunciare a chiamare
piccola
bambina.
«Katherine, non lo
rompere. Uno stetoscopio non è una
cosa con cui giocare. Anche se è rosa…»
dissi, alzando gli occhi al cielo.
Smise di agitarlo e dimenarsi, e
fece peso su una mano
per alzarsi. Camminò con un visino serio, tendendo
l’oggetto verso di me, fino
a posarlo sul pancione. «No, mammi. Uesto è per
sentile atellino. Katie no
rompe». Alzò lo sguardo, e mi fissò
intensamente e seriamente. Mi guardò, e i
suoi occhi verdi incontrarono i miei, ripristinando ancora una volta
quel
legame che da sempre ci aveva unite.
Mi lasciai sfuggire un sorriso
appena accennato, quasi
un rantolo. Per poco non mi scivolò una lacrima dagli occhi.
«Va bene»
mormorai, accarezzandole la testa, «non lo rompere
tesoro».
Scosse il capo, facendo ricadere
qua e là le ciocche
scomposte. Tese le braccia e provò a circondare il pancione
in un abbraccio.
«Basc…» strinse gli occhi, sforzandosi
«Bacio» sussurrò soddisfatta, posando le
labbra sulla pancia.
Ero un misto di tenerezza, ansia,
paura, senso di
colpa. Sospirai, tremante. Mi asciugai velocemente le guance, provando
a
chinarmi per baciarle il capo.
Esme saettò da una parte
all’altra della cucina,
facendo scomparire i nostri piatti vuoti. «Non ti preoccupare
tesoro, ci penso
io a sparecchiare».
Sospirai, accarezzandomi il ventre
pieno. Kate era
intenta a mangiare la sua pappa, serena rispetto a quello che di
lì a poco sarebbe
successo.
Mi chiedevo, con una fitta nel
petto, se quella
serenità derivasse dall’innocenza dei suoi anni o
semplicemente dalla sua
indole. Non capivo. E il suo atteggiamento non faceva che allarmarmi
ancor di
più.
Trasalii quando sentii il tocco di
una mano fredda
sulla spalla. Carlisle si chinò, fissandomi attentamente.
«Vieni di là in
camera? Ieri avevi il controllo, anche se è
saltato» mi spiegò con un sorriso
gentile «Edward ha detto che hai avuto delle
contrazioni».
Annuii, lasciando che mi aiutasse a
sollevarmi dalla
sedia.
Quando fummo in camera Edward
chiuse velocemente la
porta, e corse da me per guidarmi sul copriletto. Sapevamo entrambi
della
nostra ansia, e entrambi stavamo cercando di distrarci.
«Credo che questo
piccolo nascerà prima, rispetto a Katie»
buttò lì con leggerezza, la voce
tenue. Accarezzò il pancione.
Carlisle posò le mani
sul mio ventre scoperto,
misurandone le dimensioni. «In effetti il piccolo Mark
è più grosso rispetto a
Kate. Penso e spero che fra qualche giorno ti aspetterà la
sala parto».
Mi lasciai andare sul cuscino,
chiudendo gli occhi.
«Sembra strano da dire, ma per adesso è
l’ultimo dei miei pensieri» confessai
nervosamente.
Edward mi accarezzò i
capelli. «Andrà tutto bene…
vedrai. Nostra figlia è davvero forte, e credo che ce lo
dimostri giorno dopo
giorno. Affronterà anche questo, e sarà per
sempre al sicuro».
Lui aveva un forte legame con la
piccola. Non sempre,
ma quando era più vulnerabile poteva sentirne i pensieri.
Dovevo affidarmi a
lui, quando mi diceva quanto fosse forte nostra figlia, per non dare di
matto
per quello che stava per accadere.
Jared, Sam e Paul erano ancora
sotto l’“incantesimo”
di Jacob, sotto il suo ordine di uccidere me e Edward.
L’unico modo per rompere
quel laccio invisibile che li soggiogava, era far revocare
l’ordine dall’unica
persona che fosse in grado di farlo. L’unica che lo tenesse
ancora in vita.
Mia figlia.
Dopo la sua nascita ero stata una
madre angosciata e
attenta, pronta a cogliere ogni segnale che quello che aveva vissuto
quando era
solo nella mia pancia venisse a galla. Ma in nessun modo, niente, era
stato
manifestato.
«É
così piccola, Edward. Chi ti dice che tutto questo
non la farà tornare indietro a tutto quello che è
successo? Che non la farà
stare male? Sembra così spensierata
adesso…» mormorai ansiosa, portandomi una
mano sugli occhi.
Mi accarezzò il volto,
prendendolo fra le mani e
costringendomi ad aprirli. «Ti posso assicurare che lei sa,
in fondo al suo
cuore ricorda. Ieri, quando le abbiamo spiegato quello che avrebbe
dovuto fare,
ho sentito qualcosa dentro di lei. Andrà bene»
sussurrò persuasivo, verso me e
lui stesso.
«Emmett, Rose e Jasper
sono a La Push. É tutto pronto, l’incontro
avverrà nella massima sicurezza» intervenne
Carlisle.
Alternativamente i vampiri si erano
dati da fare per
mantenere sottocontrollo la situazione. Ma tenere bloccati tre
licantropi non
era facile, anzi, stava diventando un’impresa via via
più complicata.
Perché semplicemente non
avevano potuto comprendere,
trovare un escamotage come tutti gli altri? Non sempre,
mi aveva
spiegato Seth, le leggi delle tribù erano radicate
allo stesso modo in un
individuo.
«Mammi» mi
chiamò debolmente Kate, sbirciando nella
stanza. Esme le aveva fatto indossare il suo camice, e dalla tasca
destra
sbucava lo stetoscopio.
«Vieni qui»
mormorai in un sospiro, lasciando che
sgambettasse fino a me. Edward la aiutò ad issarsi sul
materasso. Volevo
tenerla vicina, e stare attenta a captare ogni minimo segnale
d’ansia. Se solo
mi fossi accorta del suo pur minimo turbamento avrei fermato ogni cosa.
«Atellino».
Kate indicò la mia pancia e tirò fuori lo
stetoscopio dalla tasca.
Carlisle ci lasciò soli,
e Edward aiutò la piccola a
cercare il punto in cui avrebbe potuto sentire il cuore del fratello.
Cercai di
rilassarmi, mentre osservavo quella piccola grande personcina,
così serena,
dimostrare e regalare tanto affetto e amore con dei gesti
così semplici.
Sentivo un brivido partire dal
punto in cui Edward e
Kate tenevano la mano sul pancione, così vicini a me e a
quel bambino non
ancora venuto al mondo, ma a cui già volevano bene.
«Come fa il cuore di
Mark?» chiese affettuosamente Edward,
accarezzandole i capelli.
«Mak!». La
piccola strofinò la mano sul mio ventre
pieno, poi sollevò lo sguardo su di noi. «Tum
tum tum tum» mimò, facendo
muovere le labbra umide.
I suoi occhi risplendettero in
quelli della figlia,
verde nel verde. «Si tesoro, fa proprio
così» disse soddisfatto, guardandola
con orgoglio.
Non potei fare a meno di sorridere.
«Papà»
fece, sollevando lo sguardo su di lui.
«Dimmi».
I suoi occhi ardevano di
curiosità. Si posò una manina
sul petto. «Mammi fa tum tum. Io faccio tum
tum. Perché tu no tum
tum? E nonno? E zii?».
Mi mancò un respiro,
presa in contropiede da quella
domanda. Non era la prima volta che si rendeva conto delle differenze
che
c’erano fra di noi, e ogni volta, pazientemente, Edward e io
le rivelavamo una
parte della verità.
Così fece quella volta.
Sospirò, le prese fra le
braccia, la mise fra noi. Cominciò a spiegarle la
differenza. Tuttavia, la
piega che stava prendendo il suo discorso era fin troppo scientifica, e
man
mano notai quanto mio marito fosse turbato e stranamente a corto di
parole.
Presi la mano di Kate, facendola
accoccolare sul mio
petto. Le accarezzai una guancia. «Tesoro, il nostro cuore fa
tum tum,
ed è un suono bellissimo. É bello
perché significa “vita”. Ma ti ricordi
quanto
ti dissi com’è bello essere unici e speciali, che
ognuno di noi lo è?».
La piccola annuì,
guardandomi attentamente.
Intrecciai le dita con quelle di
Edward, racchiudendo
Kate nel nostro abbraccio. «Papà è
speciale. Il suo cuore è un grande
cristallo, luminoso e bellissimo, e brilla, incastonato nel suo
petto» spiegai
con un sorriso.
Strinse le labbra - un movimento
ereditato dal padre -
e spostò lo sguardo sul mio polso. «Come
blaccialetto?».
Sorrisi sinceramente, baciandole la
fronte. «Si
tesoro, come il cuore del mio braccialetto». La strinsi a me,
abbracciandola.
Gli occhi di Edward, brillanti, si specchiarono nei miei, pieni
d’amore e
gratitudine.
«Ti amo»
sussurrò, muovendo le punte delle dita sui
miei capelli.
Socchiusi gli occhi e sospirai,
sulla testa di nostra
figlia. «Ti amo anch’io».
«Vieni tesoro, infila il
braccio» mormorai,
sistemandole addosso il cappotto. Una parte della mia coscienza rideva
di me.
La stavo proteggendo dal freddo dell’inverno, dalle
intemperie. I suoi occhi,
pieni di fiducia, il suo corpo e la sua mente affidati a me.
Perché si fidava,
perché mi avrebbe dato la sua piccola vita.
E io. Io la stavo per portare
davanti a quelli che
erano stati i suoi incubi peggiori.
Sentii la porta della cameretta
aprirsi, e quando mi
voltai il viso di mio marito si rabbuiò immediatamente. In
un attimo era ad un
centimetro da me. Baciò le guance, appena sotto le palpebre,
catturando con le
labbra le mie lacrime salate.
Mi strinse la testa sulla sua
spalla, fissando la
piccola Kate. «Sei bellissima» le disse, con un
tono apparentemente tranquillo.
Le sue parole vibrarono nel suo torace fino al mio.
Lacrime silenziose non avevano
smesso di scendere
sulle mie guance. Ero riluttante. Riluttante e turbata di fronte
all’inevitabile.
«Ricordi cosa devi fare
amore mio?» le chiese
attentamente.
«Si
papà» scandì attentamente.
«Me lo vuoi
dire?».
Mi liberai dalla presa di mio
marito, facendo un passo
lontano da loro. “Pensa attentamente che sono
liberi. Pensa che ogni ordine
è sciolto. Pensa anche solo a quanto vuoi bene a mamma e
papà, e a quanto vuoi
tenerli con te”. Già ieri le avevamo
spiegato tutto. Già ieri aveva
annuito, ci aveva guardato negli occhi, fiduciosa, pronta a fare
qualsiasi cosa
per noi.
Presi un respiro, posando un
braccio fra il seno e il
pancione. Con la punta delle dita mi asciugai le ultime lacrime, e mi
voltai
verso Kate con un sorriso forzato.
Edward la stava accarezzando.
«Hai paura tesoro? Vuoi
farlo?» le chiese piano, dandole possibilità di
rispondere. Ma era così
piccola. Cosa poteva aspettarsi, se non fare tutto quello che le
chiedevamo?!
Ma lei annuì,
un’espressione estremamente seria sul
volto. «Katie no paura».
“Un
uomo cattivo, consumato dall’odio e dalla
gelosia, voleva farci del male. A me, alla mamma, a tutti noi. Ma tu,
tesoro,
con l’amore che provavi per noi, l’hai mandato via.
E adesso è scomparso, non
c’è più piccola. Ma
c’è ancora qualcosa in sospeso. Devi pensare a
quanto vuoi
bene alla mamma e a papà, e andrà via per sempre”.
Le parole del giorno
precedente risuonavano ancora nella mia mente.
Mi avvicinai di un passo,
prendendola fra le braccia e
lasciando che Edward mi avvolgesse da dietro.
Mentre la mia Mercedes scura
scivolava sull’asfalto,
noi eravamo ancora rinchiusi nella nostra bolla. Carlisle e Esme sui
sedili
anteriori. Io, Edward e Katie, stretti in abbraccio.
E in quel momento pensavo a quanto
fosse stata bella
la nostra vita in quell’anno e mezzo, non potendo fare a meno
di distrarmi con
quei pensieri. Ogni giorno era stato una gioia, una scoperta. Anche
quando ero
stremata, anche quando avevo dovuto sgridarla, anche quando non tutto
era
andato bene, conservavo un ricordo estremamente positivo del tempo
passato.
Vedevo luce, luce e amore nella mia vita. Vedevo gli abbracci, i baci
di mio
marito e di mia figlia. Vedevo le loro e le mie risate spensierate. Le
prime
parole, i primi passi, i giochi. Il tempo passato ad osservarla anche
solo
dormire, troppo bella, troppo un miracolo per non poter godere il
magnifico
spettacolo del suo innocente sonno.
E se da un lato avevo paura per
quello che stavo per
fare, paura di compromettere la felicità di mia figlia, il
lato più impavido di
me bramava nuovi momenti come quelli vissuti, pieni fino in fondo di
felicità e
serenità, per l’eternità.
Un futuro per me, Edward, Kate, il
piccolo che doveva
ancora venire e ognuno che sarebbe venuto.
Kate ci osservava, stretta fra me e
Edward,
silenziosa. I suoi occhi erano grandi e liquidi. La pelle chiara per il
freddo
faceva risaltare il contrasto con le labbra carnose, rosse e umide. Era
così
bella. Somigliava così tanto a Edward, se non fosse stato
per il taglio degli
occhi e i capelli…
Edward scivolò fuori
dall’auto. Prese Kate da sotto le
braccia, stringendole il cappotto al corpo in modo che non sentisse
freddo. Mi
trascinai fuori, barcollando, e raddrizzandomi sui piedi aiutata dal
supporto
della mano di mio marito.
Il vento soffiò, al
limitare fra i nostri e i loro
territori. In lontananza, fra gli alberi, il crepuscolo ci
accompagnava.
Rabbrividii, ma non per il freddo. Troppo questi alti alberi mi
ricordavano
scenari terribilmente familiari.
Il giorno in cui incontrai Edward,
mai avrei previsto
che la mia vita prendesse questa inaspettata piega. Eppure, non potevo
fare a
meno di pensare che mi avrebbe regalato tanto male quanto puro e
sincero amore.
E l’amore è sempre qualcosa per cui vale la pena
soffrire e lottare.
Sapevo che dovevo fare questo.
Sapevo che non era
giusto tenere Sam, Jared e Paul imprigionati. Sapevo che non avremmo
potuto
vivere tutta la vita come profughi, rischiando per noi e i nostri
figli.
Speravo solo ci fosse
un’altra soluzione.
Mossi i miei passi, stretta a
Edward e a Kate. Una
fila schierata di licantropi, di cui solo tre si dimenavano, rabbiosi.
Una fila
di vampiri.
Ogni passo risuonava nella mia
mente. Ogni passo ero
più incerta e insicura di quello precedente. Ogni passo, la
presa sul corpo di
mia figlia, fra le braccia di mio marito, si rafforzava.
Guardava attentamente, con un
espressione neutra, i
licantropi davanti a noi.
Un rantolo mi sfuggì di
bocca. La piccola si voltò
verso di me, scrutandomi.
«Vieni qui»
mormorai, tendendo le braccia. Katie si
sporse verso di me, e Edward la trattenne abbastanza per riservarmi
un’occhiata. «Ho bisogno di averla con
me» mimai con le labbra, sollevandola
dalle sue braccia per stringermela la petto.
Mio marito rafforzò la
presa sulle mie spalle,
guidandomi, ancora, avanti. Il lupi ringhiavano, così vicini
a noi, trattenuti
dalla forza degli altri lupi.
Il vento soffiò.
Feci un passo, incerta. Al seguente
mi bloccai, tremante,
facendo voltare Edward nella mia direzione.
«Bella-»
protestò debolmente.
Sentii tirarmi una ciocca di
capelli, e allentai la
presa sul corpo di mia figlia. Mi posò una mano sul petto,
guardandomi negli
occhi, confusa. «Mamma, erché hai
paura?».
La fissai negli occhi, scrutandola.
I suoi splendevano
d’affetto e amore.
«Katie vi uole
bene» disse, facendo stringere il mio
cuore nel petto.
Le sorrisi, stringendomela al seno,
senza parole e
senza fiato. Edward la sollevò dalle mie braccia, baciandole
la fronte e
tirandomi con lei.
Feci ancora un passo, e la bambina
strinse i pugni sul
giaccone di Edward e il mio, chiudendo forte gli occhi.
Pochi istanti più tardi,
ad uno ad uno, i licantropi
smisero di dimenarsi. Per ultimo Sam, si lasciò andare sul
terreno, innocuo.
E mentre il suono del vento e del
battito del mio
cuore riempiva le mie orecchie, mia figlia aprì gli occhi,
sorridendomi serena.
Era, davvero, tutto finito.
«Andrà tutto
bene, vero?» chiesi. E alla stessa
domanda, il tremolio che solo poche ore fa l’aveva distorta
era scomparso.
Edward fece passare le braccia da
dietro la mia
schiena, avvolgendomi in un abbraccio. Posò il mento sulla
mia spalla,
dondolando piano avanti e indietro. «É
già andato tutto bene».
Sentivo, vicino
all’orecchio, l’odore dolce del suo
respiro fresco. Le sue labbra, ci avrei giurato, piegate in un sorriso.
Mi accarezzò il grembo,
con lenti movimenti circolari.
«Non vedo l’ora di conoscerlo».
Le mie labbra si piegarono in una
smorfia. «Io un po’
meno, permettimelo» scherzai debolmente, sollevando un
braccio per
accarezzargli i capelli. «Spero che sia un piccolo Edward in
miniatura, proprio
come te. Però… può aspettare ancora un
paio di giorni» mormorai ironicamente.
«Ma guarda»
sussurrò, indicando il lettino con le
sbarre in legno.
Dentro, nostra figlia, in uno dei
suoi sonni più
beati. Me e Edward, lì, intrecciati nei suoi lineamenti. Gli
occhi socchiusi,
le palpebre tremolanti. Le labbra, piccole, carnose, bagnate, aperte e
dischiuse ad ogni respiro che le gonfiava il piccolo petto. Il suo
profumo,
profumo di buono, di pulito, profumo di bambino. Il sorriso e
l’aria beata del
suo volto. Ed era là, la creatura più dolce e
pacifica del mio universo.
Avvicinò le labbra fino
a sfiorare l’orecchio. «Non ne
vuoi un altro così?» chiese, suadente.
Sospirai, completamente
destabilizzata da quella
vista. «Mi hai convinto così ad avere Mark, non
è vero?» chiesi, torcendomi per
guardarlo in viso. «Ricordamelo quando non dormirò
la notte. Quando dovrò
allattarlo, quando riempirà le tutine di vomito e bave,
quando strillerà ad
ogni ora e ci subisserà di domande, richiedendo tutta la
nostra forza e le
nostre attenzioni. Oh, ricordamelo soprattutto mentre sto
partorendo».
Ridacchiò, con tono
mite, a pochi centimetri del mio
volto.
Sospirai, voltandomi ancora verso
Kate. «Sta bene,
vero?». Mi liberai dalla presa di mio marito, chinandomi su
di lei. Le
accarezzai la guancia.
La sua mano raggiunse la mia,
vezzeggiando la pelle
color crema.
Mi voltai a guardarlo.
«Benissimo».
Annuì, sistemandole le
coperte e accarezzandole i
capelli. «Ci vuole bene…» sussurrai, un
misto di agitazione e affetto.
Restai lì, ad osservarla
nel sonno, lasciando che
l’idea di serenità che emanava penetrasse pian
piano dentro di me. Mi dovevo
abituare a quella nuova idea di pace, di armonia, cancellare per sempre
le
tracce di quello che era stato.
La mia mente era come la sabbia
bagnata in riva al
mare, gli ultimi flutti stavano cancellando, onda dopo onda, ogni
traccia di
quello che era passato.
«Edward?»
sussurrai, smettendo di accarezzare nostra
figlia per posarle una mano sulla guancia.
Si voltò a guardarmi.
Sollevai lo sguardo per incontrare
il suo. Le mie
labbra si piegarono in un sorriso.
«Andrà tutto
bene».
Rimando
ogni cosa all’epilogo, fra pochi giorni.
Per ora, GRAZIE.
Scusate
la fretta.
La mia
nuova storia, Diamante.