Capitolo
1
Mi
chiamo Sorrento Seebacher
Mi
chiamo Sorrento Seebacher.
Sareste
così gentili da voler
ascoltare la mia storia?
Tranquilli,
non vi spaventate!
Non è poi così lunga.
A
modo suo, nonostante i vari
risvolti, è una storia che è andata a lieto fine.
Anzi,
perché fine?
Che
il Sommo Poseidone, signore
dei mari, non si risvegli più? Non voglio crederci, e nutro
la speranza che,
prima o poi io possa tornare ad allietare le sue giornate con il mio
flauto.
Sono
nato il 10 settembre in
Austria.
Di
mio padre non so molto, ad
essere onesti: ricordo che aveva un negozio di strumenti musicali.
Molto
probabilmente proprio per
questo mi innamorai sin da subito della musica.
Ricordo
che mio padre mi regalò,
da piccolo, un violino per il mio decimo compleanno.
Questo
è l’ultima memoria che ho
di mio padre: dopo sei mesi morì.
Andò
a Vienna per partecipare ad
una mostra di strumenti musicali. Il Fato volle, però, che
il ponte che egli
stava attraversando con il suo carro cedesse, e che precipitasse dentro.
Più
semplicemente, annegò.
Chi
avrebbe mai pensato che la
mia vita sarebbe stata stravolta sin dall’infanzia
dall’acqua, alla quale sarei
rimasto legato per anni e anni al cospetto del grande Poseidone?
Il
fato a volte è ironico, se non
crudele.
Ricordo
che il fiume non esitò a
mangiare il corpo di mio padre, tanto da non poterlo più
riavere indietro per
offrirgli una sepoltura degna di questo nome.
La
nostra situazione economica
non era delle migliori, e mia madre dovette lavorare sodo per darmi
un’istruzione adeguata.
Abbandonai
i miei studi di
violino e decisi di studiare il flauto traverso.
In
realtà gli strumenti a fiato
non mi avevano mai appassionato più di tanto, ma quella
decisione veniva
davvero dal mio profondo. Anzi, era più come se qualcuno me
lo avesse
suggerito.
All’età
di dieci anni non sapevo
quanto sarebbe valsa quella mia decisione!
A
scuola mi dedicavo anima e
corpo negli studi, e per questo non riuscii a socializzare molto con i
miei
compagni.
Forse
era anche un po’ colpa del
mio aspetto bizzarro: non è normale trovare sulla faccia
della Terra un bambino
dai capelli viola e gli occhi color amaranto!
Si
sa: i bambini per certe cose
sono piuttosto schizzinosi, non sono in grado di accettare come alcuni
adulti
gli “scherzi” di Madre Natura.
In
ogni caso, anche se con
qualche difficoltà riuscii a stringere amicizia con due
ragazzi: Florian e
Theresa.
Erano
i miei migliori amici.
Ancora
oggi, di tanto in tanto,
mi chiedo che fine abbiano fatto.
Sono
vivi? Sono morti? Sono
Sposati? Hanno figli? Che lavoro fanno?
Ma
soprattutto…
Si
ricordano ancora di me?
Andiamo
con ordine, però!
Conobbi
Florian e Theresa il
primo giorno di scuola. Me ne stavo appoggiato alla parete in fondo
all’aula
perso nei miei pensieri, senza ricordare davvero dove mi trovassi.
Mi
lanciarono una pallina di carta.
Mi chinai e la presi in mano. Poi mi guardai intorno per capire chi me
l’avesse
lanciata.
Sulla
porta c’era un ragazzino
che odiavo dal primo momento che vidi.
L’astio
era tale che non
ricordavo mai il suo nome, e nemmeno oggi riesco a ricordarlo:
evidentemente la
sua esistenza, per me, contava davvero poco.
Sghignazzò
ed era curioso di
vedere la mia reazione.
Vedendo
che me ne restavo per i
fatti miei senza considerarlo davvero più di tanto quello
iniziò ad urlarmi
contro.
-Mostro!
Chi nasce con i capelli
viola non è normale, lo sai?-
“Non
considerarlo! Tanto prima o
poi deve stancarsi!” pensavo.
-E
forse nelle mutande non hai
niente! Sei una femminuccia!- mi urlò, ridendo e
coinvolgendo qualche altro.
Ero
letteralmente mortificato.
Tremavo,
non sapevo cosa dire,
come reagire, se reagire.
Quello
che riuscii a fare fu solo
inumidirmi gli occhi e chinare il capo per terra.
Non
volevo farmi vedere che stavo
piangendo, per cui mi girai verso il mio giubbotto fingendo di cercare
qualcosa
nelle tasche.
La
campanella, disgraziatamente,
ritardava a suonare, e io non sapevo che fare.
Non
potevo mica restare rivolto
verso l’attaccapanni tutto il tempo!
Fu
allora che mi sentii chiamare
da una manina.
-Hey,
lascialo stare…-
Era
una voce femminile a parlare.
Mi
girai che non riuscivo più a
trattenere le lacrime, e piani.
Dopo
qualche istante mi pulii il
viso con la manica della divisa.
Mi
rivolsi verso la ragazza, e
notai che dietro ci stava anche un bambino, che mi guardava,
incuriosito, senza
odio, innocente.
Abbozzai
ad un sorriso, e non
riuscii a fare nulla di più.
-Theresa
e Florian- disse,
indicando prima sé stessa e poi l’altro.
-Sorrento…-
mormorai; ero ancora
così agitato da non scandire bene le parole; i due, infatti,
si sporsero in
avanti, non avendo sentito.
Mi
schiarii la voce: -Sorrento-
dissi, fiero del mio nome.
Mi
sorrisero e poi se ne andarono
ai loro posti.
Nei
giorni a seguire parlavo con
loro due sempre più spesso, e nacque fra noi un legame
davvero forte, quasi
fraterno, di cui ancora oggi ne conservo il dolce ricordo e assaporo la
triste
nostalgia.
Ogni
volta che tornavo a casa,
mia madre mi chiedeva come fosse andata la giornata a scuola; anche se
ero
piccolo, riuscivo a capire che la cosa non le interessasse davvero
molto: la
perdita di mio padre era ancora recente, e lei, in particolare,
l’avvertiva
ancora come une ferita che continua sempre a sanguinare senza mai
rimarginarsi.
In
ogni caso le rispondevo che
tutto andava bene e che stavo stringendo amicizia con Theresa e Florian.
Allora
lei mi accarezzava il viso
e mi preparava da mangiare.
Ed
io, vedendola, puntualmente,
stavo male, nonostante fossi un semplice bambino di soli dieci anni
avevo una
fortissima empatia. Alla fine, col passare del tempo, mia madre se ne
fece una
ragione, e si riprese: ritornò alla vita dopo questo stato
di pseudo-morte.
Tutto
andava per il meglio, il
lavoro di mia madre portava a casa i suoi benefici, e sotto il tetto di
casa
Seebacher non mancò mai nulla.
Un
giorno, esattamente dopo sette
mesi dalla morte di mio padre, ricordo che stavo in camera e suonavo il
flauto:
aveva appena finito la parte di solfeggio e iniziavo a dilettarmi nelle
prime
melodie.
Erano
di una facilità
sconcertante, ma per me, un novellino nell’uso del flauto,
erano davvero
impegnative.
Però
ero comunque concittadino di
molti compositori, Mozart su tutti.
“Ed
io non sarò da meno!” pensai,
mentre voltavo la pagina dello spartito, quando mia madre
entrò in stanza e mi
abbracciò forte.
Spaventato,
mi ficcai anche il
flauto nell’occhio, ma vedere mia madre ridere era uno
spettacolo che valeva la
pena di quel piccolo dolore.
-Che
succede?- le chiesi, quando
si calmò.
-E’
arrivata una lettera
dall’Italia, è di tua zia Selene! Ci ha invitati a
Venezia!-
Guardai
mia madre stupefatto.
-Venezia…-
le dissi, guardandola
come se fosse una dea e con tutto lo stupore possibile.
“La
città galleggiante!” pensai.
-Quando
ci andiamo?- le chiesi,
non appena riacquistai un filo di voce.
-Fra
una settimana!- rispose lei,
sistemandomi il vestito e esaminando l’occhio, che si era un
po’ gonfiato.
Stupidamente,
anzi, in maniera
molto puerile, pensai: “Finalmente andrò in
gondola”. Per me sarebbe stato il
massimo!
Come
stabilito, una settimana
dopo partimmo alla volta della Laguna veneta.
La
prima cosa che notai di
Venezia, non appena misi piede in terra, era l’odore.
Dopo
qualche minuto il mio corpo
si era già abituato, e non ci feci più caso,
anche perché ero troppo impegnato
a guardarmi intorno.
Salutammo
gli zii, a piedi,
facemmo un rapido giro della città.
-In
questi giorni, poi, la
visiterete con più calma!- disse zia Selene.
Passammo
davanti a Palazzo Seta,
la Basilica di San Marco, la Torre dell’Orologio.
Ero
stupefatto da tutta
quest’arte che mi circondava, anche se i miei occhi di tanto
in tanto
guizzavano verso i canali, dove i gondolieri scorrazzavano la gente di
qua e di
là, fornendo anche indicazioni e descrizioni della
città.
Gli
altri evidentemente se ne
accorsero, perché sentii dire mia madre dire: -Se non lo
porto in gondola è
capace che si ammazza!-
Fermarono
la prima barca vuota, e
il viaggio ebbe inizio.
Ricordo
che dopo aver solcato un
po’ quelli che erano i canali più importanti, zia
Selene disse di andare verso
il mare aperto, per vedere Venezia in tutta la sua interezza.
Ci
lanciammo, allora, verso il
mare aperto: fu allora che accade.
Uno
scossone fece sussultare
l’imbarcazione, tanto che, impauriti, tutti, gondoliere
compreso, ci arpionammo
letteralmente all’imbarcazione.
La
barca, allora, prese
inizialmente a girare su sé stessa, poi sempre
più velocemente.
-SONO
LE CORRENTI!- urlò il
nocchiere, cercando di riportare la gondola su acque più
calme.
I
suoi tentativi, però, furono
vani: la gondola girò sempre più velocemente,
come una trottola impazzita e poi
un colpo la prese dal basso.
La
barca venne spezzata in due di
netto, precipitando e portandoci con sé.
Non
appena il mio corpo fu
sott’acqua, non sentii più nulla.
La
vista era annebbiata, ma
scorsi le figure di mia madre e i miei zii che nonostante tutto, invece
di
risalire, andavano sempre più giù, e del
gondoliere, che perdeva sangue dalla
testa.
Non
potevo respirare, ma i miei
polmoni reclamavano ossigeno, la cui mancanza non fece altro che farmi
perdere
coscienza del mio corpo.
L’udito
era come se non mi fosse
mai appartenuto, e questo muto e umido silenzio mi spaventava.
Presi
a tremare, e a perdere
coscienza: dovevo respirare, ma non potevo.
“Muoio”
pensai.
Sentii
il mio corpo scivolare
verso il fondo.
Svenni.
|