La pagina bianca del monitor continuava a
rimanere tale, senza che io
potessi fare qualcosa per riempirla, anche solo di parole senza senso.
Il racconto che avevo in mente e che avrebbe concluso la storia
dell’ elfo, rimaneva a vagare tra i miei pensieri senza
riuscire a venir fuori da essi.
Un suono squillante interruppe quel momento di stasi. Ringraziai
mentalmente chiunque avesse deciso di chiamarmi al telefono di casa,
perché mi aveva dato la scusa per distrarmi dalla mia
mancanza d’ispirazione.
“Pronto”
“Buongiorno parlo con il signore Alberto Lombardo?”
“Si, sono io”
“Sono la direttrice dell’istituto Don Bosco per
giovani senza famiglia, avrei bisogno d’incontrarla al
più presto per discutere di una questione che la riguarda da
vicino”
“Domani va bene?”
“Certo, l’aspetto domani mattina alle nove,
arrivederci”
Incominciai a pensare al motivo per cui un istituto per orfani volesse
vedermi, probabilmente volevano organizzare un incontro con i ragazzi,
ma la storia non mi convinceva e continuava a tornarmi in mente, a fasi
alterne, durante la rilettura dei miei appunti, disseminati su tutta la
scrivania.
Vedendo la data sul calendario fui preso quasi dal panico, visto che il
termine per la consegna del romanzo era sempre più vicina.
Non più tardi di qualche giorno prima, il mio editore mi
aveva chiamato per farmi pressione, visto che ero la fonte
più remunerativa per loro.
L’indomani mattina, dopo aver indossato abiti informali, mi
recai all’istituto, anche se la ritenevo una seccatura non me
la sentivo di ignorare un impegno preso, la mia speranza era che fosse
una cosa breve e che non comportasse perdita di tempo, visto il momento
delicato.
L’edificio dell’organizzazione per i giovani era
grande e talmente vecchio, che avrebbe avuto bisogno di un restauro .
Aveva un ampio giardino con un viale in mezzo che portava direttamente
all’ingresso della struttura circondata da grandi mura.
Entrando dal portone principale chiesi ad una signorina vestita in modo
sobrio e dai tratti gentili se poteva indicarmi l’ufficio
della direttrice.
Molto cordialmente mi indicò il percorso per raggiungerlo,
una volta ringraziata, mi misi in marcia per trovarlo.
Dopo alcune rampe di scale, e dopo essermi perso almeno due volte,
riuscii finalmente a raggiungere la mia meta e bussare alla porta.
“Avanti”
“Buongiorno sono Alberto Lombardo, ci siamo sentiti ieri al
telefono” esordii dopo aver chiuso la porta alle mie spalle.
“Buongiorno anche a lei, l’ho riconosciuta subito
anch’io leggo i suoi libri… prego si
accomodi” mi disse con un sorriso.
“Signor Lombardo le ho chiesto di venire qui,
perché ho alcune comunicazioni da darle”
continuò lei, diventando subito seria.
“Mi dica, spero niente di grave” volevo essere
sarcastico, ma il suo volto me lo impediva e la mia espressione fu
altrettanto seria.
“Lei conosce Maria di Chiara?” mi chiese scandendo
bene il nome.
Mi chiedeva se conoscevo l’unica ragazza che avevo mai amato,
ma che purtroppo aveva deciso di lasciarmi con una lettera, su cui
avevo riversato lacrime di dolore.
“Si, la conosco, ma sono anni che non so più
niente di lei” le dissi quando mi riscossi dai tristi ricordi
che mi ottenebravano la mente.
“Mi spiace informarla che purtroppo è morta tre
mesi fa di cancro al seno” mi disse con molto tatto.
La notizia mi aveva gelato il sangue nelle vene, dovetti farmi forza
per non disperarmi, ero stupito che la rivelazione della sua morte,
poteva avere questo effetto su di me, pensavo di averla dimenticata
dopo tutti questi anni e invece il suo ricordo mi attraversò
anima e cuore, toccandomi nel profondo. Evidentemente non ero riuscito
a spezzare il legame profondo che ci univa.
“Mi scusi se la notizia l’ha turbata, ma era
necessario che lei sapesse” mi disse lei visto che era da
quasi un minuto che non avevo reazioni.
“Mi perdoni lei… è solo che non
è facile accettare questa sua notizia, ma non capisco
perché sia stata lei a dirmelo” per fortuna
sembrava che una parte del mio cervello, quella razionale, avesse
deciso di tornare a funzionare, visto che quella emotiva era in lutto.
“Deve sapere che Maria aveva una figlia, la bambina ora ha
dodici anni, e dopo la sua morte era stata affidata alla sorella di
lei. Purtroppo la zia è finita in prigione in attesa di
giudizio e la piccola è stata portata qui. Parlando con un
assistente sociale ci è sembrato opportuno che la bambina
venisse affidata al padre” disse concisa.
“Mi scusi, continuo a non capire” non riuscivo a
comprendere il mio ruolo nella vicenda.
“Non sa di essere il padre di Giada?” mi chiese
stupita.
La mia espressione di stupore con occhi sgranati e bocca aperta doveva
averla convinta di avere di fronte un uomo che era appena caduto dalle
nuvole, perché prese un documento e me lo
consegnò.
“Come può vedere questo è il
certificato di nascita di Giada e c’è il suo nome,
pensavo che non avesse riconosciuto la bambina visto che manca la sua
firma, ma non credevo che non fosse a conoscenza della sua
esistenza” mi disse sorpresa.
“È così, non lo
sapevo…” il certificato riportava il mio nome,
un'unica domanda continuava a girarmi nella testa: perché
Maria non me l’aveva detto?
“Capisco che per oggi lei ha ricevuto troppe emozioni, ma le
chiederei se almeno per domani volesse dirmi quali sono le sue
intenzioni per Giada” mi chiese gentilmente.
“Posso vederla?” fu tutto quello che riuscii a dire.
“Certo, mi segua” mi disse alzandosi dalla
scrivania.
Mi guidò per l’istituto per vedere per la prima
volta… mia figlia. Non potevo credere a tutto ciò
che mi stava succedendo, troppe emozioni tutte insieme. Non capivo come
facessi a rimanere così calmo.
“Eccola… è la bambina dai capelli neri
seduta isolata nell’angolo” mi disse sorridendo.
Alzando lo sguardo su di lei non avevo dubbi che fosse figlia di Maria,
assomigliava a lei in modo impressionante stessi capelli e stessi
tratti del viso, gli occhi da quella distanza non riuscivo a capire se
fossero uguali a suoi, ma una domanda si fece strada dentro di me, era
veramente mia figlia?
“Vuole andare a parlargli?” mi chiese con fare
rassicurante.
“Potrebbe tralasciare almeno per il momento di dirle che sono
suo padre?” anche perché non c’era
certezza in questa rivelazione.
“Come vuole… possiamo dirle che era un amico della
madre almeno” dal suo tono capii, che sapeva che io nutrivo
dei dubbi sul fatto di essere il padre della bambina.
“Sono d’accordo, procediamo” mi occorse
tutto il mio coraggio per percorrere quei pochi metri che mi separavano
da Giada… da mia figlia.
Eravamo a un passo da lei che era intenta a leggere un libro, aveva
un’espressione così assorta, che dubitavo che ci
avesse sentito arrivare.
“Giada… voglio presentarti un amico di tua
madre” le disse in modo cordiale.
Sembrava che non volesse staccare gli occhi dal libro, ma poi con fare
stizzito lo chiuse non prima di averci messo il segnalibro per segnare
la pagina.
“Non potevate aspettare… la storia cominciava ad
essere bellissima” disse lamentandosi mentre ci guardava
negli occhi.
Fu in quel momento che ebbi il mio terzo shock della giornata,
perché Giada aveva gli stessi occhi di mia madre, lo stesso
azzurro chiaro che anch’io avevo ereditato da lei. Non avevo
bisogno di altre prove, perché in quel momento ero certo che
la bambina di fronte a me era mia figlia.
“Piacere sono Giada, qual è il suo
nome?” cercava di essere gentile, ma era ancora infastidita
di essere stata interrotta.
“Mi chiamo Alberto Lombardo… e sono tuo
padre” non sapevo perché lo avessi detto in quel
momento, forse mi ero lasciato trascinare dalla situazione e da tutte
le emozioni provate in poco tempo.
“Razza di…” la sua espressione era
cambiata, i suoi occhi erano pieni di risentimento e tutto il suo viso
si deformò in una maschera di puro odio, si fece avanti
cercando di colpirmi con calci e pugni.
“Perché sei venuto! Hai abbandonato la mamma!
Schifoso… “ sono sicuro che mi rivolse altri
insulti, ma non vi feci caso, ero troppo sconvolto dalla sua reazione
furiosa e incontrollata.
Solo l’intervento della direttrice e di un’altra
insegnante riuscì a smorzare la sua furia.
Mi sedetti sulla sedia, la stessa che lei aveva usato per leggere,
perché sentivo le gambe cedermi sotto il peso delle continue
rivelazioni, che mi erano piombate in poco tempo. Avevo bisogno di
recuperare almeno una parte delle forze che gli eventi mi avevano
prosciugato.
Non ero cosciente del tempo che trascorreva, ero in evidente stato di
shock.
“Signor Lombardo…” la voce della
direttrice mi riscosse.
“Mi scusi… vorrei andare a casa, ho bisogno di
riflettere e parlare con qualcuno… posso chiamarla io per
favore?” avevo una voce strana lo percepivo distintamente.
“Ma certo… è sicuro che ce la
farà a tornare a casa da solo?” era molto
preoccupato.
“Credo di no, chiamerò una mia amica per farmi
venire a prendere” dissi meccanicamente.
Chiamai Noemi supplicandola di venirmi a prendere e, capendo dal mio
tono che c’era qualcosa che non andava, mi rispose che
sarebbe venuta al più presto.
Dopo averle dato l’indirizzo, chiusi il cellulare salutai la
direttrice e mi avviai verso l’uscita.
Mentre aspettavo l’arrivo di Noemi mi misi a sedere su una
panchina del parco vicino all’istituto, continuavo a rivedere
l’espressione animalesca di Giada e mi chiedevo che cosa le
avevano raccontato per odiarmi in modo così violento?
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