.
.
.
.
.
.
Seize The
Day - Avenged Sevenfold
Capitano
giorni, a volte, che ti
cambiano la vita.
Sono
giorni strani, sono ore in
cui non ti rendi davvero conto che qualcosa, intorno a te, è
cambiato.
A
me è successo: e non è stato un
cambiamento piccolo, insignificante, tranquillo.
È
stato un uragano, che è entrato
nella mia vita e ha mandato tutto all’aria.
E si è anche divertita.
.
.
Me
lo ricordo bene, quel locale.
Non
troppa gente, musica
eccellente e luci al neon: mi aveva stupito la scelta di Will,
solitamente
incline ai bagordi e alle feste sfrenate in discoteche rumorose e
ammassate di gente ubriaca e disordinata. Dopo
quattro mesi dall’ultima
volta che ci eravamo visti mi sarei aspettato che mi trascinasse
proprio ad
uno dei
suoi festini – non che mi dispiacesse l’idea ma,
dopo dieci ore di volo, mi sentivo abbastanza esausto e di certo per
nulla incline ad unirmi a quel biondo dissoluto per una notte brava di
cui, probabilmente, avrei finito per ricordare poco o nulla.
Guardandomi
intorno, appena entrato, non trovai
William: la cosa non mi sorprese, dopotutto, perché uno dei
dettagli caratteristici di Will è sempre stato quello di
essere perennemente in ritardo.
Decisi di sedermi e, per ammazzare il tempo, di ordinare
qualcosa da bere ad una delle belle ragazze che lavoravano al bancone.
Quel
posto era pieno, pieno
zeppo di bellezze esotiche, rare, eleganti e raffinate come odalische.
Avevo
scorto due giovani che
quasi sicuramente erano brasiliane, un’altra che chiaramente
proveniva dal
Mediterraneo; una bellissima gitana dagli occhi verdi, tre splendide
ragazze
orientali.
I
gusti di Will erano solo che
migliorati, bisognava dirlo.
Poi,
però, una di loro mi passò
accanto.
Me
la ricordo bene, con i tacchi
vertiginosi che indossava era alta più o meno quanto me; i
capelli erano di un
biondo scuro, la carnagione pallida resa ancora più terrea
dalle luci al neon, i tratti del volto stranamente taglienti.
Pensai fosse londinese, ma la pronuncia delle parole che rivolse alla
barista fu ben diversa da
quella
che mi aspettavo: chiese un Brave Bull alla barista con uno spiccato
accento
americano che m’incuriosì più di tutto
il resto.
Indossava
un abito rosso che le lasciava scoperta la schiena fin sotto le
scapole, e rosso era anche il fermaglio che le tratteneva i corti
capelli riccioluti sulla nuca: non era niente di particolare... era
carina, sì, ma io ero abituato a frequentare le donne
più belle del jetset
e, di certo, non fu il suo aspetto ad impressionarmi.
Non
so perché mi spinsi fino a
quel bancone: forse per la mia solita curiosità, forse per
capire meglio quell'andatura spedita e tutt'altro che femminile, forse
per un istinto inconscio
che non riuscii
in nessun modo a reprimere.
Mi
accostai a lei, dipingendomi in faccia quel sorriso accattivante e
misterioso che
già tante donne
avevano dimostrato di apprezzare.
Dopotutto,
sono Ben Barnes. Il
mio fascino è appurato e confermato.
-Ehi,
bella, io sono Ben, tu
sei…?-
Uno
sguardo di sufficienza, due occhi blu tutt'altro che amichevoli.
-Fuori
dalla tua portata,
tesoro.-
Ci
rimasi male. Quanto, quanto ci rimasi male lo so soltanto
io.
Aveva
una
voce secca, dura, e l’accento
metallico risuonava come una lama fra le sillabe; ma fu la sua
occhiataccia a lasciarmi di stucco, folgorato come nel più
insipido dei romanzetti rosa da qualcosa che non seppi identificare.
C’era
da perdersi in quei due
baratri. C’era da affogarci e non riemergerne mai
più.
-Ray!
Ma ti pare il modo di
rivolgerti ad un cliente?- la barista, dietro al bancone, si rivolse
alla
bionda e la guardò con aria severa. Io, invece, continuai a
guardarla, boccheggiando, con un misto di
sorpresa, orgoglio maschile irreversibilmente ferito e
curiosità.
Ad
un’occhiata
distratta chiunque l’avrebbe scambiata per una qualunque,
per una ragazza dal
viso pulito e, probabilmente, senza trucco non avebbe dimostrato
più di diciott'anni. Eppure…eppure
c’era un gelo tale,
in quelle iridi, da restarci di sasso.
In
molti si sarebbero spaventati dinanzi ad una donna del genere,
perché la maggior parte degli uomini tende a preferire una
compagnia più facile, meno mordace; io, invece, da
compulsivo amante della competizione, decisi all'istante che quella
sarebbe stata la mia prossima sfida.
-Non
è un cliente. È un amico di
Will.-
Ray.
Mi
ricordava qualcosa, quel nome,
ma non riuscivo a rammentare chi lo avesse pronunciato: ero troppo
impegnato a
macerarmi nel mio orgoglio annichilito per accorgermi subito
dell’allusione al
mio amico.
-Come
ti pare.- soltanto quando
la barista si allontanò, altezzosa, collegai le due cose.
-Tu
conosci__- cominciai ma, prima
di riuscire a finire la mia domanda, ecco arrivare la conferma in carne
e
ossa
della mia domanda.
-Ben!-
mi voltai di scatto e
così fece anche la bionda: là, sulla soglia del
locale,
c’era il mio migliore amico,
altrimenti conosciuto come William Peter Moseley.
Sorrisi,
nel rivederlo. Non
glielo avrei confessato nemmeno sotto tortura, ma… mi era
mancato, durante gli ultimi
mesi. Will è una
presenza che difficilmente non manca una volta entrato a far parte
della tua
vita.
Mi
sorrise a sua volta, allegro come sempre: aveva i capelli
biondi più lunghi di come li rammentavo,
l’immancabile borsalino calato sul
capo ed in faccia l'immancabile espressione solare che lo avrebbe reso
caro a chiunque.
Ray,
accanto a me, si alzò in piedi: gli occhi freddi e cupi si
erano spostati sulla figura del mio
amico
ed un lampo di calore – e un
sorriso
lieve, su quelle labbra – li aveva illuminati per
un istante.
E
fu proprio a lei che Will si
rivolse, non appena avvicinatosi e rivolto un saluto allegro anche alla
barista
che, da quanto potevo capire, conosceva.
-Ray,
non trovavo da
parcheggiare, mi dispiace.- esordì, mentre gli occhi celesti
si
spostavano sulla
ragazza, dolci e amichevoli come non mai. Ecco svelato il mistero:
grazie a lui
Ray mi conosceva già, e io avevo appena fatto una delle
più colossali figuracce
nella storia degli abbordaggi.
Lei
annuì, rivolgendogli
soltanto un fugace sguardo molto diverso dalla stoccata terribile che
era
toccata al sottoscritto.
-Toglimi
una curiosità, i tuoi
amici sono tutti imbecilli come il principino, qui?- appunto. Ecco come
smontare definitivamente il sottoscritto in due semplici, crudeli
proposizioni.
Will
mi rivolse un’occhiata
stupita mentre il suo sguardo si riempiva di una luce che ben
conoscevo e,
altrettanto bene, temevo: lo vidi diventare tutto rosso in risposta
alla
mia
occhiataccia, che gli intimava silenziosamente di non sfottere –
oh, prima
o poi
lo avrei strangolato. Poco ma sicuro.
-Vedo
che avete già fatto
conoscenza.- commentò, evitando di scoppiare a ridere ma
aprendosi in un ghigno
soddisfatto che mi sembrò più canzonatorio di
molto altro. -Ben,
lei è Ray, la mia
coinquilina e migliore amica. Te ne ho parlato.-
Sì,
me ne aveva parlato quattro
mesi prima, appena tornato da un viaggio negli Stati Uniti passato con
Angel.
Ne ero
stato felice, ma l’esistenza di questa misteriosa ragazza che
si era portato
dietro dall’America era, sinceramente, scivolata in fondo
alla mia lista di
pensieri.
Will
aveva Angel al suo fianco,
si erano conosciuti sul set di Narnia e lei ancora non lo aveva mandato
a quel
paese (era qualcosa che aveva dello straordinario, considerato il fatto
che
Angel è una donna intelligente e Will un coglione patentato).
Tornato
a Londra con lei, dove
Angel viveva con la sua famiglia e frequentava il primo anno del
college,
Will l’aveva trascinata in un viaggio negli USA,
dov’era stato prima di Prince
Caspian, ed erano tornati con una persona che era diventata la
coinquilina di
William: Ray.
L’avevo
immaginata come una
ragazza allegra, leggera, incline allo stile di vita dissoluto delle
ragazze
americane… ma
mi dovetti ricredere quella
sera stessa, dopo essermi ritrovato davanti quei due occhi di ghiaccio.
-Sì…beh,
piacere.- era alquanto
inutile cercare di rimediare alla figuraccia appena fatta, vero?
...sì,
decisamente: lo
sguardo di sufficienza che Ray
mi rivolse bastò a confermare questa mia ipotesi.
-Tutto
tuo.- mormorò infatti,
atona, recuperando una borsetta appena più scura del vestito
che indossava e
sfilandone una sigaretta che, con un gesto secco, accese e si
portò alle labbra sottili. Non
aveva
le unghie lunghe, smaltate o curate, anzi: erano corte e appena
rovinate, così come la pelle delle sue mani che, nonostante
avessero una bella forma, erano segnate da diverse piccole cicatrici
che non riuscii, lì per lì, a spiegarmi.
C’era
qualcosa che non quadrava,
in quella ragazza.
-Ray!-
una voce fece sussultare
tutti e tre, interrompendo i discorsi e le mie elucubrazioni –
e, avendo gli
occhi
fissi su Ray, la vidi incupirsi ed impallidire appena, scambiare
un’occhiata
scura con un William improvvisamente irato.
-Sì,
Jòs?-
Non
mi sfuggì la nota
stanca della sua voce quando, stancamente, si voltò per
fronteggiare il nuovo
venuto, accavallando le gambe velate dai collant.
-È
arrivato Carter, sai che
la tua graziosa compagnia è il motivo per cui viene qui due
volte a settimana.-
L’uomo
che aveva appena parlato
era
inequivocabilmente omosessuale, ben vestito e irritante.
Vidi Ray serrare le mani chiare sul bordo del vestito,
mentre un’angoscia ben vestita si disegnava in quei
terribilmente espressivi
occhi blu.
-Cerca
sempre di allungare le
mani, Jòs.- mormorò, con una voce molto
più mite di quanto fosse stata quella rivolta
a me. Mi voltai verso Will e lo vidi scuotere appena la testa, con gli
occhi
inchiodati con astio su quel Jòs.
Non
mi piacque l’espressione di
Will. Non mi piacque il disagio e l’angoscia di Ray.
-E
lasciagliele allungare, purché
ti paghi.-
Bastò
quella frase per farmi
capire.
Che
Ray lavorasse in quel luogo lo avevo capito anche da solo ma,
occupato com’ero a
studiare quella
ragazza, non avevo
compreso di che genere di lavoro si
trattasse esattamente: le ragazze in quel luogo erano accompagnatrici,
intrattenitrici –
alcune servivano al banco, altre servivano ai tavoli, ma la maggior
parte era seduta in compagnia
dei clienti, con una lascivia che pareva anche troppo disponibile.
-Lei
non sta qui per fare la
puttana, Jòs.- fu Will,
con una
veemenza che mi sorprese, ad intervenire, mettendosi letteralmente in
mezzo fra
questo Jòs e Ray.
-Tu
non dovresti nemmeno stare
qui, Moseley.- ribatté il tizio, scoccandogli
un’occhiataccia sotto i miei
occhi allibiti. Tutta quella situazione aveva del surreale…
Vidi
il mio amico in procinto di
ribattere ma fu Ray ad alzarsi, a posare una mano sul suo braccio.
Improvvisamente quel vestito rosso non mi sembrava più tanto
sensuale, quei
tacchi alti non mi parevano più tanto eleganti: mi davano
l’idea di una gabbia –
la stessa gabbia che scorgevo negli occhi stanchi di Ray.
E
fu improvvisa la mazzata di dispiacere che mi colpì in
quell’istante.
Non
era piacevole vedere una così
bella creatura, con tanto negli occhi, in
trappola. Non era giusto, non mi andava giù, non
era qualcosa che avrei
accettato. Will avrebbe sicuramente riso nel sapere quello che mi stava
passando
per la
testa: "Hai sempre la mania di fare
l’eroe"
era uno dei suoi commenti più frequenti nei riguardi del
sottoscritto.
Fu
per questo che mi schiarii
sonoramente la voce, attirando su di me l’attenzione di tutti
e tre: di Will,
di quel tale Jòs… e di Ray, che mi guardava con
qualcosa di finalmente diverso
dall’indifferenza.
-Posso
parlarle in privato,
mister?- se c’è una cosa di cui vado fiero, in me
stesso,
è la mia faccia tosta inglese.
Soltanto noi siamo in grado di mostrare quella faccia di bronzo
particolare,
accattivante, che raramente ottiene un no
in risposta.
-Ma
certo.- mi rispose l’ometto,
forse riconoscendomi, intuendo dalla mia occhiata che avevo in mente
qualcosa
che gli sarebbe quasi certamente andato a genio.
Fu
una soddisfazione, dopotutto,
allontanarmi da Ray e da Will con la consapevolezza dello sguardo
incuriosito e cupo di quella ragazza inchiodato sulla mia schiena...
anzi, a dirla tutta, fu un balsamo per quel mio amor proprio che
proprio lei aveva appena maciullato.
Seguii
quel Jòs fino al bancone
più lontano, accorgendomi di quanto il suo passo affrettato
riflettesse esattamente il suo aspetto viscido e lezioso.
-Allora
mister, cosa…- iniziò, ma
lo interruppi in un modo che quasi tutti riescono a comprendere
immediatamente:
sotto al suo naso tozzo sventolavano improvvisamente due biglietti da
cento
sterline, trattenuti dalle mie dita sottili.
-Quella
ragazza starà con me,
stasera.- affermai, deciso, con la voce suadente di chi vuole
convincere
qualcuno a
fare ciò che desidera. E sorrisi appena, soddisfatto, quando
vidi Jòs seguire
come ipnotizzato il movimento lieve delle banconote.
-Non
c’è problema, mister.- mi
rispose, trasognato, e non potei fare a meno di disgustarmi per
quell’atteggiamento viscido e amorale che chissà
come mai aveva quel potere su Ray.
-E
nessun altro.- gli ricordai,
alzando un sopracciglio.
-Assolutamente
nessuno.- che
schifo.
Gli
lasciai i soldi e mi
allontanai in fretta: ho sempre odiato le persone come quel
Jòs e sapere che
un’amica di Will, una ragazza giovane e carina e
probabilmente intelligente, era costretta a
sottostarvi… beh, era orribile.
Tornai
da lei e da Will con un
sogghigno soddisfatto che il mio amico conosceva decisamente
bene –
Ray
invece non aveva ancora imparato a capire quanto io non fossi lo
squinternato maniaco che dovevo esserle sembrato all'inizio:
mi guardava, spaesata, senza comprendere che cosa avessi
appena
fatto.
-Che
cosa…- cominciò infatti, confusa, mordendosi le
labbra e arrotolandosi nervosamente una ciocca di capelli fra le dita.
Scossi
appena la mano, stringendomi nelle spalle con fare noncurante.
-Non
andarci, da quel tipo.
Stasera avrai l’onore di passare tutto il tempo col
sottoscritto, e spero non ti
dispiaccia troppo.-
Giuro.
Prima di lei non mi sono mai comportato così. Non sono mai
stato il tipo arrogante e saccente che probabilmente sembravo in quel
momento.
Probabilmente
anche Ray lo capì, perché vidi un accenno di
sorriso apparire sulle sue labbra e il suo sguardo rischiararsi,
sollevato.
-Quasi
quasi avrei preferito Carter.-
replicò, ma non c'era il minimo segno di
sarcasmo
nella sua voce e, per la prima volta, mi rivolse un'espressione gentile
e radiosa che mi lasciò (di nuovo) senza parole.
È
bella Ray, sono belli i suoi
occhi, ed era bello quel sorriso che leggevo in quel
celeste
rischiaratosi come il cielo dopo un temporale.
Rimanemmo
a guardarci per dei
lunghi istanti che penso non dimenticherò mai, studiandoci a
vicenda come due
gatti curiosi e diffidenti al tempo stesso: Ray era cauta, cauta come
se fosse
sempre sul filo di un rasoio... ma c’era una
curiosità troppo forte nei suoi
occhi, una curiosità tutta per me,
che la spingeva a sostenere il mio sguardo e a non lasciare che quel
contatto
si spezzasse.
E
realizzai solo in quell’istante
che non volevo si spezzasse.
Ray
aveva destato la mia, di
attenzione: volevo assolutamente
avvicinarmi a lei, conoscerla meglio, capirla,
perché fino a quel momento avevo solamente fatto
supposizioni sbagliate e io odio, detesto
sbagliare.
-Bene…
vedo
che sono di troppo,
quindi me ne vado!-
Ray
si voltò di scatto, arrossendo furiosamente.
-Scusa,
e io come torno a casa?-
gli chiese, allibita.
Will,
che conosceva bene me e
probabilmente anche lei, si esibì in uno dei suoi migliori
sorrisi smaglianti,
accennando a me.
-Ti
accompagnerà il prode
cavaliere, qui. Io ho appuntamento con Angie.-
Ora
che ci penso, se non
fosse
stato per Will probabilmente tutto quello che è successo con
Ray non sarebbe
mai avvenuto. Mi tocca anche ringraziarlo, accidenti.
-Ma
dillo prima!- sbottò Ray, avvampando ancor di più
e fulminandolo con lo
sguardo.
-Sono
sicuro che ti troverai
benissimo comunque. Ben è un galantuomo, non
è vero?- si rivolse a me, e quelle ultime tre parole mi
colpirono proprio per la serietà che riuscii ad udire al di
là della sua perenne ironia.
-Verissimo.-
annuii,
rivolgendogli appena un cenno d’assenso che comprese
immediatamente: fra me e lui, come penso sia anche fra molti amici
uomini, non servivano troppe parole per capire i sottintesi ed i
significati delle nostre azioni. Will voleva solo essere sicuro che la
sua amica fosse al sicuro, dopotutto...
-Se
avete finito con i vostri
scambi di virilità vorrei ricordarvi che io ho tirato di
spada per lavoro e che sono cresciuta in una periferia texana piena di
delinquenti, quindi direi di sapermi difendere benissimo
da sola senza che voi due dobbiate farmi la pipì addosso per
marcare il territorio.-
Non
potei far altro che rimanere a bocca aperta, sconvolto e pieno
d'ammirazione per quella sortita del tutto inattesa: ora sì che
potevo scorgere il suo retaggio americano!
Will,
sicuramente più abituato di me a quelle uscite brusche ed un
po' scurrili, scoppiò a ridere, avvicinandosi a lei e
soffiandole un bacio sulla fronte.
-Lo
dimentico sempre.- le disse,
con una dolcezza nella voce che intenerì anche
me. Li
vidi
sussurrarsi qualcosa e, per la prima volta, mi resi conto di quanto
bene
dovessero volersi: avevo visto William comportarsi così
soltanto con una
persona, e quella persona era Georgie. -Ben,
trattamela bene.- mi
avvertì, con un sorriso minaccioso, dandomi una pacca sulla
spalla mentre
passava accanto a me, diretto all'uscita.
Ma
dico io. Ora facevo anche la
figura del maniaco sessuale.
Sospirai,
esasperato
dall’atteggiamento iperprotettivo di William ma senza davvero
nessun buon motivo per prendermela: era sempre
stato così con le persone a
cui teneva sul serio, lo sapevo bene e, proprio per questo, avrei fatto
in modo che Ray passasse una serata piacevole e al sicuro dalle insidie
che quel luogo poteva nascondere.
Tornai
a guardarla e,
istintivamente, sorrisi: sarebbe stata una serata decisamente
interessante.
.
§
.
La
stavo aspettando fuori dal
camerino dove le ragazze si cambiavano, osservando i tecnici e i barmen
che
spegnevano le luci, che riordinavano e rassettavano la sala. Io
sorridevo, divertito, senza riuscire a smettere di pensare a quelle due
piacevolissime e sorprendenti ore appena passate insieme a Ray.
Si
era dimostrata una
compagnia formidabile, una volta convinta a parlare. Quella ragazza
era
americana di nome e di fatto e, discorrendo con lei degli argomenti
più disparati – aveva dimostrato di possedere,
oltre ad un turpiloquio sorprendentemente colorito e fantasioso, anche
una conoscenza profonda ed appassionata della letteratura, della
cinematografia e della musica – avevo compreso di avere
davanti una persona che amava la conoscenza almeno quanto me.
Avrei
imparato presto a trovare
anche la dolcezza, la tenerezza ed il suo essere donna in quel modo
tanto puro
e
selvaggio, in quell'americana dagli occhi vividi; ma, in
quelle ore, le caratteristiche
che mi avevano colpito di lei erano state la sua arguzia, il
suo cinismo ed il sottile, tagliente
sarcasmo con cui quella giovane donna pareva affrontare il mondo.
Ray
non era una persona felice: lo
si capiva dal suo volto
prematuramente levigato, dagli occhi che guardavano il mondo
attraverso un velo di cupezza e di sfiducia.
Ed
aveva soltanto diciott’anni.
Era
stato questo a sconvolgermi, più di
tutto il resto.
Aveva
dieci anni meno di me… ma, da
come parlava, dal suo atteggiamento, dalla freddezza con cui trattava
la vita,
gliene avrei dati molti di più.
-Andiamo?-
Sobbalzai
quando, alle
mie spalle, risuonò la sua voce, strappandomi dalle mie
elucubrazioni. Non
l’avevo sentita arrivare: i
suoi piedi non avevano provocato il minimo suono sul pavimento, al
contrario di
quanto succedeva, inevitabilmente, quando indossava i tacchi. Mi
voltai per salutarla ma, e detesto ammetterlo, per la terza volta in
quella serata riuscì a lasciarmi completamente a bocca
asciutta.
La
ragazza infelice e costretta
in una gabbia? Scomparsa.
Indossava
un abitino nero, adesso, aderente
alle sue forme ben proporzionate, con le maniche lunghe che terminavano
in uno sbuffo, un paio di fuseaux
chiari ed una coppia di anfibi dall'aspetto estremamente pesante e
minaccioso.
Quella
non era la giovane donna infelice con cui avevo passato la serata, no:
quella era la spigliata americana appassionata di rock'n'roll che si
era animata tantissimo a raccontarmi di come avesse sempre voluto
imparare a suonare la batteria come Jimmy Sullivan e che mi aveva
spiegato pazientemente i fondamenti delle religioni pagane precristiane.
-Ehi?-
mi chiamò,
incuriosita dalla mia espressione ed in effetti dovevo essere
alquanto
buffo
mentre la fissavo, stralunato, con occhi sgranati e la bocca lievemente
schiusa.
-Sei…
stai
molto bene.- balbettai,
cercando di ritrovare un minimo di decoro in quella situazione
quantomai
imbarazzante.
Il
rossore dilagò nuovamente sulle sue guance e lei distolse lo
sguardo, torcendosi contemporaneamente le mani.
-Sono
vestiti normalissimi.-
mormorò, in un tono di falsa freddezza che non mi convinse
minimamente. Mi superò in fretta, ed io la
seguii fino al parcheggio,
senza davvero riuscire a distogliere lo sguardo dai riccioli biondi che
spiccavano contro il nero dell’abito – e da quando, di una donna,
notavo il modo in cui i capelli si sposavano tanto bene con il colore
dei suoi vestiti?
-Qual
è la tua macchina?- mi
chiese, tradendo un nervosismo nella voce che mi sorprese: non ero
l’unico a
sentirsi sul filo del rasoio, allora…
-Quella.-
le dissi, indicando il
mio personalissimo orgoglio parcheggiato a pochi metri
dall’entrata.
-Cazzo!-
mi voltai a guardarla,
sorpreso. Ray si era fermata lì dov’era,
con in volto l’espressione allibita che,
per un solo attimo, mi ricordò la mia nel vederla dopo
essersi
cambiata. -Cioè,
quella è vera?-
Sorrisi,
divertito.-Fino
a prova contraria…-
commentai, affiancandomi a lei e posando una mano sulla sua schiena.
Era troppo
occupata a rimirare la mia macchina, un piccolo sfizio che mi ero tolto
con i primi
guadagni
seri, per tranciarmi di netto quella mano troppo audace.
-No,
vuoi dirmi che tu davvero ti
sei comprato una Mercedes SLK 350?- mi chiese, sempre più
ammirata, alzando lo sguardo vivido su di me.
-Ti
piacciono le auto?- le
chiesi, compiaciuto. La ragazza che avevo visto in
quel
locale non era niente in confronto alla giovane donna che adesso avevo
al
fianco –
e non avevo dubbi su quale fosse la più vera,
e su quale preferissi io.
La
donna in tacchi alti dopo un
po’ stanca, ne so qualcosa. Tamsin era proprio
così: la
nostra brevissima storia finì dopo non più di un
paio di mesi, quando mi resi conto
che non era una
modella dallo sguardo vuoto ciò che cercavo.
La
donna in anfibi, invece, quella
donna in anfibi… beh, nascondeva
tante di quelle sorprese da riuscire a
non stancarmi mai.
-Preferisco
le moto. 136 cavalli?- mi
chiese con la voce che tremava appena, avvicinandosi con un timore
quasi
reverenziale alla Mercedes.
-Esatto.-
risposi, e non riuscii ad evitarmi un sorrisetto.
Ero
particolarmente orgoglioso di quell’auto, sì.
-È
un mostro.- commentò,
sfiorando con devozione la carrozzeria nera e lucida del
tettuccio.
Sorrisi
di nuovo, sornione,
accostandomi allo sportello del passeggero con tutta la galanteria di
cui ero
capace.
Ero
un coglione? Ero un coglione.
Per
fortuna, e lo ripeto PER
FORTUNA, non c’era Will a prendermi per il culo.
-Prego.-
le feci, e fu l’ennesima
soddisfazione vederla sgranare gli occhi e diventare scarlatta per
l'ennesima volta, presa in contropiede.
C’era
un piacere, nel
sorprenderla, che presto avrei capito essere terribilmente seducente.
-Grazie.-
mormorò mentre saliva in
macchina, torcendosi le mani gelide. La
raggiunsi dopo pochi istanti,
facendo il giro dell’auto e salendo alla sua destra, al posto
del guidatore.
-Anche di stasera. E scusa per la rispostaccia, non sono mai di
buonumore in
quel posto…- mormorò lei dopo un istante,
talmente piano che quasi non riuscii
ad udirla oltre il rombo del motore appena acceso.
Le
sorrisi, stavolta con
dolcezza.
-Non
è il primo due di picche che
prendo e non sarà nemmeno l’ultimo.- la
rassicurai, in un tono molto più
adulto di quanto non fosse mai stato in quelle ore. Improvvisamente Ray
mi
pareva piccola e fragile, con gli occhi chiari che si spostavano sul
finestrino, di
nuovo cupi, di nuovo lontani.
-Non
ci credo.- mormorò, con voce
assente e lievemente malinconica, guardando le goccioline di pioggia
che
cominciavano ad imperlare i vetri.
-Oh,
invece sì.- risposi; una
risposta inutile, perché dopo un attimo il silenzio
calò nell’abitacolo della mia
auto, ma l’attenzione alla guida non mi distolse dal suo
volto
repentinamente
distante, freddo.
Ricordava.
Ricordava
e soffriva.
C’era
qualcosa in lei, qualcosa
di grande e doloroso, che la divideva dal resto del mondo come una
fredda
barriera di ghiaccio inspessita dal dolore: una
barriera che mi spaventava,
una barriera che avrei tanto voluto abbattere.
-Perché
lavori in quel posto,
Ray?- le chiesi, di getto, senza nemmeno rendermene conto. La vidi
sussultare,
ma non si voltò a guardarmi; abbassò lo sguardo,
con vergogna, continuando a torturarsi le
lunghe dita sul grembo.
-Perché…-
esitò, su quella
risposta, prima di scuotere la testa. -Beh, è una storia
lunga.- mi liquidò
e frettolosamente
recuperò il suo telefonino, spingendo qualche tasto e
facendo partire una
canzone, probabilmente per distrarmi da quella domanda, o per
dimenticare lei
stessa.
Seize
the day, or die
regretting the time you lost, it’s empty and cold without you
here, too many
people to ache over…
La
sentii sussurrare le parole di
quella canzone che conoscevo solo di vista, di un gruppo metal
parecchio famoso
negli Stati Uniti.
C’era
una malinconia, in quella
voce e in quella canzone, che mi strinse il cuore.
-Canti
bene.- mormorai, mentre le
note di quella melodia struggente di chitarra elettrica e di batteria
riempiva
l’abitacolo, mischiandosi al ticchettio della pioggia
sull’auto. Le luci della
notte parevano sbiadite, al di là dei finestrini; tutto
pareva sfocato, tranne
Ray.
-Ho
smesso molto tempo fa… come ho
smesso di recitare.- mi voltai a guardarla, sorpreso. Qualcosa in lei
mi aveva
suggerito che fosse un’attrice: il modo di porsi, di
atteggiarsi,
l’espressività del suo volto e dei suoi
occhi… ma non stava recitando adesso, lo sapevo bene. Sono
un attore anch’io, e so
riconoscere le emozioni reali nello sguardo di una persona.
-Recitavi?-
le chiesi, con
dolcezza, sfiorandole appena la mano bianca con la mia. Era
così fredda… provai
per un istante il desiderio di riscaldarla, di portar via quel gelo
dalla sua
pelle.
-In
teatro.- mi rispose, e la
sentii rabbrividire sotto il mio tocco accennato.
Parcheggiai
l’auto sotto casa di
Will pochi minuti dopo, ma
Ray non parve aver
intenzione di
scendere né
io di volere che lei se ne andasse: la sua pelle gelida era
così soffice, così
bianca, che mi persi in quel tocco che improvvisamente pareva molto
più intimo
di qualunque altro.
La
canzone finì dopo qualche
attimo, lasciando di nuovo il silenzio, fra noi: un
silenzio diverso dagli altri,
un silenzio elettrico che pareva scintillare pericolosamente fra lei e
me.
Toccarla
era stato un errore… Ray
bruciava come il ghiaccio, e quel gelo mi avrebbe trascinato fino a
limiti che
forse non avrei dovuto infrangere.
Accarezzai
con dolcezza le linee
sottili del suo palmo, seguendo con gli occhi il reticolo bluastro
delle vene
che si annodavano sul polso.
-Sei
così bianca…- mormorai, e
nemmeno mi accorsi di essermi impercettibilmente avvicinato a lei
– oppure era
lei ad essersi accostata a me?
Alzai
gli occhi, trovando il suo
viso candido terribilmente vicino a me, quei due pozzi di tempesta a
poche
manciate di centimetri dai miei.
Mi
stava guardando, Ray, mi stava
osservando con uno sguardo tagliente ed impaurito che avrebbe
intimorito
chiunque. Pareva
lo sguardo di un felino in
gabbia, maltrattato a sangue più e più volte, che
temeva chiunque si
avvicinasse per paura di soffrire ancora – pareva
un gatto, quella bambola
di porcellana.
Avrei
passato secoli a guardarla,
cercando di carpire ogni pagliuzza che imperversava nelle sue iridi:
c’era
l’orgoglio di non voler abbassare lo sguardo, c’era
un terrore che aumentava ad
ogni centimetro che spariva fra il suo volto ed il mio, c’era
una luce ben
diversa che mi attirava come una musica sensuale attira un serpente.
C’era
tutto, in quei due sprazzi
d’oceano.
E volevo esserci anch’io.
La
guardai socchiudere gli occhi quando mi accostai a lei, e mi inebriai
della sensazione incredibile che mi trasmise il tocco del suo respiro
sulla bocca.
Non
ebbi fretta nello sfiorare
quelle labbra carnose che parevano aspettare soltanto me. Le toccai
appena,
con solo un lieve accenno di bacio, imponendomi tutta la calma che
possedevo per
non esagerare... ma il desiderio di scoprire se anche la sua bocca
fosse
tanto
gelida imperversava dentro di me, togliendomi il fiato.
Mi
allontanai quasi immediatamente, sconvolto dalla sensazione bruciante
che mi avevano impresso le sue labbra nella carne, ma il richiamo di
quel bacio agognato fu più forte del buonsenso.
Ray
inclinò il volto quando mi accostai di nuovo alla sua bocca,
cancellando gli
ultimi sospiri che dividevano le sue labbra dalle mie.
Non
credo che dimenticherò mai quel nostro primo, vero bacio.
Trovai
la sua lingua e la coinvolsi senza fretta, senza travolgerla, lasciando
che le nostre bocche trovassero il ritmo giusto per allacciarsi ed
esplorarsi a vicenda. Lasciai
scivolare le dita fra
quei riccioli, incredibilmente morbidi,
ma ero
troppo concentrato su quel bacio per accorgermene, per
accorgermi persino del battito forsennato del mio cuore e del suo.
Era
buona, Ray. Pareva dare
dipendenza
perché sentivo di non
riuscire a stancarmene, di desiderarne sempre di più.
Lei
rispondeva con lo stesso
trasporto che sentivo ardere dentro di me, facendosi inseguire e
cercandomi subito dopo. Appoggiò le mani gelide sulla mia
gola e quel
contatto mi
diede alla
testa, più di quanto fosse lecito.
Andava
tutto bene.
Andava.
Improvvisamente,
però... la sentii
sussultare, e in un istante scostarsi, bruscamente, da me.
-Io…
io
vado. Will sarà già a
casa.- si voltò, senza guardarmi, ma riuscii ad intravedere
le guance rosse e gli occhi
che brillavano
come stelle nel buio mentre recuperava la borsa di pelle dai suoi piedi.
Non
riuscii a dire nulla, in
quell’istante: quelle labbra, quel sapore… scosso,
turbato, stravolto, non
riuscii a fare altro che mormorare un flebile
“okay” e guardarla scivolare
fuori dalla mia auto, delicata come un gatto.
Era
bella, maledizione. Era
intelligente, era misteriosa, aveva un profumo così
buono… e quel sorriso
meraviglioso, che speravo di poter rivedere.
E
quegli occhi. Quegli occhi.
.
.
.
.
.
.
.
.
My Space:
Allora, eccomi qua.
Sì, sono pazza, ho
iniziato un'altra fanfiction; ma c'è un motivo preciso se ho
preso l'impegno di scriverla (sarà due o tre capitoli, non
di più ^.^), ed è...
Per ringraziarvi.
Per ringraziarvi tutti quanti,
dal primo all'ultimo delle centouno persone che mi hanno inserita fra
gli autori preferiti.
Mi ero ripromessa di scrivere
qualcosa in vostro onore, quindi eccomi qui. Questa è tutta
per voi, tutta per le centouno anime che mi seguono da ormai quasi tre
anni.
Ecco, questa fanfiction che
roba è?
E' il "come è
iniziato" fra la mia Ray e Ben; è un pò un misto
di tanti generi diversi, c'è la mia vena comica,
c'è una parte di tristezza, c'è amore.
C'è tutto, ogni sfaccettatura di me.
Ve la meritate.
Love you
all, B.