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house
L’oceano distava una ventina di chilometri ma il vento che
soffiava verso terra portava con sé le grida stridule dei
gabbiani. Dal porto entravano e uscivano imbarcazioni a motore e a
vela, minuscoli tocchi di colore che si muovevano al rallentatore su
quell’immensa distesa piatta. Dal suo punto di osservazione,
in cima alla collina del quartiere elegante che sovrastava la
città, vedeva l’acqua azzurra che sfumava a largo
in un blu profondo e impenetrabile. Era uscito di casa non appena il
caldo di quell’afosa e umida giornata estiva aveva cominciato
a ritrarsi e a lasciare il posto alla brezza più fresca e
gradevole del pomeriggio. Dopo essersi chiuso la porta alle spalle,
aveva saltellato giù per le tre rampe di scale esterne al
palazzo, aveva varcato il cancello del giardino condominiale e aveva
cominciato a correre lungo la pista ciclabile.
Il consueto e quotidiano percorso di allenamento prevedeva una corsa di
circa cinque chilometri in pianura, uno sprint in salita fin sulla cima
della collina e poi, dopo una pausa di quindici minuti per riprendere
fiato, tutta discesa a passo svelto tra le strade e le stradine del
quartiere fin giù al supermercato, dove avrebbe comprato la
cena di quella sera.
Adesso era in piena pausa, sedeva sul muretto e si chiedeva che ore
fossero. Forse le sei, o magari anche le sette.
Non lo sapeva con certezza perché quando si era frugato
nelle tasche in cerca del telefonino, si era accorto di averlo
dimenticato a casa. Saltò giù dal muretto e
scelse uno dei viottoli a caso. Cambiava sempre percorso
perché lo affrontava camminando quindi non era necessario
che ricordasse la presenza di eventuali buche o disconnessioni del
selciato. Gli piaceva osservare le case dei ricchi, ammirare
l’eleganza dei muri di cinta, scorgere tra piante costose e
rare, spicchi di giardini artistici, curati fin nel più
piccolo dettaglio. Gli piaceva leggere i nomi sui cancelli, godere del
silenzio interrotto solo a tratti dall’abbaiare di un cane
disturbato dal suo passaggio. Ogni tanto qualche gatto pasciuto e dal
pelo lucido e pulito faceva silenziosamente capolino da un angolo della
strada e saltava con agilità sulle recinzioni, sparendo
all’interno dei giardini senza fare rumore.
Stavolta scelse il sentiero che l’avrebbe portato a
costeggiare il muro di cinta della villa più grande. Era
parecchio che non passava lì davanti. In realtà
la recinzione era lunga e monotona nel suo grigio spento, tanto da
rendere il percorso così noioso da sceglierlo solo di rado.
Il cielo era terso, color pervinca verso oriente, e la foschia
umidiccia caratteristica delle grandi città si stava
finalmente diradando grazie alla preannunciata frescura della sera
proveniente dal mare. Il sole era ancora alto nel cielo e gli uccelli
cinguettavano, indaffarati nel chiacchiericcio che intervallava la loro
quotidiana ricerca di cibo fino al tramonto. La strada che percorreva
seguendo il marciapiede era tranquilla. Da quelle parti non
c’era mai confusione, tutti i rumori erano sempre soffusi,
pure il rombo dei motori delle macchine giungeva attutito tra quelle
strade ricche che assorbivano come per magia ogni suono fastidioso. Non
aveva mai sentito una voce gridare, anche solo per chiamare, mai le
risate di bambini provenire dall’interno dei parchi. A volte
l’unico rumore che udiva per svariati minuti era il calpestio
che produceva lui stesso.
Anche quel giorno era così immerso nel silenzio tranquillo
del quartiere che il grido improvviso che squarciò
l’aria lo fece saltare di un metro e gli entrò
dritto nel cervello.
-Le ho detto di lasciarmi in pace! Non si avvicini! Non mi tocchi!-
Una mano sul cuore che batteva a velocità supersonica, si
volse. Le grida provenivano dal lungo muro che aveva appena finito di
costeggiare, quello della villa più grande. Tornò
indietro e si accostò alla parete grigia, che lo sovrastava
di circa un metro. Oltre il cemento tirato grezzo, fitte siepi di
lauroceraso nascondevano alla vista tutto ciò che si trovava
all’interno della recinzione.
-Mi lasci! Mi lasci!-
Erano senza ombra di dubbio delle grida femminili che si facevano
sempre più insistenti e pressanti. Grida che gli sconvolsero
lo stomaco per la loro urgenza e che lo indussero ad aggrapparsi alla
parete grigia e issarsi con la forza delle braccia per poter lanciare
un’occhiata al di là delle foglie verde scuro che
impedivano la visuale. C’era una ragazza, la vedeva appena. E
qualcuno la teneva.
Si volse indietro, verso la strada, verso le case vicine. Tutto
continuava ad essere silenzioso, nessuno nei paraggi ad osservarlo e a
chiedersi cosa stesse facendo lì, aggrappato ad un muretto,
a spiare l’interno di una proprietà privata, a
impicciarsi degli affari degli altri. Nessuno che avesse udito le urla
disperate della giovane. L’unico rumore che giungeva alle sue
orecchie dai dintorni era il fruscio del vento e lo stormire delle
fronde degli alberi dei giardini. Persino gli uccelli avevano smesso di
cantare. D’un tratto una porta cigolò
sinistramente, procurandogli brividi sulle braccia e lungo la schiena.
-Non mi tocchi! Mi lasci stare!-
Ficcando la punta delle scarpe tra le fenditure del cemento,
riuscì a tirarsi più su e a guardar meglio, oltre
gli arbusti. La ragazza che gridava stava tentando di liberarsi dalla
presa salda e forte di un possente uomo in nero. Le due figure si
trovavano proprio sulla veranda della villa ma l’ombra
proiettata dall’edificio rendeva impossibile distinguere i
loro volti. Cavolo però, che accidenti di casa!
Non aveva mai visto niente di così lussuoso e allo stesso
tempo pacchiano. L’edificio su due piani era di un chiassoso
rosa shocking con rifiniture, colonne e bordini barocchi bianchi come
la neve. Dal suo punto di osservazione la planimetria della villa era
indefinibile. Dietro la facciata animata da complementi di dubbio
gusto, tutto quel fucsia proseguiva ancora parecchio, continuando forse
per decine di metri sul retro. Al centro del tetto terrazzato sorgeva
una specie di tempietto rotondo circondato da colonne; scendendo con lo
sguardo verso il basso ci si scontrava con l’alcova del
secondo piano che si protendeva a semicerchio verso l’esterno
e verso la doppia scalinata che scendeva a terra in un tripudio di
colonnine bianche, così numerose da costituire una fatica
non da poco contarle tutte. Uno spazio triangolare si apriva nel muro
sotto la scalinata e sulla parete erano state tracciate strisce
orizzontali e verticali ad imitare un’improponibile sequenza
di mattoni rosa. Quella specie di ballatoio triangolare era separato
dall’esterno da un’ampia cancellata bianca a
quattro ante, ciascuna fregiata di un grande fiore di ferro battuto.
Oltre di essa un piccolo ballatoio introduceva all’abitazione
vera e propria attraverso una porta in legno anch’essa
verniciata di bianco.
La ragazza che gridava era proprio lì, in
quell’ingresso, nel tripudio di bianco e rosa che faceva male
agli occhi. E a parte la conturbante e prepotente tonalità
che si insinuava nel cervello in lievi stilettate, il problema
più grande era rappresentato dalla siepe di lauroceraso in
piena fioritura. Il profumo di quelle corolle era così
intenso da stordirlo e fargli prudere il naso. Soffocò il
primo starnuto contro il braccio, riuscì a mandare indietro
il secondo e inghiottire il terzo. A quel punto i suoi occhi erano
diventati un lago di lacrime e non riusciva più a mettere a
fuoco la ragazza. Si passò un lembo della maglia sulla
faccia e tornò a guardare. La giovane adesso era riversa a
terra, il sole illuminava finalmente il suo volto e riuscì a
riconoscerla.
Sussultò e soffocò un grido.
-Evelyn!-
Si aggrappò al muro e saltò dall’altra
parte, finendo in un tripudio di foglie e i fiori. Un attacco
inarrestabile di starnuti lo investì ma Evelyn continuava a
gridare, impedendo all’uomo di udirlo e prendere atto della
sua presenza. Costeggiò il giardino piegato in due, il naso
che gli prudeva da impazzire, quell’energumeno che
strattonava Evelyn con forza e lei che cercava in tutti i modi di
impedirgli di trascinarla in casa, avvinghiandosi come una scimmia alla
cancellata.
E quando fu ad un passo da loro vide chiaramente la lama di un coltello
a serramanico emanare sinistri bagliori alla luce del sole. Allora si
chinò, scalzò una pietra dal terreno, si
avvicinò di soppiatto ancora per un bel tratto e prese bene
la mira. Tirò indietro il braccio e lanciò.
La pietra si schiantò sulla tempia dell’uomo con
uno schiocco secco. Lui per pochi istanti si bloccò,
spostò gli occhi dalla ragazza al giardino senza riuscire a
metterlo a fuoco, perché si rivoltò
all’indietro e crollò a terra con un tonfo.
-Caspita che mira!-
-Non mi ci far pensare! Temevo di sbagliare e colpire te!- tese una
mano e l’aiutò a tirarsi in piedi. Poi
starnutì un paio di volte.
-L’avrai mica ammazzato?-
Tom non volle riflettere su una tale eventualità.
-Che voleva da te?-
-Ecco, veramente...-
Uno scalpiccio di passi affrettati li spinse a voltarsi
all’unisono verso l’ingresso in penombra. Una
sagoma si stagliò contro la porta, poi piombò a
terra come un sacco di patate. La pietra che Tom aveva recuperato e
scagliato per la seconda volta, rimbalzò
sull’impiantito e giacque in un angolo.
Evelyn si portò le mani al viso sgomenta, poi
crollò in ginocchio accanto al corpo privo di sensi.
-Che hai fatto?-
Tom si accostò, in preda a brividi di terrore.
-È Benji!-
-Certo che è Benji!-
-Non l’avevo riconosciuto! Ommioddio! Questa me la
farà pagare cara! Non mi perdonerà mai!-
-Sempre che sia ancora vivo!-
-Non dirlo neppure per scherzo!- Tom si inginocchio
dall’altro lato e allungò una mano. Le dita
trovarono sul collo la vena pulsante di vita -Respira
ancora…- il sollievo gli provocò un paio di
starnuti, poi raddrizzò la schiena e si guardò
intorno. L’uomo colpito in precedenza era ancora steso a
terra.
Un cane abbaiò dal giardino di una delle case del vicinato,
riscuotendoli dallo sgomento. Era arrivato il momento di sparire.
-Aiutami.- Tom agguantò il corpo esanime di Benji e se lo
caricò sulle spalle con uno sforzo madornale. Il compagno
non era decisamente un peso piuma.
-Cosa vuoi fare?-
-Filarcela e portarlo con noi.- la fissò negli occhi -O
preferisci rimanere qui? Che poi qui… che posto sarebbe?-
-Dopo, Tom.-
Evelyn corse verso il cancello pedonale, mentre il ragazzo la seguiva
arrancando piegato dall’insostenibile peso
dell’amico svenuto. Quando lei premette il pulsante sulla
colonna in laterizio, la serratura scattò con un rumoroso
schiocco. Afferrò le sbarre e aprì. Non appena
anche Tom lo ebbe varcato, sbuffando di fatica, lo richiuse dietro di
loro.
-Jack!- gridò una voce dalla casa -Ma che
diavolo…!-
Soltanto la ragazza si volse a guardare cosa stesse avvenendo dietro di
loro. Tom proseguì caparbio, accelerando il più
possibile l’andatura. Li avevano scoperti.
-Evelyn, muoviti!- la incitò, non sentendo più
dietro di sé il rumore dei suoi passi.
L’ingresso della casa vomitò all’esterno
altri uomini in nero che si ammassarono sullo stretto ballatoio,
urtandosi l’uno con l’altro mentre cercavano di
capire cosa stesse accadendo. Qualcuno li individuò.
-Ehi! Voi due! Fermi!-
-Tom, sono armati!- il terrore ruppe la voce di Evelyn.
-Bob! Taylor! La macchina!- sentirono gridare -La ragazza sta
scappando! Bisogna riprenderla a tutti i costi!-
Tom si orientava alla perfezione tra le stradine che costellavano il
declivio della collina. Conosceva ogni svolta come le sue tasche. E
stavano procedendo in discesa. Ma Benji gli gravava addosso in modo
insopportabile. Bastarono poche centinaia di metri e le sue gambe
cominciarono a rifiutarsi di procedere. Si fermò e
appoggiò la schiena del portiere contro il muro,
lasciandoselo poi scivolar giù dalle spalle. Il cuore gli
stava scoppiando per lo sforzo.
-È troppo pesante, ci riprenderanno!-
-Ti aiuto! Portiamolo insieme!-
Evelyn si passò un braccio esanime dietro al collo, Tom fece
altrettanto e ripresero ad allontanarsi con tutta la fretta che il peso
del compagno svenuto consentiva loro.
Le strade che percorrevano seguitavano ad essere silenziose e desolate.
Se Tom non fosse stato sicuro del contrario avrebbe creduto di trovarsi
catapultato di colpo in una città fantasma. Si introdussero
in un viottolo tra i muretti di cinta dei villini, percorsero a zig-zag
le stradine, sperando di far perdere le loro tracce.
Si fermarono a riprendere fiato al riparo di una siepe verde e
rigogliosa che ricadeva oltre un muro, occupando con i suoi tralci
verdi pieni di foglie e di fiori bianchi la maggior parte del
marciapiede. Appoggiarono Benji alla parete di mattoni grezzi e lui
gemette debolmente. Il sangue gli tingeva di rosso una tempia,
lì dove la pietra scagliata da Tom lo aveva colpito. Un
rivoletto scarlatto gli solcava la guancia, attraversandogli il viso
per tutta la lunghezza e andando ad imbrattare il colletto della
camicia a scacchi nerazzurra che indossava.
-Una clematide.-
Tom la guardò stravolto raccogliere delle piccole sfere
arancioni.
-Una che?-
-Una clematide. La pianta.-
-Cosa stai facendo?-
-Prendo i frutti.-
-Ti sembra il momento?-
-Non so che altro fare.- ne colse altri due e poi, quando non ebbe
più spazio nelle tasche, lo guardò piena di
speranza -E adesso?-
-Sento il rumore di una macchina. Se passa da qui fermala.-
-Dobbiamo andare in ospedale. Forse Benji ha qualcosa di rotto e ha
bisogno di cure.-
-Qualsiasi posto va bene purché riusciamo ad allontanarci da
quella casa e dai suoi inquilini.-
-Tom, se quell’uomo è morto…? Cosa
facciamo?-
-Non pensarci adesso. Non è il momento. Troviamo qualcuno
che ci dia un passaggio e su tutto il resto ci angustieremo
più tardi.-
Una macchina si stava effettivamente avvicinando. Dovevano solo sperare
che tra tutti i vicoli e vicoletti imboccasse proprio quello in cui si
trovavano loro.