Note:
giuro
che d’ora
in poi mi preparo una decina di documenti Word con su delle
stramaledette note
alla storia, perché non è possibile che me le
dimentichi sempre. *ruggisce*
Matthew
Bellamy e Brian Molko non sono miei, non fanno un tubo di
ciò che è scritto
sotto e continuano ad odiarsi gioiosamente nel loro gioioso mondo
reale. E,
andiamo, secondo voi qualcuno sarebbe disposto a pagarmi per
questo…? Suvvia.
Ciò
non toglie che se un’anima pia conosce un pazzo pronto a
retribuirmi, lo mandi
dritto dritto da me XD
P.S:
ah, e nemmeno la scala di Penrose è mia, ma appartiene
*indovina indovina* a un
tale Penrose, un matematico coi controcazzi. Cercatela su Google
<3, se
siete un po’ ingenuotti come me ci rimarrete in fissa per ore
XD
It’s not treason, it’s no
lie
It seemed a place for us to dream.
- Narcoleptic -, Placebo
La
scala di
Penrose fa parte di quella categoria di oggetti comunemente detti
impossibili,
perché concepibili sono bidimensionalmente e non
tridimensionalmente; in poche
parole, questi oggetti – come anche il triangolo di Escher e
il tridente
biforcato – sono in grado di essere pensati e raffigurati, ma
non possono
esistere nella realtà. Mantengono un senso e una coerenza
solo sotto forma di
progetto astratto, grazie a un portentoso fenomeno di illusione ottica.
Cose
come queste
mi hanno sempre affascinato. Ho sempre pensato, sperato che esistesse
un modo
per fregare le leggi fisiche e realizzare questi oggetti materialmente,
e che
dovesse essere solo scoperto. Non riuscivo ad accettare che idee
così
straordinarie, così semplici, così spiazzanti
nella loro perfezione dovessero rimanere
relegate per sempre a mera fantasia irrealizzabile.
Da
poco mi sono
reso conto che la mia storia con Brian è esattamente questo:
perfetta, nella
mia testa, così perfetta che tutto scorre e si incastra
esattamente secondo i
miei desideri, e così unica e accattivante da essere capace
di impegnare tutta
la mia attenzione per anni.
Ma
non è vera.
Non è reale. Non può esistere, in questo mondo.
Funziona
unicamente grazie ad un’illusione – la mia.
E
non mi
importa.
-
Brian – chiese Matthew , pigramente reclinato contro la
testiera del letto, -
tu ci credi in Dio? –
La
stanza era appena rischiarata dalle lampade accese sui loro comodini e
riusciva
a sembrare calda e rassicurante pur essendo in realtà
l’impersonale, principesca
suite dell’albergo più vicino che avessero
trovato. Matt non si stupiva più di
questa strana sensazione: era un po’ di tempo che tutti i
posti in cui si
incontrava con Brian gli sembravano simili a una casa. A un posto
protetto,
sicuro, rassicurante. A un luogo che lo faceva stare bene.
Un
luogo dove
gli sarebbe piaciuto poter tornare ogni giorno.
Brian
emise un verso a metà fra il sorpreso e il divertito,
chinandosi a recuperare
il pacchetto di sigarette dai pantaloni abbandonati sul pavimento.
Quella sera
era di buon umore, allegro, dolce, vitale. Rideva per un niente e
Matthew si
ritrovava a fissarlo rapito: quando lo faceva sembrava ringiovanire
d’un tratto
e diventare splendidamente definito, fino all’ultimo
dettaglio.
In
quel momento era ancora nudo e spettinato e aveva gli occhi un
po’ velati,
caldi. Matthew avrebbe voluto fermare il tempo ogni volta che lo vedeva
felice.
Era così bello da non sembrare neanche vero.
-
Mh… - mugugnò pensieroso Brian, la sigaretta
penzoloni dalle labbra e lo
sguardo fisso sul proprio orologio da polso. – Quesito
esistenziale della
mezzanotte e trentasei. Rispondere sarà impegnativo.
–
Matthew
si appoggiò su un gomito e gli si fece più
vicino, come per incalzarlo anche
fisicamente.
-
No, sul serio, ci credi? –
Lo
osservò accendersi lentamente la sigaretta e
sentì l’impulso irresistibile di
toccarlo. Il lenzuolo tirato fino sotto l’ombelico sembrava
costituire una
sorta di sfida.
-
Nel Dio padre buono e canuto con il triangolo d’oro in testa?
No. – rispose,
sorridente, appoggiando la schiena al cuscino con un movimento
disinvolto. – La
trovo una delle idee più presuntuose che l’uomo
abbia mai concepito. -
-
Intendevo dire se credi in una trascendenza divina. Non
dev’essere
necessariamente antropomorfa. – ribatté Matthew,
serio. Brian gli lanciò uno
sguardo meravigliato e scoppiò a ridere.
-
Matt, sei incredibile. Ogni volta che uno si illude che la situazione
sia
normale e rilassata, ti suona una specie di timer e parte a caso una
delle tue
assurde domande. Come quando ti ho chiesto un parere su una cravatta e
tu mi
hai ribattuto dal nulla se credessi davvero alla versione ufficiale
dell’11
settembre. –
Matthew
sbuffò rumorosamente e si mise a giocherellare con
l’orlo delle lenzuola.
-
Non ti offendere. – gli sussurrò tenero Brian,
abbassandosi per sfiorargli la
spalla con la testa. Matt gli venne istintivamente incontro.
-
Non mi sono offeso. – borbottò.
-
Ah no? –
-
No. –
-
Mi sembrava. –
-
Ti sembrava male. –
-
Oh, meglio così allora. – ridacchiò
Brian, tornando ad affondare nel suo
cuscino. Spense la sigaretta nel posacenere appoggiato sul comodino e
incrociò
le braccia sul petto.
-
Da bambino ci credevo. – disse, pensoso. – Ma non
fa testo, credevo anche a
Babbo Natale… -
-
Tutto questo è vagamente blasfemo. – disse
Matthew, sprimacciando il cuscino e
appoggiandovisi più comodamente sul fianco. Brian
roteò gli occhi.
-
No, è solo sincero. Non si educa qualcuno alla fede. E il
mio è stato un
lavaggio del cervello, né più né meno.
–
Il
suo sguardo si perse oltre le tende spalancate sul davanzale. Matthew
lo vide
assumere un’espressione concentrata, come se stesse cercando
di mettere insieme
con molta difficoltà diversi pezzi di pensieri.
-
Sì, una volta ci ho creduto. –
sussurrò, le sopracciglia aggrottate, inseguendo
il ricordo. – Per dieci minuti, o qualcosa del genere, ho
creduto che ci fosse
qualcos’altro. –
-
Cosa? –
-
Ah, non lo so. E’ stata una specie di… di
emozione. Una sensazione. Niente
rapimenti estatici, apparizioni divine o cose del genere. –
-
Sarebbe stato troppo semplice. - disse
Matt, accarezzandogli la pancia con studiata lentezza. Brian si accese
un’altra
sigaretta e annuì vigorosamente.
-
Sì, esatto. – Portò un braccio dietro
la testa. – Se un sentimento è vero, non
è mai di semplice comprensione. Come con gli essere umani.
–
-
Raccontami, sono curioso. –
Brian
gli rivolse uno sguardo sornione.
-
Chiamerai la stampa quando mi sarò addormentato? Venderai
tutto questo al
miglior offerente…? – gli domandò,
sarcastico. Matt assunse un’espressione
furba.
-
Ah, sì, certo. Farò un sacco di soldi. Vedo
già i titoli: “Folgorato sulla via
del settimo album, Molko si racconta: Se
tornassi indietro nel tempo farei ancora il chierichetto.
Prosegue a pagina
7”.
Ridacchiarono
sottovoce, stravolti dal sonno. Brian si strofinò gli occhi
con un gesto
infantile.
-
Avevo vent’anni. – cominciò a
raccontare, tranquillo. – Abitavo ancora a casa
di Stefan. Era un bel periodo, nonostante non avessimo un soldo, e mi
ricordo
che stavo uscendo di casa per fare la spesa. L’appartamento
era minuscolo e
stava al sesto piano, in un palazzo senza ascensore. Fu un attimo:
salutai
Stef, mi chiusi la porta alle spalle, inciampai nello zerbino e caddi
con tutto
il mio peso sul corrimano. – Si fermò un istante,
una smorfia incredula sul
viso. – Venni sbalzato oltre e mi aggrappai
all’ultimo alla balaustra, ma
sentivo, sapevo per certo che non
sarebbe
bastato, che sarei caduto giù per sei piani di scale e mi
sarei schiantato a
terra, perché tutto il busto era già sbilanciato
in avanti e… E ho creduto che
sarei morto, perché era solo questione di
gravità. Mi sono sentito
morto; ho pensato che Stefan sarebbe uscito di lì a poco e
avrebbe visto le scale imbrattate di sangue e il mio cadavere accanto
alle pile
di giornali non ritirati, e ho pensato che non era giusto, che non
poteva
finire in un modo così stupido. Ma così non
è stato. – Si voltò verso Matthew,
un sorriso ironico sulla faccia. – Non sono caduto. Sono
tornato indietro, in
qualche modo. Mi sono allontanato di scatto e mi sono appoggiato al
muro,
immobile, per minuti interi, senza respiro, senza avere il coraggio di
muovere
un muscolo. Probabilmente è stato solo un effetto dello
shock, ma… Ho pensato
che qualcuno avesse voluto che continuassi a vivere, che qualcuno mi
avesse
salvato. –
Matthew
cercò il suo sguardo, ma Brian era lontano, gli occhi persi
in qualche luogo
nel quale non poteva raggiungerlo. – Ho pensato che nessuna
fine fosse davvero
inevitabile, neppure quella fine.
Che
c’è sempre speranza per tutto, perché
quel giorno io secondo le leggi fisiche e
forse, chissà, secondo una qualche giustizia sarei dovuto
morire e non sono
morto. –
E
Matt improvvisamente lo vide. In un orrendo flash che non avrebbe mai
voluto
trovarsi davanti agli occhi vide quelle scale, e la pozza di sangue che
macchiava i gradini su cui era precipitato, e poco più in
là il suo corpo
minuto e immobile, avvolto in qualche indumento sempiternamente nero e,
in
qualche modo, lugubremente profetico; vide le braccia aperte,
innaturali e
sinistre, crudelmente fiduciose in una speranza di salvezza che non si
era
attuata, piegate a circondare il suo viso giovane e bianchissimo, e i
capelli
scomposti sulle guance, e gli occhi verdi spalancati e increduli, e la
linea
nera della matita che evidenziava inutilmente uno sguardo che non era
più vivo,
che non avrebbe mai guardato nient’altro che le squallide
piastrelle scheggiate
di un condominio di periferia…
Sentì
il freddo gelido di quelle piastrelle sulla pelle come se fosse stato
lui - e non Brian, non Brian - a giacervi disteso senza
vita e gli afferrò la nuca,
attirandolo a sé con una foga che l’altro non
comprese e che lo lasciò stupito.
E’
vivo, si
disse,
baciandolo con un trasporto che scaturiva da una paura incontrollabile,
è qui con me e non mi
lascerà mai. Nessuna
fine è inevitabile.
Nessuna.
*
-
Dove sei? –
-
Sono in strada. –
-
Stai arrivando, quindi. –
-
No. –
-
Come sarebbe a dire “no”? –
-
Sarebbe a dire no. –
-
Ma avevamo appuntamento per mezz’ora fa,
all’albergo dell’altra… -
-
Lo so. Scusami, ma non riesco a venire. –
-
Perché? E’ successo qualcosa? –
-
No, non è successo niente. Non posso e basta, scusami,
è che ho calcolato male
i tempi. E gli impegni… -
-
Con chi sei? –
-
Sono da solo. E piantala col tono da interrogatorio, è
terribilmente irritante.
–
-
Continuerai a restare solo, stasera? –
-
Matt, ho detto… -
-
Me ne frega un cazzo di quello che hai detto. Dovevamo vederci, tu hai
deciso
all’ultimo che non potevi,
e ora
probabilmente stai andando da qualche altro povero scemo che come me ti
sta
aspettando da almeno mezz’ora. Esigo come minimo sapere chi
è, così, per togliermi
almeno la soddisfazione di avere un altro nome da insultare oltre al
tuo. –
-
“Esigere” non è un verbo che mi
è congeniale, Matt. –
-
Dimmi chi è. –
-
Nessuno. –
-
Dimmi- -
-
Ciao, Matt. –
-
E’ l’ultima volta che mi senti, Brian. Sappilo. Se
metti giù adesso, è finita.
–
-
Bene. Allora è finita. –
-
Non osare… Ah, vaffanculo. –
*
Brian
l’aveva richiamato in continuazione, ma lui, tenendo fede
alla sua promessa,
non gli aveva mai risposto. Pensava davvero che fosse finita, quella
volta;
dopo giorni di impegnativi ragionamenti aveva preso la ponderata
decisione di
vederlo per un ultimo, definitivo incontro al fine di comunicargli la
richiesta
di non farsi più sentire, e magari anche di andare a farsi
fottere – richiesta
questa che, sapeva, lui avrebbe puntualmente rispettato entro
brevissimo tempo.
Gli
aveva dato appuntamento ad un bar, perché contava che il
proprio discorso
sarebbe durato al massimo il tempo di un caffè –
un caffè: non una birra, non
una cena, non un drink, cose che sapeva sarebbero sicuramente
degenerate
nell’estrema unzione di un qualsiasi letto – e
forse, nemmeno così tanto. Cosa
doveva dirgli, in fondo? Solo la parola fine.
Fine
di qualunque assurda, malsana, perversa cosa
ci fosse mai stata fra loro.
Era
così semplice, in fondo. Nessuna cartaccia da firmare.
Nessuna lacrimevole
spartizione di oggetti personali stipati in una fantomatica abitazione
condivisa.
Nemmeno quel leggero rimpianto del sì, in fondo i suoi amici
erano simpatici,
peccato. No, niente di niente.
Rinunciava
solo a lui. Se lo poteva permettere, rifletté, le
sopracciglia aggrottate in
un’espressione concentrata. Le macchine che sfrecciavano
davanti all’incrocio
che avrebbe dovuto attraversare per arrivare al luogo
dell’appuntamento
sembravano non finire mai. Gli davano l’impressione di un
enorme serpente
metallico multicolore che continuava a mangiarsi la coda,
all’infinito. Un
lungo viscido rettile che gli bloccava la via che portava al traguardo
finale.
E
se considero
un traguardo riuscire a scaricare uno stronzo, sono proprio disperato.
Ad
un tratto sembrò che non solo la strada, ma Londra intera si
fosse svuotata di
tutto il suo traffico e li avesse lasciati lì, uno da una
parte e uno
dall’altra, lontani e fuori portata per gli occhi di
entrambi, ma ancora una
volta sui due lati di una stessa medaglia. Matthew alzò lo
sguardo dalle
strisce pedonali, e lo vide, e lo stupore lo inchiodò
all’asfalto.
Lui
e Brian non avevano mai condiviso niente, e questo era un bene, si era
ripetuto
tante volte, perché in quel momento gli rendeva tutto
più facile. Niente.
Tantomeno
il vestiario. Non il vestiario,
per
carità, visto che nessuno dei due aveva voglia di andare in
giro vestito
rispettivamente come un becchino o come uno che si sia messo abiti
talmente
poco azzeccati tra loro da sembrare indossati per l’unica
ragione di aver perso
una scommessa.
Eppure
quel giorno, il giorno in cui sarebbe dovuta finire – almeno
per uno dei due –
erano vestiti uguali. Giacca marrone su maglia nera su pantaloni scuri
su
stivali. Talmente identici da dare l’impressione di averlo
combinato insieme,
per una festa in maschera o chissà cos’altro.
Matthew
sorrise e vide che dall’altra parte della strada anche Brian
sorrideva.
Sembrava una presa in giro.
Fece
passare un verde e a quello successivo si decise infine ad attraversare
la
strada e a raggiungerlo. La situazione era grave, Brian si comportava
come il
gran figlio da puttana che era e nemmeno lui era stato troppo corretto
in più
di un’occasione. Sarebbe stato meglio per entrambi se si
fosse dato un taglio
netto alla cosa, magari deciso di comune accordo, come un divorzio
sofferto ma
giudicato indispensabile.
Perché
Matt sapeva che Brian avrebbe continuato a non rispondergli ancora per
tante,
tante volte, che l’avrebbe deluso e ferito, che
l’avrebbe fatto star male da
cani, che l’avrebbe lasciato continuamente ad aspettare
davanti a ristoranti ed
incroci e pub e Dio solo sa cosa per ore e ore, e che non avrebbe mai
fatto
niente per sforzarsi di cambiare le cose. Sapeva che, obiettivamente
parlando,
lasciandolo perdeva una relazione serena quanto un campo di
concentramento e
riguadagnava quella parte di sé che ora gli pareva
così lontana – la parte di
sé che aveva una dignità.
Ma
poi, mentre gli si avvicinava con le mani in tasca, sul viso una
smorfia di
compassata determinazione e negli occhi una stupida gioia –
perché ora che gli
era a pochi metri riusciva a vedere che anche lui portava i jeans, solo
che
probabilmente i suoi erano di una marca più raffinata della
sua -, lo guardò di
nuovo, e si sentì ricambiare con lo stesso, preciso sguardo
d’intesa, e capì
che quel senso di completezza e di prepotente felicità che
lo colmava ogni
volta che il destino sembrava volerli ricondurre su
quell’infinita scala che
non andava né su né giù e che
rappresentava un nuovo inizio ed una nuova fine
ad ogni loro passo, non poteva essere soffocato da nulla.
Nemmeno
da Brian stesso.
*
-
Dove sei? –
-
Sono in strada. –
-
Mi auguro per te che sia una strada vicina al punto dove dovevamo
incontrarci
tre quarti d’ora fa. –
-
Mi spiace, ma non è così. –
-
Ah ah. Vedo che qualcuno qui vuole rendere la pariglia. –
-
Precisamente. –
-
Sei da solo? –
-
Sì, ma non ho in programma di restarlo per molto. –
-
E come si chiama questo povero disgraziato? –
-
Non mi ricordo. –
-
Vedi di sforzarti di non chiamarlo Brian, quando sarete a letto.
–
-
Ti prometto che ci starò attento. -
-
Che stronzo. –
-
Già, vero? E’ divertente essere stronzo, ora
capisco perché ti piace così tanto
esserlo con me. E’ una bella sensazione. –
-
Tornerai strisciando. –
-
Ciao, Brian. –
-
Tornerai strisciando, ma non servirà a nulla,
perché io… Ah, ‘fanculo. –
Nessuno
di noi
due ha mai avuto la certezza che l’altro ci avesse davvero
tradito, nemmeno una
volta.
A
volte non
capisco se tutto questo sia un gioco o meno, e se lo è, non
riesco a rendermi
conto di quanto serie e vincolanti siano le sue regole. So che
è impossibile
che finisca, però; né io né Matt
avremmo
nessun interesse a farlo – perché se
è davvero un gioco, non è la
realtà, e tutto è meglio della realtà.
Nella realtà niente va mai secondo le
regole. Nella realtà non c’è giustizia.
Nella
realtà,
qualsiasi scala ti conduce in qualche posto, e spesso questo posto non
vale
tutta la fatica spesa.
La
scala di
Penrose è costruita su quattro angoli retti che rendono
impossibile trovarne la
fine.
Nessuna
destinazione, nessun punto d’arrivo. Solo un paradossale
saliscendi che,
incredibilmente, rende possibile incontrarsi all’infinito.
Non si può
sbagliare, non si può rimanere
delusi,
non si può pensare
che non ne sia valsa
la pena. Semplicemente, non ha senso.
Come
la mia
storia con Matt.
Che
non è vera.
Non è reale. Non può esistere, in questo mondo.
Funziona
unicamente
grazie ad un’illusione – la mia.
E
non mi
importa.
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