Questa
storia ha partecipato al contest Proud
or Ashamed of begin a Black indetto da vogue,
classificandosi al Quattordicesimo posto.
Nonostante la posizione in classifica, sono ugualmente contenta, visto
che il giudizio di vogue (che ringrazio infinitamente) è
stato tutt'altro che negativo. Condivido assolutamente il giudizio, in
tutto e per tutto, in particolar modo il frangente riguardante
l'attinenza della frase; ci sta proprio da schifo XD
Cercherò di fare di meglio in futuro, promesso ^^'
Una
ragione in più
“Aspetta” disse, prima che Kreacher potesse
materializzarsi.
L’elfo lo osservò con aria apprensiva, aggrottando
la fronte marrone. “Padron Regulus, la caverna”
disse, tremando da capo a piedi. “Non
c’è altro modo per rag…”
“Lo so” lo interruppe, guardandolo nei grandi occhi
acquosi. Deglutì. “Ma prima voglio andare da
un’altra parte, Kreacher. Sarò io a
materializzarci”.
Kreacher osservò impotente il padrone e annuì
debolmente.
Regulus allungò una mano, cingendo l’ossuta spalla
dell’elfo e chiuse gli occhi, lasciando che i loro corpi si
materializzassero insieme.
Crack
Il rumore gracchiante risuonò nella notte, rimbalzando
dall’asfalto alle mura delle case.
Si trovavano in un quartiere babbano e le strade erano deserte per via
dell’ora notturna.
La luce gialla dei lampioni illuminava le pozze d’acqua ai
margini della strada intorno a loro, e la pioggia vi cadeva
giù, punteggiando la nera superficie liscia, creando onde
concentriche che morivano mangiandosi a vicenda.
Kreacher si guardò intorno e prese a borbottare, disgustato.
Regulus alzò lo sguardo per trovarsi di fronte il luogo che
immaginava di trovare: un breve vialetto conduceva ad una porta chiusa
di una casa di un chiaro giallo, non molto diversa da tutte le altre.
La pioggia aveva ormai inzuppato i suoi capelli, e rivoli di acqua gli
correvano lungo il viso, spettralmente illuminato dalla fioca luce
della notte.
Catturò il labbro superiore in quello inferiore, e si
lasciò scivolare in gola una gocciolina d’acqua.
“Kreacher” disse, abbassando lo sguardo sulla
figura accanto a sé. “Andrò da solo,
non ci vorrà molto” Poi si guardò
intorno, scrutando le nicchie e i ripari che quel luogo concedeva dalla
pioggia. Adocchiò la sporgenza di un edificio, a pochi passi
dalla casa gialla, e proseguì: “Riparati
lì, arriverò tra poco.”
Kreacher annuì con gli occhi gonfi, e si diresse.
Il ragazzo ritornò a fissare l’abitazione di
fronte a sé, sbatté le ciglia tra loro per far
sgocciolare le piccole perle d’acqua che vi si erano
impigliate, e si avviò lungo il vialetto.
In che modo ci si
presentava a quell’ora della notte, senza rischiare di
apparire uno che ha dato di matto?
Un sorriso amaro gli si dipinse in volto: di certo, a qualunque ora
avesse bussato a quella porta, la sua semplice presenza lì
sarebbe stata in ogni caso una sorpresa sconveniente.
Ne era consapevole.
Non sapeva perché si trovava davanti a quella porta, adesso,
di fronte all’ingresso di un passato con il quale aveva
già volutamente rotto da molto, e non osava chiederselo.
Eppure, improvvisamente, aveva sentito lo stupido bisogno di ritoccarlo
ancora, quel passato, anche solo sfiorandolo con la punta delle dita.
Non che quest'anormale necessità avesse alcuna spiegazione
logica, ma sapeva di essere un morto camminante, uno spettro in
procinto di un sacrificio. Da lì a pochi minuti sarebbe
morto: aveva concluso che, per una volta nella vita, – forse
troppo tardi - avrebbe potuto concedersi il lusso di mandare al diavolo
le ragioni logiche.
E, a dispetto della morale, dell’educazione, del suo stesso sangue, adesso era
lì, semplicemente guidato da quell’unico briciolo
di umanità che gli restava. Debolezza o follia questa fosse,
non gli importava più ormai: dopo, al massimo, ci avrebbe
fatto una risata sopra, comunque fosse andata, o avrebbe raccontato
quella folle e insensata iniziativa ai suoi molto prossimi amici
Inferi.
In fondo cos’altro aveva da perdere?
Alzò in aria un pugno e bussò alla porta.
Il vento era freddo e gli indumenti fradici sembravano inumidirlo fino
al midollo. Un soffio d’aria gli sferzò il volto e
un brivido gli percosse violentemente la schiena.
Anche se non lo vedeva, sentiva su di sé lo sguardo ansioso
di Kreacher.
Infilò le mani dentro le tasche umide, continuando ad
ingoiare le goccioline d’acqua che si arrestavano, in bilico
tra il suo labbro superiore e il vuoto.
Non l’avrebbe mai pensato, ma bere quell’acqua era
tremendamente bello poco prima di morire. Era quasi rincuorante
ingoiare le gocce di pioggia: sembravano contenere vita,
tranquillità, sapevano dissetarlo di piccoli frammenti di
pace.
Ma forse non era che un’impressione.
Una mera e falsa illusione.
Perchè cominciava a sentire l’agitazione montargli
addosso; al tre avrebbe voltato le spalle e sarebbe ritornato alla sua
missione.
Stava solo perdendo tempo.
Uno…
Che stupida idea era stata quella di recarsi lì.
Due…
Ritornare indietro era la cosa giusta da fare. Lui aveva un compito,
era inutile cercare di sfiorare qualcosa che non aveva mai avuto
veramente tra le mani, a maggior ragione adesso che avrebbe comunque
dovuto abbandonarla.
Tre…
La porta si dischiuse e nel buio Regulus scorse il riflesso di uno
sguardo incerto, poi la porta si riaccostò in fretta.
Fece per voltarsi, ma quella si mosse nuovamente.
Due occhi nuovi si inoltrarono adesso oltre l’orlo legnoso:
occhi diversi, più sicuri, più attenti e
più esperti. Insieme, un brillante, piccolo globo di luce
galleggiava in aria, illuminando quanto bastava del viso di Regulus.
Gli occhi indugiarono su di lui qualche istante, scrutandolo in maniera
indefinita. Era sicuro di sapere a chi appartenevano.
Poi non li vide più, ma la porta si aprì
completamente.
Andromeda, sull’uscio, puntava la bacchetta in lumos contro il
suo petto, gli occhi, freddi come mai li aveva visti, fissi su di lui.
Il suo volto era rigido, contratto in una smorfia di disprezzo e
rancore: non c’era posto per la sorpresa, per lo stupore, e
neanche per il leggero velo di comprensione e dolcezza che era sempre
stato compagno indissolubile di quegli occhi. Solo una maschera di
profondo disgusto e un’amara delusione.
Quanto stupido doveva
essere stato per essersi recato lì? Quanto deboli il suo
cuore, la sua mente, la sua razionalità dovevano scoprirsi,
per far sì che si portasse in quel luogo, guidato
dall’improvvisa urgenza di quell’insensato bisogno?
Quanto disonorevole
poteva essere per un Black voltarsi e darsela a gambe, di fronte alla
resa dei conti con il proprio passato?
Se uno stralcio di antico orgoglio e radicato onore non si fosse
ostinato a permanere ancora in lui, cementato nel suo più
profondo animo, Regulus l’avrebbe fatto: sarebbe fuggito.
Andromeda lo guardò intensamente: si sentiva messo a nudo,
spogliato delle sue stesse deboli difese.
Lo sguardo accusatore di
un’antica promessa.
Poi la vide scrutare intorno. Gli parve che i suoi occhi si fossero
soffermati nel punto in cui si era nascosto Kreacher, ma poi
scivolarono altrove, indagatori.
Poi indugiò nei giovani occhi chiari, ma neri come il buio,
ancora una volta, e si inoltrò nuovamente
nell’oscurità della sua casa, chiudendosi dietro
la porta.
Regulus sospirò di sollievo: era finita. I suoi desideri
erano stati ammutoliti e, delusi o sorpresi che fossero, dovevano
sottostare alla realtà: Andromeda non voleva vederlo.
Non se l’aspettava, era vero.
Ricordava come, in altri tempi, Andromeda era stata l’unica
cugina a vederlo per quello che era, e non per cosa sarebbe
diventato.
Ricordava come, durante le notti estive, capitava che lei, lui e Sirius
si immergessero ad osservare le stelle, come un unico, vero nucleo
familiare.
Il pensiero gli morse lo stomaco.
Ma lei ora non voleva vederlo e in fondo era giusto così.
Fece per voltarsi, ma in quel momento una striscia verticale di luce si
accese davanti a lui, illuminandolo da capo a piedi: la porta era
socchiusa e il bagliore proveniva da dentro.
Inspirò profondamente ed entrò.
Si inoltrò nell’ingresso buio, diretto verso la
stanza illuminata. Dopo pochi passi si ritrovò in quella che
doveva essere la cucina. La stanza era cosparsa di aggeggi babbani
– probabilmente Andromeda voleva che il Nato-babbano si
sentisse a proprio agio -, alcuni tipici fronzoli domestici magici -
che ricordava si trovassero anche in casa sua - e un tavolo con delle
sedie. Le pareti erano punteggiate da foto che ritraevano Andromeda, la
figlia Ninfadora e il marito Nato-babbano Ted Tonks. Tra le tante,
Regulus scorse un’immagine che figurava Ninfadora occupata in
un abbraccio calorosamente ricambiato da un ragazzo con il viso
incorniciato da lunghe e ribelli ciocche nere: era Sirius.
Sentì un sentimento indefinito attanagliargli lo stomaco:
era l’abbraccio che non univa loro due da molto, troppo
tempo.
Andromeda era di spalle, sorseggiava un bicchiere d’acqua e
con una mano sembrava sorreggersi sul bordo della cucina, e, accanto a
lei, un Ted Tonks dagli occhi allarmati si sosteneva invece sullo
schienale di una sedia. Era intimorito e lo guardava con espressione
tesa sul volto. Tra i due, Andromeda sembrava tenere le redini della
situazione.
“Ted, ho bisogno di stare da sola con lui, va’ da
Dora prima che si svegli” disse con voce ferma, ma con una
nota vibrante di tensione.
“Sicura?”
Andromeda annuì e Ted, rigido, sorpassò Regulus
senza rischiare che i suoi occhi incrociassero quelli del ragazzo.
Quando il nato-babbano fu fuori, la donna si voltò a
guardarlo, gelida e ferma come una roccia di ghiaccio, facendogli segno
di sedersi.
Aveva dimenticato quanto fosse così sorprendentemente simile
alla sorella, Bellatrix.
“Cosa sei venuto a fare qui?” domandò,
trascinandosi nella voce un filo di disgusto. Nei suoi occhi era
riflessa la stessa amara ripugnanza che Regulus aveva letto in quelli
di Sirius, non molto tempo prima.
Sirius ed Andromeda erano così simili nella loro
reità, nella loro ribellione, nella loro libertà.
Lo stesso disonorevole sangue scorreva nelle loro vene e inquinava il
nome della famiglia Black.
La stessa ironica sfida nello sguardo fiero dei due, la stessa fame di
vita.
E la verità era che lui aveva sempre invidiato quella forza,
quella così fervida capacità di opporsi alle
regole, rischiando la solitudine, ma guadagnando la libertà.
Li aveva sempre visti così simili, così complici,
così distanti da lui, che rimaneva accucciato nelle grazie
del proprio nome, incapace di desiderare altrettanto ardentemente la
libertà, per paura di perdere tutto. Per paura di rendersi
davvero conto che nella vita non c’era altro che solitudine.
E per tutto questo tempo, lui era sempre stato fermamente convinto
dell’inoppugnabile ragione delle proprie scelte.
Non aveva mai aperto gli occhi completamente.
“Perché mi hai fatto entrare? Non temi per la vita
di quel Nato-babbano
di tuo marito? E per tua figlia?” tacque. “Sai cosa
sono?”
Andromeda gli lanciò un’occhiata di ironica
commiserazione.
“Temere? Chi, te?” Poi abbozzò un
sorriso indulgente. “Ti sei visto? Sei uno spettro, Regulus.
Pensi che potrei mai avere paura di te? Guardati, non so come ancora tu
ti regga in piedi. Tu non esisti più, hai smesso di esistere
nel momento in cui ti sei lasciato abbindolare dalla cieca brama del
potere. Sei un fantasma, e se solo io volessi, se solo se ne presentasse la
necessità, credi che ci metterei molto a
renderti innocuo?” Rise cupamente, scuotendo la testa.
“Regulus, sono una strega più esperta di te, anche
se sono una madre
e una moglie.
Uno sfregio di dubbio gusto sul braccio non ti rende più
forte” proseguì, incatenandolo con lo sguardo.
“Ti da solo uno motivo in più per
uccidere.” Regulus si mosse sulla sedia.
“Potrei farlo” replicò, con sfida.
“Potrei ucciderti, uccidere tuo marito e tua figlia. Potrei non essere solo.”
Andromeda lo scrutò, impermeabile.
“C’è Kreacher lì fuori, pensi
che non l’abbia visto? A cosa ti servirebbe? E poi
perché Voldemort
dovrebbe voler fare fuori me? Credi che manderebbe una squadra dei suoi
scagnozzi solo per liberarsi di Andromeda Black? No, so benissimo che
non sei qui in veste di Mangiamorte, ma di Regulus” Lo
guardò intensamente. “O di quello che ne resta di
lui.” concluse.
Regulus distolse lo sguardo.
“Perché sei qui?” ripeté lei,
con più fermezza.
Cosa avrebbe dovuto
dirle?
Forse che da lì a poco sarebbe morto e che nessuno avrebbe
mai saputo che Regulus si era sacrificato?
Che lei e Sirius non sarebbero mai venuti a conoscenza del suo
cambiamento? Della sua presa di coscienza? Della sua morte?
Avrebbe dovuto spiegarle che quella era l’ultima volta che i
loro sguardi si incrociavano, e non c’era altro che disprezzo
e rancore per lui?
E che lei era tutto ciò che rimaneva della sua vita, ed era
l’unico modo per rivedere, in quelle stesse iridi, gli occhi
di Sirius?
Che da tre anni non aveva la minima idea di dove questi fosse, ed era
fin troppo vigliacco per cercarlo?
E che il solo pensiero che suo fratello lo avrebbe sempre creduto uno
sporco servitore del diavolo era il solo ed unico che lo spingeva a
morire, nell’illusione che un giorno questo sarebbe bastato a
redimerlo dai propri sbagli?
E avrebbe dovuto dirle che si era pentito?
Che si era pentito?
Che si era pentito?
Tacque, incapace di parlare.
“Puoi ancora tornare indietro, Regulus” disse in un
soffio Andromeda. Regulus alzò lo sguardo e vide gli occhi
comprensivi e intensi di una volta. I suoi occhi.
“Puoi tornare indietro” Una lacrima
scivolò lungo la guancia bianca della donna, ma lo sguardo
denso di speranze non tradiva la fierezza. “Fallo per
te” la voce era ferma: Andromeda era il ritratto di una donna
che aveva scelto e che, anche nelle lacrime, malgrado il dolore,
continuava a scegliere ogni giorno. “Fallo per lui”.
E avrebbe voluto dirglielo, avrebbe voluto dirle che quello che avrebbe
fatto da lì a poco era solo per lui, era solo per Sirius.
Perché avrebbe potuto scegliere, Regulus, di farsi aiutare,
avrebbe potuto scegliere di compiere questo passo con
l’appoggio e l’ammirazione di tutti, con
l’appoggio e l’ammirazione di loro. Ma non
l’aveva fatto, non l’aveva scelto,
perché era giusto così.
Perché era giusto che la verità regnasse sepolta
solo nel suo cuore.
Forse, un giorno, Sirius l’avrebbe saputo.
Forse, un giorno, ai suoi occhi sarebbe finalmente parso una persona
diversa.
Era una promessa.
Ma la solitudine, adesso, era parte della promessa stessa.
D’altronde, nella vita c’è un momento
per fare gli eroi e un momento per far sì che il tempo
risciacqui via le antiche ferite, e lasci, da solo, riaffiorare la
verità.
Ed allora sarebbe stato più dolce.
Ed allora, Regulus, avrebbe finalmente ripreso a respirare, nelle acque
più profonde, tra le nodose braccia del demonio, avrebbe
respirato del perdono di Sirius.
Ma adesso aveva una promessa da rispettare.
Una promessa.
Si alzò dalla sedia e Andromeda serrò le labbra,
frenando un ignoto sentimento. Forse rabbia, forse disprezzo, forse
delusione.
Regulus si sfilò l’anello che teneva al dito e lo
lasciò cadere sul tavolo davanti a lui.
Lei lo guardò cupa.
“Sai cos’è questo?” chiese
Regulus. Non rispose, ma prese a fissare il gioiello di poco valore sul
tavolo. “Ti ricordi quella notte, la vigilia di natale? Io,
tu e Sirius abbiamo fatto una promessa, guardando le stelle, e abbiamo
infilato quest’anello: saremmo stati insieme, sempre e
comunque, non ci saremmo mai traditi a vicenda, saremmo andati incontro
a tutti, pur di restare insieme”
“Avevi cinque
anni, Regulus. Non c’è più alcun anello
nelle nostre dita: io e Sirius abbiamo dimenticato quella
promessa”
“Ma come vedi io non l’ho dimenticata”
“Ci hai traditi” rispose, con freddezza.
“Che vale adesso quella promessa? Tu non l’hai
mantenuta”
“E non sto dicendo che la manterrò”
rispose. “Ma voglio che tu lo tenga, voglio che qualcosa del
vecchio Regulus vivi ancora.”
Andromeda lo guardò intensamente. “Che stai
cercando di dirmi?” disse, scrutandolo.
Tacque qualche secondo. “Niente” disse
semplicemente.
Andromeda rimase a fissarlo.
Forse, un giorno, anche
lei avrebbe capito.
Regulus indietreggiò, senza scostare gli occhi, immersi in
quelli della donna.
“Voglio che non torni più, Regulus”
disse lei, con i resti della sorpresa ancora in volto. “Non
tornare mai più.”
Gli sembrò, improvvisamente, che fosse stanca. Immensamente
stanca e abbattuta.
C’era stato un tempo in cui Regulus, Sirius e Andromeda erano
stati una cosa sola, un nucleo familiare che sapeva di casa, soli contro
il mondo.
C’era stato un tempo, molto lontano, in cui non esistevano
vincoli di sangue e di nome, ed i sogni volteggiavano liberi tra le
stelle, disegnando traiettorie che prendevano i loro nomi.
C’era stato quel tempo, tanto tempo prima, in cui Regulus era
felice.
E non l’avrebbe mai dimenticato.
Non l’avrebbe
mai dimenticato.
“Non lo farò” rispose. “Addio,
Andromeda.”
E si voltò, incamminandosi verso l’uscita.
“Mamma, cos’è tutto questo
baccano?”
Regulus si voltò appena davanti la porta, cercando
l’origine dalla voce. Sapeva che doveva uscire da quella
casa, un compito l’aspettava, ma non riuscì a
frenare la curiosità: una bambina, piuttosto bassa per la
sua età, dai capelli celesti che sembravano di raso, si
trovava sull’ultimo gradino delle scale, qualche passo oltre
la cucina. Le sue spalle erano cinte dalle mani paterne di Ted Tonks.
“Io voglio dormire, non vi viene in mente a voi? E’
notte fonda!” continuò quella, mentre si torturava
un occhio con l’indice, e l’altro occhio,
insonnolito, si chiudeva e si riapriva a scatti.
Quando vide la sagoma del ragazzo sull’ingresso
sobbalzò e prese a scrutarlo nel buio, cercando di
riconoscerne i lineamenti, illuminati dalla sola, debole luce lunare
che filtrava dalle imposte aperte.
“Sir…”
iniziò a gridare, ma poi si frenò bruscamente.
“Tu chi sei?”
domandò con spavalderia. Il padre le strattonò
lievemente le spalle, lo sguardo allarmato.
“Dovresti avere paura degli sconosciuti, piuttosto che
domandare loro chi sono” replicò Regulus, con la
stessa sfida di un bambino che si scontra con un coetaneo.
“Paura? Pfua!” esclamò lei, gonfiandosi
il petto. “Perché cosa vuoi farmi, vuoi
uccidermi?” canzonò, indispettita.
“E se lo facessi?” domandò lui.
“Come ti
perm…”
“Shh, zitto papà! Devo sentire che
dice!” protestò lei, strattonandogli la vestaglia.
Poi ritornò a fissare Regulus, e gli fece gentilmente cenno
di continuare.
Quella bambina era tremendamente burbera. Più burbera di
un’ottantenne.
Era così divertente che a Regulus non venne in mente niente
che potesse concludere l’ultima serata della sua vita in
maniera migliore.
“Se volessi ucciderti” continuò, in tono
di sfida. “Non avresti paura della morte?”
La bambina prese ad annuire gravemente, come se stesse ponderandoci un
po’ su, poi alzò il mento e parlò:
“Se ogni notte non mi permettono neanche di dormire in santa
pace e sarò condannata a quest’Inferno per sempre,
penso di no. Insomma, in quel caso la vita non sarebbe poi una gran
sorpresa, non vedo perché la morte non potrebbe esserne una
più grande, più degna di me, e molto
più piacevole” disse, con tono saggio.
“Magari sì, magari poi potrei riposare senza che
estranei, squilibrati, piombino così in casa mia e
disturbino il mio sonno.”
Ted Tonks era una maschera di orrore e indignazione.
Regulus rimase a guardarla negli occhi, poi non riuscì
più a trattenere le risate: e rise.
La bambina lo guardò offesa, e per paura che cominciasse
anche a credere che non avesse preso la loro conversazione seriamente,
Regulus disse: “Mi piace, ma vedi di non pensarci
più. Vivi e basta, sei troppo giovane ancora.”
Lei lo guardò in modo strano, poi borbottò:
“Io me ne torno a letto, vedete di farlo anche voi.
Buonanotte.” E sparì indispettita su per le scale,
seguita dallo sguardo attonito di Ted Tonks.
Prima che il mezzo-babbano potesse ritornare a fissarlo, Regulus
aprì la porta e se la richiuse alle spalle.
Fuori continuava a
piovere.
Vide Kreacher uscire dalla nicchia e venirgli incontro.
“... in quel
caso la vita non sarebbe poi una gran sorpresa, non vedo
perché la morte non potrebbe esserne una più
grande, più degna di me...”.
Le parole della figlia di Andromeda gli risuonarono nelle orecchie.
E, incredibilmente, quella frase, ora più che mai, sembrava
adatta a lui.
Forse la vita non aveva più niente da offrirgli?
Forse lui era degno solo della morte?
Forse solo la morte
poteva lavarlo dei suoi sbagli?
Sì,
era così che doveva andare.
Camminò fino a superare il vialetto, ritrovandosi di nuovo
in strada, gambe a faccia con l’elfo.
Continuava a piovere.
“Possiamo andare Kreacher” disse, e di nuovo le
gocce gli scivolavano lungo il volto. “Sono pronto,
ora.”
E lo era davvero.
Andromeda, inaspettatamente, gli aveva dato una nuova ragione per fare
ciò che doveva fare: la ragione giusta.
Lei.
Lui.
Loro.
Se stesso.
Era pronto.
La pioggia sembrava stranamente più importante ora,
stranamente più bella, come mai l’aveva vista.
Ogni singola goccia che scivolava sulla pelle diafana, che si spingeva
fino all’ultimo millimetro lungo le ciocche di capelli neri,
era un momento in più da vivere, un secondo in
più a cui aggrapparsi, una preziosa consapevolezza
dell’essere ancora lì, presente e vivo.
Si sentiva un po’ come una di quelle gocce, quando una di
loro corre lungo una pennellata scura di capelli, corre, corre fin
quando non giunge all’orlo del precipizio, e fino
all’ultimo si aggrappa audacemente, finché poi non
molla la presa e cade giù, inesorabile, verso
l’asfalto.
Così lui si aggrappava ad ogni singolo secondo, ogni singolo
battito di cuore che gli restava.
Ogni goccia, ognuno di quei piccoli frammenti di cielo era essenziale.
E ognuna di loro sembrava scandire ogni istante di quella che era, ora,
come una dolce e breve fiala di esistenza.
Era ora di lavarsi degli
sbagli commessi.
*
Oblivion.
Quella stessa notte, come Regulus gli aveva chiesto di fare, Kreacher
si inoltrò in casa Tonks, e cancellò dalle menti
dell’intera famiglia e della sua ogni singola memoria di quel
fugace incontro.
Mentre lui moriva.
Con una ragione in
più.
*
16
anni dopo.
“Cos’è?”
domandò Sirius, osservando intensamente un vecchio anello
impolverato.
“Bè, se non lo sai tu, cugino”
ridacchiò Andromeda.
“No, questo l’ho pescato da lì, non
è mio” replicò lui, indicando uno
scatolone pieno di vecchie cianfrusaglie che Andromeda aveva portato da
casa sua: già che c’era, aveva preparato anche lei
uno scatolone pieno di roba che aveva in mente di buttare da tanto
tempo. Avrebbero messo lì tutto ciò che entrava
dei cimeli del cugino, per poi incenerire tutto insieme.
Sirius ritornò ad osservare l’anello, come
magnetizzato.
“Allora, cos’è?”
“Ah, beh, non so” disse Andromeda, scrollando le
spalle. “Si direbbe che sia un anello”
Sirius le lanciò un’occhiata torva con la mente:
non riusciva a distogliere lo sguardo dall’oggetto.
C’era qualcosa…
Gli sembrava di conoscerlo…
“Voglio dire” disse, un po’ annebbiato.
“Ti ricordi a chi apparteneva?”
Andromeda si fermò a scrutare l’anello da lontano,
ma poi riprese a frugare in un cassetto del salotto Black.
“No” disse. “L’ho trovato in
casa una decina di anni fa, o forse molto di più, e
l’ho messo da parte. Non so neanche perché non
l’abbia buttato prima… beh, sì,
probabilmente per la stessa ragione per cui non mi sono disfatta di
tutta quell’altra roba… Per fortuna, mi ci hai
fatto pensare tu” continuò. “Ad ogni
modo, perché me lo chiedi?”
“Non so…” mormorò,
continuando a rigirarselo ipnotizzato tra le mani. “Mi sembra
di averlo già visto…”
Eppure non riusciva a ricordarselo.
Sentiva qualcosa… qualcosa lo turbava profondamente in
quell’anello…
Non sapeva perché, ma, piano piano, una languida malinconia
gli impregnò ogni membra, e più cercava di
allontanarla, più quella lo invadeva…
“Sirius?”
Sirius sobbalzò e sbatté ripetutamente le
palpebre per riprendere lucidità. Vide Andromeda guardarlo
con un cipiglio preoccupato in volto.
“Stai bene?”
“Sì…” rispose. “Non
è niente… pensavo di averlo già visto,
ma l’avrò confuso con
qualcos’altro”
Andromeda annuì, sorridendo.
“Posso gettarlo via allora?”
“Sì” rispose l’uomo,
rilanciando l’anello dentro lo scatolone, insieme agli altri
cimeli. “Buttalo… buttalo pure.”
Ma c’era tristezza nella sua voce, eppure non riusciva a
capire perché.
*
-Grammatica:
9/10
-Stile
e Lessico: 9/10
-Originalità:
15/15
-IC:
14/15
-Attinenza
alla citazione: 9/10
-Giudizio
personale: 9/10
Totale:
65/70
Solo
due errori dal punto di vista grammaticale, uno proprio
all’inizio ed uno nella frase finale. Il primo è
un ‘si diresse’ lasciato in sospeso, mentre avresti
dovuto aggiungere un ‘verso’ qualcosa, oppure un
‘lì’. L’altro invece
è l’utilizzo nella stessa frase di
‘ma’ ed ‘eppure’, che ho
trovato assolutamente ridondante. Per il resto, la grammatica
è abbastanza precisa.
Un
eccesso di virgole ti ha penalizzata nello stile, che invece sarebbe
stato abbastanza scorrevole. Sono davvero troppe in certi punti, e
rendono parzialmente frammentaria la lettura. Buono è invece
il lessico, colloquiale ma ben adatto alla storia in sé.
Nulla
da eccepire sull’originalità, dato che sei
riuscita a parlare di Regulus in una situazione del tutto innovativa, e
in rapporto con ‘l’ultima delle cugine’,
dato che sinceramente non avevo mai letto nulla che riguardasse il
rapporto fra Regulus ed Andromeda. Uno scorcio davvero interessante,
insomma.
Non
mi è parsa del tutto IC Andromeda, in quanto l’ho
trovata forse troppo dura nei confronti del cugino, così
come troppo remissivo mi è parso lui. Mi rendo conto che la
situazione è del tutto atipica, ma forse sarebbe stato
preferibile smussare quei lati del rispettivo carattere che hai deciso
di descrivere.
L’inserimento
della frase mi pare forzato. Tonks è ancora una bambina,
seppure particolarmente sveglia, e metterle in bocca quelle parole mi
è sembrato eccessivo. Regulus la provoca, e questo
è vero, e ci si può aspettare anche una risposta
per le rime, ma fa un po’ storcere il naso sentire una
bambina che parla della morte con così tanta nonchalance.
Ciononostante,
la storia mi è piaciuta. E mi è piaciuta proprio
perché hai saputo mostrare Regulus sotto un aspetto
differente dal solito, rapportandolo con persone con le quali nelle
storie non si trova mai ad interagire, creando un’atmosfera
quasi di resa nei confronti del giudizio della cugina su di lui.
Particolarmente toccante la parte finale, e la confusione di Sirius nel
vedere quell’anello, in quanto sa che gli dovrebbe ricordare.
In sintesi, è una bella storia, brava.
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