EPILOGO
Sono passati moltissimi anni da quando lasciai casa Cullen, eppure si presenta nei miei ricordi
ancora ricca di dettagli, stranamente luminosa, piena di voci e, nonostante sia stata abitata
da non-morti, piena di vita. Non è uno di quei ricordi che riappare subito, con grande
facilità, perché è ben custodito in un angolino remoto della mia memoria.
Così è tutta la mia parte di vita che ho condiviso con i Cullen: ben conservata,
ma relegata in un anfratto della mia coscienza.
Allora non credevo la mia vita sarebbe mai potuta essere diversa. Non credevo che sarebbe
mai cambiata. A diciassette anni avevo trovato Edward, e con lui l'illusione di un futuro certo.
Un futuro certo e luminoso come l'eternità. A diciotto anni ho vissuto momenti slegati
e contraddittori di presente, con qualche spruzzo di passato e alcun futuro. Ma se anche erano
venute meno le convinzioni, almeno c'erano le intenzioni. E poi... poi, beh, è cambiato
tutto.
Non so quando sia realmente successo, ma ad un certo punto compresi davvero che quello non
era più il mio posto. Ma ci ho messo del tempo ad ammetterlo a me stessa, il tempo di
metabolizzare tutto quello che era successo: la battaglia contro i Volturi, la ferita di Alice,
il mio rapporto con Edward... non potevo far a meno di pensare che con loro non avevo proprio
nulla a che vedere. E se l'anno prima mi rispondevo che andava bene, mi andava bene tutto, purché
avessi Edward, anche questa giustificazione era andata via.
Lo sapevo io, lo sapeva Edward, lo sapevamo tutti. E ognuno di noi ha solo richiesto il tempo
necessario per riconoscerlo ed ammetterlo.
Così, un po' di tempo dopo, l'abbiamo fatto. Ci siamo detti addio. E sono tornata
a Forks.
In un certo senso, devo ringraziare il caos drammatico che la mia vita aveva conosciuto in
quel periodo, perché la preoccupazione di tornare a Forks, ritrovare mio padre, imbastire
il teatrino che mi voleva miracolosamente scampata all'incidente che avrebbe ucciso Jacob,
ma colpita dall'amnesia e dunque curata dai Cullen, insomma, dover mantenere tutto questo castello
di carte pronto a cadere mi ha tenuto occupata, distratta abbastanza. E questo mi ha salvata,
mi ha salvata dal dolore profondo che il distacco da Edward mi avrebbe certamente causato.
Ma alla fine, anche a questo, sono sopravvissuta. Sono sopravvissuta al punto da ritrovami
adesso una donna adulta e consapevole, moglie e madre, cittadina onesta e grande lavoratrice.
Ma è meglio andare con calma.
Sono rimasta a Forks il necessario. Rivedere mio padre, permettergli di superare il dolore
per la mia perdita, permettergli, soprattutto, di tornare a fidarsi di me. Rivedere i vecchi
amici, ritornare a La Push. Piangere la morte di Jacob. A La Push incontrai un'ostilità
che non avrei mai creduto, ma in fondo anche questo mi ha salvata. Mi ha salvata, almeno, dalle
mille domande che mi avrebbero altrimenti bersagliato. I licantropi non volevano più
avere a che fare con i freddi, e anche con me, che ne ero stata a contatto. Così
riuscii a risparmiarmi domande scomode.
Rividi i Cullen? No, o quasi. Una volta ricevetti la telefonata di Esme. Una telefonata frettolosa
e brusca, una conversazione a senso unico. Esme chiedeva: stai bene, cosa fai, ti hanno fatto
domande, cosa farai; chiedeva ma non rispondeva. Non seppi mai nulla dei Cullen, e in fondo
è stato meglio così. Anni dopo mi capitò di incontrare Emmett. Ma anche
in quel caso, oltre al suo vigoroso abbraccio e al suo buon sorriso non ci fu altro, non ci
furono parole né spiegazioni.
Presto cominciai a chiedermi: cosa ci facevo a Forks? Cosa ci facevo in questa terra fredda,
ora che non c'era più nessuno di cui m'importasse? Sì, c'era Charlie, è
vero, e non potrò mai rendere la misura della gratitudine che, in quanto figlia, gli
riconosco. Ma non c'era più Jake, non c'era più La Push, non c'erano i Cullen
e nemmeno c'erano più i miei vecchi compagni di scuola. Ed io ero lì: una diciannovenne
che non sapeva cosa farsene della propria vita, mentre tutti si erano buttati a capofitto nelle
loro nuove vite, tra college e quant'altro. Agli occhi della gente qualunque ero appunto questa:
una ragazza smarrita, rimasta indietro rispetto ai suoi vecchi compagni di scuola.
Giunta la primavera, approfittai della situazione per cambiare aria. Accolsi dunque le proposte
dei miei genitori e lasciai Forks. Ma non tornai in Arizona. Mi mancava mia madre, mi mancava
come non avrei mai creduto, ma non potevo tornare. La vita mi stava mettendo nuovamente alla
prova, e questa volta volevo farcela da sola. Fu così che scelsi la California. Un college
mediano, di quelli famosi localmente, ma senza ambizioni transnazionali. La California: sole,
mare, ampi ed erbosi college, feste e spring break. Sarei riuscita nell'impresa impossibile?
Avrei ingannato tutti nel mio geniale travestimento da Isabella, la ragazza che viene dal
nord?
Per un po' lasciai che la vita facesse il suo corso. E lentamente, mi lasciai trasportare
dal suo corso. Dividevo una stanza con una ragazza che presto sarebbe diventata la mia migliore
amica, frequentai qualche ragazzo, partecipavo occasionalmente alle feste e mi davo da fare
con lo studio. Scelsi botanica, chissà perché. Tutti mi chiamavano Isabella, oppure
Ella. Bella non esisteva più, era andata via insieme ai suoi giorni freddi e ai
suoi amici vampiri. Adesso c'era Isabella, le calde giornate della California, le soporifere
lezioni di mattina ed i party in spiaggia di sera.
Di Edward era rimasto un ricordo appannato... ed un paio di cicatrici che, al massimo, destavano
una fugace curiosità e niente più. C'era, però, una cicatrice ben vistosa.
Ma nessuno la poteva vedere, perché nessuno la cercava mai nel posto giusto: dentro di
me. Apparentemente nessuno si chiese mai perché, se pure frequentassi diversi ragazzi,
non ne avevo mai una relazione stabile. Ma come mai avrei potuto? Non è che non lo facessi
per Edward. Non lo facevo per me. Era una cosa inconscia, spontanea. Scattava un meccanismo
e subito mi ritrovato a chiudere una storia che avrebbe potuto diventare seria. Senza nemmeno
pensarci, senza nemmeno accorgermene.
Soltanto anni dopo accadde. Accadde che qualcuno, di nuovo, riuscì a penetrare le
mie difese, le difese del mio io, e a conquistarmi. E quel qualcuno fu Mike Newton.
Sembra assurdo, però è così che sono andate le cose. Io era rimasta
in California, impiegata all'Università come ricercatrice di discreto successo, e tra
tutte le persone appena trasferitesi in quella media e anonima città, beh, trovai proprio
lui. Mike aveva conosciuto anni di College un po' turbolenti, ma aveva deciso di mettere la
testa a posto, cambiare città e darsi da fare.
Fu lui a trovarmi, in realtà, mentre ero in coda ad uno Starbucks. Vederlo mi scatenò
un'estrema reazione emotiva che a stento soffocai. Il solo vedere Mike, che pure era cresciuto –
i suoi capelli erano più scuri, gli occhi si erano fatti più scaltri, ed i lineamenti
più duri – mi aveva bombardato il cervello di tutti i ricordi di Forks. Lui
aveva riso della mia confusione, cavolo, ti faccio proprio un bell'effetto!, aveva commentato,
ed io, confusa e senza difese, dovetti accettare il suo invito a cena. Cena che, come puntualizzò,
era tra vecchi amici ritrovatisi per caso.
Fu una bella serata. C'ero andata un po' per curiosità ed un po' per noia, ma rimasi
piacevolmente sorpresa dell'esito della serata. Per lo più era lui a parlare, e, sorprendentemente,
non mi aveva annoiata nemmeno un istante! Io continuavo ad esser un tipo che s'annoia facilmente,
e questo aveva indubbiamente aumentato la sorpresa. Insomma, gente, stiamo parlando di Mike
Newton!
Ma la verità è che era profondamente cambiato. Non ci saranno stati vampiri
e licantropi in mezzo, ma la vita aveva fatto la sua parte anche con Mike, che davvero non era
più il ragazzino che mi sbavava e scodinzolava dietro. E di questo ne ridevamo, ne rideva
lui stesso, rievocando i suoi ricordi. Ed io? Io non ero da meno. Avrei mentito se avessi detto
che non mi sentivo cambiata e cresciuta rispetto agli anni liceali. Parlare con Mike mi fece
anche questo effetto: mi guardai dentro, dall'alto, e mi vidi profondamente cambiata. Provai
quasi ribrezzo a rivedere la ragazza che ero stata al liceo, così convinta di esser diversa
dalle altre, salvo poi aver scatenato un casino per l'illusione di un amore bellissimo ed eterno.
Un po' per la sorpresa, un po' per la curiosità ed un po' perché rivedere una
faccia amica non mi dispiaceva, cominciai ad uscire con Mike, accettando sempre i suoi inviti.
Mike era l'unico legame che mi restava con il passato. Ci misi un po' di tempo a capire che
era per questo, forse, che lo frequentavo: perché mi ricordava i bei tempi andati. Mi
sentii sciocca e anche un po' stronza, quando me ne resi conto. Cercai allora di tagliare questo
rapporto che già sembrava pronto ad avventurarsi in territori sconosciuti e pericolosi,
ma Mike non me lo permise. Furono la sua tenacia e la sua determinazione a conquistarmi.
A volte, ancora oggi, penso che sia questo il vero motivo. Che mi innamorai di Mike soltanto
perché era riuscito ad entrarmi dentro, come solo Edward aveva saputo fare, facendo scattare
dunque in me il meccanismo del bisogno, della dipendenza. Ma era diverso, lo so, era ben diverso.
Mike mi piaceva, mi piace, per mille e più ragioni che da adolescente non avrei mai pensato.
Eppure era così.
Ciò che successe dopo fu uno sviluppo inevitabile e spontaneo, sul quale avevo pure
smesso di riflettere, consegnandomi definitivamente alla vita, senza più rimpianti e
rimorsi.
L'incarnazione del sogno americano: abbiamo trovato una bella casa in cui andare a vivere
insieme, abbiamo iniziato a fare carriera, ci siamo sposati. E dopo qualche anno è arrivato.
E' arrivato Jacob. Perché, era ovvio, non avrei potuto dar altro nome al mio primogenito.
L'esperienza della maternità è qualcosa di totalmente trascendentale ed indefinibile,
e che finalmente mi aveva colta, facendomi scoprire un mondo che non conoscevo ma del quale
non potevo avere paura.
A trent'anni avevo dunque un marito, un lavoro, una bella casa, dei genitori che non mancavano
di farsi vedere per la festa del Ringraziamento, e soprattutto, un figlio che per me era tutto.
Da adolescente, credevo non potesse esistere niente di più potente dell'amore di due
ragazzi che si amano – e, in quell'ambito, quello tra me ed Edward, destinato a durare
in eterno, mi sembrava il più perfetto. Una volta madre, mi ritrovai a dovermi ricredere.
Non esiste niente di più potente ed implacabile dell'amore di una madre per il proprio
figlio.
Ho vissuto così interi anni soltanto per lui, persa in un sentimento totale che un
po' ricordava quell'amara dipendenza che avevo avuto per Edward, ma che, questa volta, mi sembrava
perfettamente giusto.
Forks, i Cullen e tutto il resto erano solo un ricordo. Se feci visita a mia madre, in Arizona,
non tornai mai più a Forks. Non avrei mai potuto.
Passarono gli anni.
Jake cresceva, ed io con lui. Ogni suo piccolo passo nel mondo era un mio nuovo passo. A
Mike non aveva mai dato alcun fastidio la mia scelta di chiamare nostro figlio col nome di un
morto, di qualcuno che per me aveva significato molto. E' solo un nome, aveva
detto. E poi sempre meglio che chiamarlo Edward!
Jake comunque cresceva, cresceva mentre io invecchiavo. In mio figlio vedevo il riflesso
rovesciato della mia vita. Cresceva sempre più velocemente, e da che facevo i salti mortali
per prenderlo a scuola, lasciarlo alle feste di compleanno e accompagnarlo alla piscina (Jake
aveva da subito mostrato una particolare predilezione per l'acqua, chissà da chi l'aveva
presa!), senza nemmeno accorgermene mi ritrovai a proferire raccomandazioni genitoriali, torna
presto, non fare tardi, guida piano...
E nel mentre Edward e Bella vivevano ancora da qualche parte nella mia coscienza, per sempre
giovani. Io non ero più Bella, ormai, per tutti, ero la dottoressa Swan-Newton, la botanica,
la madre di Jacob e la moglie di Mike Newton. Eppure, malgrado fossero soffocati dal peso della
vita quotidiana, i ricordi c'erano ancora.
Accadde il giorno del diploma di mio figlio. C'eravamo io e Mike, c'era suo padre e c'erano
entrambi i miei genitori. Tutta la famiglia riunita nel campus scolastico, pronta a riempirsi
di orgoglio per il diploma del giovane e promettente Jacob.
“Guarda quanti bei giovani! Queste nuove generazioni sono venute su proprio bene!”
Fu il commento di mia madre, che incontrò la risatina di Dwyer ed il grugnito di disapprovazione
di Charlie. E' vero, dissi a me stessa: la classe di Jacob ci sfilava davanti, quanti bei volti
giovani, mi ci specchiai e mi sentii un po' vecchia. Poi guardai meglio, qualcosa mi aveva colpito,
ma non capivo cosa. Scrutai quei volti ansiosi e felici, e lo vidi. Due file dietro Jacob, che
sorrideva, mentre parlottava con il suo migliore amico, vidi un ragazzo. Un ragazzo alto, i
capelli in un'acconciatura da divo, il volto sereno, disteso, sorridente, e la pelle chiara,
chiarissima, come se brillasse.
Mi sentii mancare.
Intanto, la preside della scuola aveva cominciato a chiamare i ragazzi, uno ad uno, per la
consegna del diploma. Quando fu il turno di Jacob ci lasciammo andare con applausi ed urla.
Non vedevo l'ora di abbracciare mio figlio, ma al momento c'era un solo pensiero che mi tormentava,
che mi ossessionava. Un'ossessione che non provavo più da tantissimo tempo. Aspettai
ancora un po', altri due ragazzi vennero chiamati, e poi toccò a lui.
Chiamarono un nome che non avevo mai sentito, ma sapevo che era lui. Il mio cuore lo sapeva,
lo sapeva bene.
E fu così che lo rividi, dopo tutti quegli anni.
Alla fine lo trovai lì, splendente sotto la luce del sole, luccicante come mai era
stato nei miei ricordi. Dopo tutti quegli anni passati, lui era ancora lì, uguale a se
stesso, a splendere di una luce accecante che non si sarebbe mai spenta, ed i suoi occhi guardavano
ancora me, solamente me. Me ne accorsi, ma non spostai lo sguardo. Non avrei potuto. Sostenni
il suo sguardo, sentendomi penetrare all'interno. Ed allora capii. Capii che era questa la vera
beatitudine, era questa la vera eternità: il ricordo sarebbe vissuto in eterno. Sarei
vissuta, io stessa, in eterno, nei suoi occhi e nella sua memoria.
La vita era andata avanti. Eravamo sopravvissuti a noi stessi. E mentre io ero cambiata,
trasformandomi in una brava madre e in una brava moglie, lui era rimasto uguale e, forse, era
rimasto uguale anche il suo amore nei miei confronti. Non avevo bisogno di chiederlo, lo sapevo,
lo sentivo dentro, che non avevo avuto alcuna dopo di me. Che era rimasto a cullarsi con il
mio ricordo.
Lo vidi avanzare, prendere il diploma, sorridere come un divo e poi farsi da parte. Mi lanciò
un'occhiata, un ultimo sguardo che diceva tutto. Che dentro di lui sarebbe vissuto, per sempre,
il mio ricordo. Che mi avrebbe fatto un po' di spazio, consentendomi di vivere in quella piccola
ma perfetta parte della sua eternità.
/***\
Note dell'Autore:
E così la fine è giunta! Probabilmente qualcuno sarà meravigliato di questo sviluppo, ma devo confessare di credere che questo sia l'unico possibile. Nella storia, nella mia versione della storia ogni singolo evento ha portato inevitabilmente a questa fine, non poteva esser altrimenti. Spero comunque di aver reso giustizia ai personaggi, malgrado averli trasportati in un universo alternativo ingiusto. E spero di avervi divertito abbastanza!
Infine, un sentito ringraziamento a chiunque mi abbia letto e commentato, soprattutto la mia riconoscenza va a Marpy e KiryBlack! Grazie di cuore per avermi fatto sentire un autore compreso!
E questo, beh, è davvero tutto. Alla prossima! |