Uno, due, tre, quattro. Asfodelo. di Elos (/viewuser.php?uid=75887)
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2. il viaggio della madre
Yann Tiersen
Il Liceo Scientifico Statale Guglielmo Marconi si gloriava di una lunga tradizione di ex allievi usciti dalle
sue aule spoglie di cartongesso e vetri macchiati solo per assurgere agli alti e sacri sogli del mondo della
musica.
Assurgere agli alti e sacri sogli era parte del formulario della professoressa Bellucci. Luca non aveva
niente contro la Bellucci - che era una brava donna molto affettuosa, tutto sommato - ma c'erano volte in cui la
ascoltava parlare e si domandava da dove le tirasse fuori, certe cose, da quale buco nero spalancato nel suo
cranio uscissero, come facesse a partorirle. Alti e sacri sogli era solo la punta dell'iceberg: a
precederlo c'era stato un sacerdoti dei melodiosi altari che ancora, a ripensarci, lo faceva sudare
freddo, e prima ancora...
Comunque.
Il Liceo Scientifico Statale Guglielmo Marconi non si gloriava di una lunga tradizione di musicisti per merito
proprio: i fondi della scuola erano a malapena sufficienti a sovvenzionare l'affitto di una palestra per cinque
ore alla settimana ad una squadra di basket guidata da un malpagato e irritabile allenatore sulla cinquantina, e
l'ultimo corso di inglese tenuto nelle sue aule si era concluso ingloriosamente e anzitempo quando il denaro per
pagare gli insegnanti di madrelingua era finito a metà dell'anno scolastico. Il Guglielmo Marconi si beava
invece, per così dire, di gloria riflessa: perché a quindici metri dai suoi portoni di alluminio, centimetro
più, centimetro meno, si alzavano quelli in costosissimo legno di quercia del Conservatorio della città.
Vedere i due edifici l'uno vicino all'altro faceva un po' tristezza; il liceo aveva, così, precisamente
l'aspetto d'un fratellino dimesso al quale qualcuno si fosse dimenticato di pettinare i capelli prima di
mandarlo a scuola.
Quindici metri erano quindici metri, però: tanto pochi che gli studenti potevano uscire dalle porte del Marconi
e infilarsi in quelle del Conservatorio senza neanche bisogno di attraversare la strada, dritti da una scuola
all'altra come fossero lo stesso edificio. Il Marconi era pieno di gente che cantava, gente che suonava, gente
che bacchettava con le matite sul bordo dei tavoli come fossero leggii e gente che studiava spartiti ad alta
voce. Il Marconi aveva un pianoforte in prestito dal Conservatorio in un grosso sgabuzzino vuoto che tutti
chiamavano nobilmente la sala prove - anche se era piena di ragni e il pavimento aveva uno strato di
polvere alto due dita a fare da moquette. Il Marconi organizzava alla fine di ogni anno scolastico il concerto
del MusicaMente e il Conservatorio consentiva con signorile condiscendenza che le belle poltroncine della
sua aula grande venissero sfruttate per ospitare l'orda degli studenti e del parentado in massa.
In novembre Luca aveva stabilito che il MusicaMente di quell'anno sarebbe stato il suo momento di gloria.
Nel MusicaMente sarebbe stato fico: più fico di sempre, più fico di chiunque altro, fico per una
volta nella sua carriera scolastica in una maniera assoluta, totalitaria, appariscente.
Luca suonava il violino da quando aveva cinque anni: un qualche lontano e mai visto zio di tredicesimo grado
gliene aveva messo in mano uno di plastica come regalo per il suo compleanno - archetto arancione a disegni di
mostriciattoli incorporato nella scatola - e lui aveva scoperto che era la sua seconda pelle, quella. Grattava
sulle corde e veniva fuori il suo sangue: nei sussulti gonfi della cassa di risonanza, un graffio alla volta, si
apriva il suo respiro, gli si spalancavano i polmoni, il cuore, tutto. Suonava come tenesse in mano le proprie
viscere, certe volte era sgradevole, certe volte sfibrante, ma ogni singola volta gli dava euforia.
A sette anni i suoi genitori gli avevano comprato un violino vero, di legno, bellissimo. Gli era sembrato di
reggere lo specchio di Alice tra le dita. A otto anni l'avevano iscritto al Conservatorio. A dieci aveva una
borsa di studio e suonava dalla mattina alla sera con brevi pause per mangiare, dormire, andare a scuola.
A dodici anni aveva scoperto le ragazze.
Le ragazze erano come il violino: tenevano in mano le sue viscere. Suonava ancora, ma baciava anche: scopriva
che gusto aveva la bocca di un'altra persona sulla sua, che profumo aveva quel punto proprio dietro le orecchie,
tra i capelli, che gli era sempre piaciuto farsi grattare, che sensazione dava tenere un qualcosa che non fosse
il violino tra le mani, averne cura, maltrattarlo. Come il violino, le ragazze potevano amarlo. A differenza del
violino, però, potevano anche respingerlo. Era strano, era un mondo nuovo.
A tredici anni aveva scoperto Andrea.
Andrea non era una ragazza, Andrea era una ragazza. Andrea non era un violino. Andrea grattava e graffiava come
un archetto sulle corde, ma sapeva essere liquida, musica. Andrea saliva le scale ripide del suo pianoforte e
lui le buttava giù funi fatte di crine, perché potesse arrampicarcisi e andare altrove.
Ad Andrea i suoi genitori non avevano chiesto se volesse davvero suonare. Nessuno si era informato sui suoi
gusti: il flauto, la batteria? Il calcio? La danza? Sua madre le aveva messo un pianoforte sotto le dita
quand'era ancora troppo piccola per arrivare alla tastiera senza l'aiuto di un grosso cuscino, e tutto sommato
le era andata anche bene, di lusso: perché le era piaciuto. Era finita al Conservatorio prima ancora di entrare
alle elementari.
Andrea non era come Luca, non aveva uno strumento tutto suo del quale andare gelosa: Andrea prendeva i
pianoforti che le venivano dati e li persuadeva a fare quel che diceva lei, quando lo diceva lei, come lo diceva
lei.
Andrea gli piaceva da sempre. Longilinea e asciutta ovunque, sui fianchi e sul seno e sulla vita e sulle gambe,
soprattutto sulle gambe, lunghe e magre come stecchi, bianca di pelle e scura di capelli, portava la treccia per
non avere le ciocche sugli occhi quando pigiava sui tasti. Aveva pupille sottili e iridi bagnate d'ambra. Quando
indossava i jeans era bellissima: quelli a vita bassa, stretti, con le camice annodate sull'ombelico, gli
facevano venir voglia di passarle una mano sul ventre e infilarla sotto la stoffa per sentire se era liscia come
sembrava. Quando suonava era più che bellissima: era assorta e sicura e femmina e androgina e impalpabile. Era
il modo in cui era più Andrea, quello.
Per Luca Andrea era stata una scoperta come il violino, come le ragazze. L'aveva conosciuta un po' alla volta:
prima aveva conosciuto l'eloquio contorto e il distacco neutro che servivano a tenere lontani tutti, tranne
quelli che erano furbi abbastanza per andarle vicini tenendosi sottovento, scivolando tra una trincea e l'altra
senza farsi scoraggiare da quel fuoco di fila di parole intoccabili; più tardi il sarcasmo, perché Andrea era
come un pungitopo, e poi tutte le bacche rosse di cose bellissime che c'erano dietro; e infine aveva incontrato
Annalisa, che era parte di Andrea come neanche il pianoforte riusciva ad essere, Annalisa e i suoi discorsi
sulle farfalle e le rose e su come sarebbe sbocciata, la sua bambina, come sarebbe stata una donna
adorabile.
Le gonne di Andrea erano il guscio osseo di Annalisa: una sua secrezione, un suo prodotto. Andrea riusciva ad
essere sé stessa solo otto ore alla volta, le otto ore in cui era a scuola e poi nella sala prove. Entrava prima
che la campanella suonasse, si cambiava in bagno, tornava in classe e poi di nuovo si cambiava prima di uscire
per tornare a casa. Luca ci aveva fatto l'abitudine.
Ed eccola lì, Annalisa, che gli offriva il vassoio di ceramica della torta e gli chiedeva:
- Un'altra fetta...? -
Aveva un sorriso spettacolare, Annalisa. Sulla torta c'era un ghirigoro di fragole e panna che sembrava
disegnato con il pennello, tutto strati compatti di granelli di zucchero rosa e crema gialla, ricca,
spumosa.
- Grazie, sì. -
- Annie, ne vuoi un'altra anche tu? -
Andrea aveva finito la prima svogliatamente, e adesso scarabocchiava con la punta della forchetta sull'impasto
rimasto nel piattino: sotto lo sguardo penetrante di sua madre si bloccò e scosse la testa, poggiando la posata
sul tavolo - con le punte verso il basso, per non sporcare la tovaglia.
- No, grazie. -
- Ne dovresti proprio mangiare un'altra fetta, tesoro, invece. - Insisté delicatamente Annalisa. - Sei così
magra... non vuoi che il vestito per il saggio ti stia bene, amore? -
Luca vide chiaramente la bocca di Andrea piegarsi in una breve torsione che durò solo un attimo, un momento,
prima che lei alzasse il piatto e, senza una parola, lo allungasse verso la madre per farselo riempire.
Il signor Stefano Maisano - Annalisa era Annalisa, ma Stefano era il signor Stefano Maisano -
sollevò la testa, guardò la figlia, non disse niente e tornò ad occuparsi del proprio dolce. Luca gli aveva
sentito dire forse quindici parole in totale nel corso di quei cinque anni di conoscenza: quindici parole in
cinque anni, per una media di tre parole l'anno, generalmente monosillabiche, sì, no, ah.
Andrea adorava suo padre - che adorava Andrea. Luca non era mai riuscito mai davvero a capire né l'uno né
l'altra, e forse era questa la ragione per la quale tra di loro comunicavano tanto bene.
Annalisa, rifletté Luca osservando Andrea mangiare svogliatamente la sua seconda fetta di dolce, avrebbe potuto
far ingozzare la figlia di una, due, dieci torte, una pasticceria intera compresa di cornetti e tramezzini,
senza che quel vestito riuscisse a starle anche solo un grammo meglio.
Non era Andrea, quel vestito. Era molto semplice. Chopin non era Andrea. Il vestito rosa a fiorellini non era
Andrea.
Andrea sarebbe andata al MusicaMente indossando i panni di qualcun altro.
In novembre Luca aveva stabilito che il MusicaMente di quell'anno sarebbe stato il suo momento di gloria.
Nel MusicaMente sarebbe stato fico: più fico di sempre, più fico di chiunque altro, fico per una
volta nella sua carriera scolastica in maniera assoluta, totalitaria, appariscente.
Suonava il violino sin da quando era bambino, gli sembrava di non aver fatto altro che suonare per tutta la
vita, e la cosa lo rendeva indicibilmente felice: ma il violino gli piaceva quanto gli piacevano le ragazze, e
quanto gli piaceva sentirsi al posto giusto al momento giusto. Se fosse stato un chitarrista sarebbe stato tutto
più semplice. Se avesse suonato la batteria, se avesse cantato, sarebbe stato in. A posto. Alla moda.
Moderno. Fico.
Le sonate di Corelli non reggevano agli occhi di tutti il paragone con i Radiohead, doloroso ma vero. Suonare il
violino era ah, forte, suonare la chitarra era oh, wow, mi fai sentire qualcosa?, e la seconda
reazione era infinitamente più lusinghiera.
Alla fine del MusicaMente gli avrebbero chiesto tutti oh, wow, mi fai sentire qualcosa? Sarebbe stato al
centro del palco. Sotto gli occhi di tutti. Sarebbe piaciuto alle ragazze. Avrebbe fatto invidia ai ragazzi.
La preparazione per l'evento che avrebbe fatto di lui un fico aveva richiesto otto mesi. Aveva dovuto
scegliere una canzone adatta, intanto - dopo settimane e settimane a tormentarsi dietro ad infiniti
ripensamenti. Aveva dovuto cercarsi una cantante, un batterista, un bassista, un - ugh - un chitarrista: questa
parte non era stata poi tanto difficile, perché c'era mezzo Marconi in cerca di un gruppo per il saggio, e la
cantante dopotutto era carina. Non gli piaceva come gli piaceva Andrea, ma era carina. L'aveva baciata prima
della terza giornata di prove e dopo la terza giornata di prove, erano usciti per un po' e si erano separati
senza rancore. Era stato piacevole baciarla, e lei adesso stava con un ragazzo molto alto del quale lui non
sapeva assolutamente niente e che veniva ad assistere alle prove, ogni tanto. C'erano stati pomeriggi interi
trascorsi a suonare e notti passate a dannarsi su quel che non veniva, e poi accordarsi per provare insieme,
studiare tenendo sott'occhio gli spartiti come avesse paura che le note potessero cambiare se le avesse perse di
vista, e di nuovo provare, provare, provare. Era stato un anno pieno. Il MusicaMente, aveva pensato ogni
volta che era stato sul punto di cedere, esausto, sarebbe stato il suo fugace, piccolo, esaltante attimo di
celebrità.
Posò l'archetto e Andrea emise un suono di gola vibrante, basso, piacevolmente soddisfatto.
- Ti viene bene. -
- Potrei suonarlo ad occhi chiusi. - Esclamò Luca, senza neanche provare a nascondere quanto fosse lusingato dal
complimento. - Bendato. Con le orecchie piene di cera e la mano sinistra legata dietro la schiena. -
- Non che io desideri sminuirti, ma permettimi di dubitarne. -
Andrea afferrò lo spartito e ne seguì le righe con le dita, contando senza voce. Se ne stava sdraiata sul letto
con niente più che il pigiama leggero, e Luca doveva usarsi violenza per non abbassare gli occhi e guardarle le
gambe, la linea bianca delle caviglie esili che diventavano ginocchia aguzze e poi cosce lisce, sottili, appena
sotto l'orlo di pizzo. Anche quello era un pigiama che gridava Annalisa! con ciascuno dei suoi piccoli,
graziosi centimetri di tessuto traforato, ma c'era il seno che si abbozzava appena al di sotto del lino e la
pelle sembrava rosa, lì dietro, non bianca come sempre. Nella luce della lampada da tavolo gli occhi di Andrea
erano più miele che oro, scuriti, i capelli sciolti ad onde giù per il cuscino.
- Eramaan Viimeinen, allora. - Osservò lei, meditabonda.
- Non ti piace? -
- Mi piace molto. - Ne canticchiò a mezza voce un pezzetto. - Per sostituire il flautista come avete fatto?
-
- Suono io, con il violino. -
- Oh. -
Di nuovo silenzio, mentre lei picchiettava con un'unghia contro il bordo dello spartito. Aveva un'espressione
assorta, distratta, che ad un altro avrebbe fatto pensare che non stesse nemmeno guardando quel che teneva in
mano: ma Luca la conosceva da cinque anni, cinque anni passati a guardare le sue caviglie, le sue gambe, la sua
pancia liscia e gli occhi d'oro e il viso di Andrea, e così gli sembrava adesso di poter interpretare i suoi
pensieri come fosse stato dentro la sua testa.
- Andrea? -
- Dimmi. -
- Devi proprio portare Chopin? Voglio dire, hai detto che non ti piace... -
Lei lo interruppe, quietamente:
- Non ho mai detto che non mi piaccia. -
- Hai detto che non è, uh, travolgente...? -
- Coinvolgente. -
- Coinvolgente, sì. Hai detto che non è coinvolgente, e tu lo sai che è noiosissimo. Si stravaccheranno sulle
sedie, Andrea. Si ricorderanno di te solo questo, Chopin e un pezzo al pianoforte che li ha fatti stravaccare
sulle sedie. - Esitò per un attimo, prima d'aggiungere più piano: - E' l'ultimo anno. -
Andrea non lo guardava. Fissava ancora lo spartito che teneva in mano, e si limitò ad assentire quieta:
- Lo so. -
- E non vuoi che sia... bello? Che finisca in gloria? Andrea, non è Annalisa che... -
- Manca un foglio. -
Il brusco cambio di discorso lo lasciò spaesato. Guardò prima lei, poi gli spartiti che teneva in mano e che
stava agitando al suo indirizzo, e infine le chiese:
- Come? -
- Manca un pezzo. L'hai perso? -
Non ne voglio parlare, non ne voglio parlare. Gli stava dicendo. Non ne parliamo.
Per un attimo Andrea ebbe la tentazione di forzarla, di portare avanti il discorso, di spingerla e tirarla e
spronarla: ma invece si chinò e cominciò a frugare nella borsa.
- No. - Le rispose. - Dev'essere rimasto in mezzo ai quaderni. -
Note della storia: Questo racconto in quattro
capitoli partecipa al concorso Ragazze
al pianoforte indetto da Harriet.
Il bando richiedeva di scrivere una storia che ruotasse attorno ad un personaggio femminile, ad un pianoforte e
ad una tra le citazioni, canzoni e video proposti come prompt da Harriet. Io ho scelto la stupenda Runs in the family, di Amanda Palmer (per il testo,
qui).
Un enorme grazie a LaureDeTroyes e a Salice, le mie eterne e infinitamente pazienti
beta.
Note del capitolo: Il titolo di questo capitolo, Il viaggio della madre, è la traduzione del
titolo di una composizione di Guillaume Yann Tiersen, il meraviglioso compositore e musicista francese
autore - tra le altre cose - di quel capolavoro che è la colonna sonora de Il favoloso mondo di Amélie.
Il brano, Mother's journey, lo potete trovare qui. Arcangelo Corelli è un celeberrimo violinista barocco
italiano, autore, per l'appunto, di diverse sonate. I Radiohead (ma serve davvero che lo dica? xD) sono un ben noto
gruppo inglese.
Per quanto riguarda Eramaan Viimeinen potete trovare qui il video. E' una canzone dei Nigthwish con
delle meravigliose parti per violino.
Grazie a tutti quelli che si sono fermati a commentare! Mi ha fatto infinitamente piacere! That's all
Folks!. |
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