Il ladro di fotografie

di vincenzoborriello
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Non sapevo dove mi trovavo in quel momento. Intorno a me c’era solo il buio, l’oscurità. Ero legato, con le mani dietro la schiena. Avevo un bavaglio sulla bocca e mentre, spaventato, mi dimenavo per cercare di liberarmi. Da lontano, come se provenisse da un’altra stanza, sentii un urlo, un urlo agghiacciante, di terrore, ma anche di dolore lancinante, l’urlo di una donna, poi il silenzio. Il mio pensiero andò subito a Franceen. Passarono diverse ore, durante le quali sembrava fossi solo; neanche il più piccolo rumore percepivo in quel luogo. Dovevo essere stato portato in una zona isolata, forse di campagna. Ad un tratto udii dei passi che, con il trascorrere dei secondi, sembravano sempre più vicini. Contemporaneamente ai passi sentivo degli scricchiolii, come se qualcuno stesse salendo una scala di legno. I passi sembravano quelli di una persona pesante…tum… tum… tum, il rumore mi rimandava alla mente, le percussioni di qualche antico rito tribale il cui incedere separa la sfortunata vittima, dai secondi che mancano alla morte. Sentii un cigolio, come se si aprisse una porta, fuori doveva essere notte, perché non entrava luce. Qualcuno si fermò per qualche istante sull’uscio, poi i pesanti passi con il loro incedere lento e “ritual-tribalesco” ripresero, tum…tum…tum, questa volta accompagnati da un rumore ancora più sinistro. Dal suono sembrava si trattasse dello sfregamento di due coltelli. Ad un tratto sentii qualcosa di freddo, metallico e appuntito, poggiarsi sul mio zigomo, appena sotto l’occhio. L’oggetto, probabilmente una lama accuratamente e sapientemente affilata fino a pochi istanti prima, come una carezza mortale, scese lungo la mia guancia fino a fermarsi sulla gola, all’altezza del pomo d’Adamo. Potevo sentire distintamente il respiro affannato di quell’uomo. La lama vi restò lì per qualche secondo che percepivo come interminabili ore. Poi sentii i passi allontanarsi, tum…tum…tum e la porta chiudersi. Qualcosa gocciolava dalla mia guancia, forse, sangue. La lama, scorrendo sul mio viso doveva avermi graffiato. Non so quanto tempo passò dalla visita del mio carceriere, forse un paio di giorni. Finalmente, mi portò qualcosa da mangiare. Mi tolse il bavaglio, mi liberò le mani, gli chiesi chi era, cosa volesse da me, perché mi faceva tutto questo, ma non disse nulla, non aprì bocca. Mi diede una scodella con dentro della carne; sembrava uno spezzatino. Non so dirlo con precisione perché continuavo ad essere al buio. Il sapore non era dei migliori, ma dopo due giorni di digiuno non badi tanto al sapore delle cose che mangi. Masticando la carne, quasi mi rompevo un dente. C’era qualcosa di duro, di metallico mescolato alla pietanza, qualcosa di forma circolare. Istintivamente sputai quell’oggetto. Finito di mangiare, il mio carceriere mi legò ed imbavagliò nuovamente. Avevo perso completamente la cognizione del tempo; mi ero ormai abituato a quel perenne buio. Fu, quando avevo ormai perso le speranze di uscire vivo di lì, che qualcuno sfondò la porta e finalmente vidi una luce. La polizia mi aveva trovato, fui liberato, ma il vero orrore dovevo ancora vederlo. In terra c’era il cerchietto metallico che avevo sputato. Lo presi e lessi l’incisione al suo interno, “Antony e Franceen – 16 giugno 2008”. Era la fede di mia moglie, ed io avevo mangiato i suoi resti.




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