1.
Make
a bet.
Ero
esterrefatta.
Non potevo credere alla scena che avevo davanti a me: uomo, 1.95,
bello,
muscoloso, corpo nudo scoperto fino alla vita. E poi sguardo
ammaliatore,
sicurezza di sé percepibile a chilometri di distanza
e… lacrime agli occhi.
Che
cosa?
Il
ragazzo sapeva
decisamente come spegnere il desiderio di una donna. O meglio, sapeva
come
ucciderlo, farlo a pezzi e gettarlo dalla finestra.
Non
sapevo che
dire, mentre mi appoggiavo con la schiena alla testiera del letto del
suo
appartamento a Chelsea, tra i migliori quartieri di Londra, cercando di
recuperare il lenzuolo per coprirmi il seno.
Non
era di certo
la situazione a cui mi aspettavo di assistere dopo una notte di sesso
folle con
Ralph J, uno dei più famosi rapper nello scenario europeo
degli ultimi cinque
anni. Un tipo tutto palestra, tatuaggi, parolacce e dischi di successo.
I testi
delle sue canzoni erano così pieni di rabbia e violenti che
avrebbero fatto
apparire il più spietato dei dittatori come un misero
bulletto ruba merendine.
E
ora stava
piangendo. Lo guardai perplessa e lui sembrò percepire il
mio stupore, misto ad
imbarazzo.
-
Scusa, Sam - mi
disse. - Ma era tanto tempo che non facevo l’amore.
Alt!
Come? Sperai
ardentemente di aver sentito male, perché la sera prima mi
era sembrato di
essere stata piuttosto chiara a riguardo.
L’avevo
intercettato dopo il suo concerto al centro di Londra, in un club
privato dove
avevo avuto accesso al backstage grazie al mio lavoro di giornalista
per Music Magazine, un mensile nato
da una
decina di anni. Adoravo scrivere per quella rivista, anche se
relativamente
nuova, soprattutto dal momento che mi aveva fornito
l’occasione perfetta per
conciliare le mie due più grandi passioni: la musica e la
carta stampata.
Dopo
gli anni del
college, in cui avevo lavorato sodo per conquistarmi la laurea in
giornalismo e
comunicazione, con grande sforzo economico anche dei miei, ero riuscita
a farmi
assumere nella redazione di un importante giornale della mia
città natale,
Glasgow. All’inizio era stato piuttosto difficile riuscire a
farsi assegnare
qualche pezzo da scrivere che non fosse l’ordinazione del
pranzo di uno dei
capi; poi, però, grazie a Dio - e alla nascente amicizia tra
me e Valerie
Dupont, una delle caporedattrici -, avevano cominciato a pubblicare
qualche mio
pezzo, finché mi avevano affidato una rubrica settimanale
tutta mia, di modesto
successo, sui musicisti locali, dal titolo Aprite
le orecchie!. Potevo ritenermi abbastanza soddisfatta, ma
quello stronzo
del signor Larson, l‘editore, mi trattava ancora come fossi
l‘ultima ruota del
carro.
Poi
un giorno
Valerie era uscita dall’ufficio del direttore, sbattendo la
porta e gridando
che mai più avrebbe messo piede “in
una
redazione in cui puoi far carriera solo se hai il pisello”.
Soltanto un
paio di settimane più tardi, quando l’avevo
dichiarata ormai dispersa, mi aveva
contattata scusandosi per non aver mai risposto alle chiamate e
offrendomi un
posto per il magazine di cui era diventata socia, MM
appunto. Era stata in vacanza per dieci giorni in Tibet in
completa solitudine, isolata dal mondo e, a giudicare dal brio della
sua voce,
le aveva fatto proprio bene.
Naturalmente
avevo
accettato: fuggire dai miei capi e dalla mia triste città
era esattamente
quello di cui avevo più bisogno. Glasgow per certi aspetti
era tutto per me:
famiglia, amici e ricordi vi avrebbero vissuto per sempre.
Però non mi bastava.
L’avevo sempre trovata così piccola e fuori posto.
Cioè, pensi alla Scozia e ti
vengono in mente Sean Connery, il kilt, paesaggi mozzafiato…
e Glasgow non ha
nulla di tutto questo, se non un immenso grigiore che pervade tutti gli
edifici
e che finisce, inevitabilmente, col macchiarti anche l‘umore.
Certo,
nemmeno
Londra è esattamente un tripudio di colori, ma tutti quei
turisti, tutti quei
monumenti di epoche lontane, la fanno sembrare sempre viva. E poi i
cieli
dell’Inghilterra, che ritrovavo nelle tele del pittore
Constable, avevano
sempre avuto su di me un certo effetto; sin da piccina quando venivo
nella
capitale con i miei o a trovare i nonni a Manchester, mi bastava
guardare
all’insù, verso le nuvole e le stelle, verso
quello spazio infinito che mi
sovrastava in tutte le tonalità di blu, per sentirmi bene,
libera.
Perciò
non era
stato un gran trauma trasferirmi, lasciandomi alle spalle la mia
infanzia e
quanto ad essa era allegato.
Da
due anni vivevo
in un appartamento ben curato, a Mayfair, con il mio gatto Romeo, un
bel
micione tutto nero. Al diavolo la superstizione! Lui c’era
sempre per me, mi
ascoltava e in cambio chiedeva solo qualche coccola.
Ero
felice della
mia vita e soprattutto del mio lavoro, che costituiva la fonte delle
mie
maggiori soddisfazioni, oltre, chiaramente, alle avventure sessuali - e
non
romantiche - che talvolta mi allietavano nelle serate in cui non ero
impegnata
a scrivere. Poi, però, alle volte capitano situazioni come
quelle con Ralph che
ti costringono a riflettere e inizi a capire che forse non è
stata la scelta
migliore lasciare che un gioco sconvolgesse la tua esistenza. Stupida, stupida Sam! Tutto è
cominciato
esattamente quattro mesi fa, qualche giorno prima del matrimonio di
Valerie con
Jonathan, un affascinante e simpatico cardiochirurgo irlandese. Per
rispettare
la tradizione, le colleghe dell’ufficio e la sottoscritta
avevano organizzato
un addio al nubilato degno di questo nome: giro di bevute in alcuni bar
e pub e
gran finale in uno strip club a Soho, il Pumping
Pumpkin. Dio solo sa cosa non vedemmo quella sera! Credo che
Amanda, la
direttrice delle pubbliche relazioni di MM
non dimenticherà facilmente quel body shot da parte di
José, un cubano da far
girare la testa che avrà avuto quindici anni e due figli in
meno di lei.
Come
dimenticare
poi Ronald con quegli addominali su cui avresti potuto giocare a
biglie, o i
bicipiti forti di Sean, o… Nicholas.
Nick è esattamente la ragione per cui il mio mondo
è cominciato a girare al
contrario.
Ricordo
che quella
sera si era avvicinato a noi con fare sicuro, vestito, per
così dire, da vigile
del fuoco. Più che altro sembrava un pompiere appena
scampato ad un incendio in
cui doveva essersi bruciata la parte superiore della tuta. Rimanevano
soltanto
le bretelle sul petto nudo, i pantaloni leggermente abbassati in vita,
tanto da
mostrare l’elastico dei boxer, e un inutile berretto in
testa.
Era
alto, fisico
scolpito, occhi di un azzurro chiarissimo che mi ricordava il ghiaccio
e
capelli castano chiaro mossi; per farla breve, quello che si definisce
un bel
ragazzo, tutto cosparso di olio, come d’altro canto anche gli
altri, neanche
fossimo ad una gara di body building o su di una spiaggia ai tropici.
Le
prime parole
che ci rivolse potevano essere state tranquillamente prese da un film
porno
della più bassa lega esistente.
-
Devo forse
spegnere un incendio qui? O volete che lo accenda? - aveva detto,
ondeggiando
il bacino verso Val, indicata da tutte come la festeggiata.
Oddio. Squallido
e banale. Ero quasi
disgustata, ma dopo qualche secondo mi resi conto che il mio corpo e la
mia
mente non andavano di pari passo: stavo ridendo come una pazza seguita
a ruota
da Val, Amanda, Jade e Katy. Tutto si spiegava molto semplicemente con
i litri
di alcool che avevamo in circolo: tequila, vodka, rum… non
c’eravamo fatte
mancare nulla. Nick si destreggiava tra noi cinque, dispensando
sorrisi,
ammiccamenti e conducendo le nostre mani vicino al suo corpo, per
sfiorarlo
appena, - cosa di cui Jade fu molto irritata.
Sembravamo
delle
ragazzine al concerto dell’idolo di turno e dovevamo apparire
parecchio
eccitate perché, ben presto, arrivarono rinforzi da bere e
da guardare.
Rimanemmo fino alla chiusura, completamente sbronze e fu solo per
miracolo se
riuscimmo ad infilarci in due taxi per tornare ciascuna alla propria
abitazione.
Il
giorno seguente
mi svegliai a mezzogiorno ancora mezza vestita, mezza truccata, ma con
un
cerchio alla testa completo. Mi alzai barcollante per specchiarmi;
sarebbe
stata una tortura, ma sapevo che era necessario per controllare i
danni.
Oh
cazzo! Era pure
peggio di quello per cui ero preparata: i capelli arruffati, il mascara
colato,
il rossetto sbavato, la camicetta esageratamente aperta con ampia vista
sul
davanzale e la cerniera della gonna davanti invece che dietro.
Guardandomi in
faccia pensai che assomigliavo al Joker
di Heath Ledger. Mi consolai vedendo che le mie Manolo Blahnik erano
sane e
salve accanto al letto. Se avessero riportato dei danni, non avrei
risposto di
me stessa. Tutto ma non le mie scarpe!
Avevo persino un armadio tutto dedicato a loro, per preservarle da
polvere e
sguardi indiscreti.
Mi
svestii con
noncuranza, con l’intenzione di ficcarmi sotto il getto
rilassante della doccia
che mi avrebbe fatto dimenticare la nottata; ma fu mentre mi apprestavo
a
togliermi il reggiseno che notai un piccolo biglietto ripiegato
più volte su se
stesso infilato tra lo spallino e la coppa. Lo aprii velocemente e ne
lessi il
contenuto con attenzione: un numero di cellulare e la frase: Mi raccomando quando sarai lucida chiamami.
C’è una scommessa in ballo e io odio perderle.
P.S: bel seno comunque! N.
Istintivamente
mi
coprii il petto, dal momento che indossavo solo gli slip. Poi,
però, mi
ricordai che ero sola in casa e la vergogna lasciò il posto
alla rabbia. Chi
cavolo si era permesso di nascondere un biglietto tra le mie tette? Chi
era
questo N.? La sera prima, al
momento,
era una nebulosa dai contorni troppo indefiniti per fornirmi qualche
indizio
valido a ricostruire il susseguirsi degli eventi. Mi serviva il
cellulare per
chiamare le altre e raccogliere informazioni. Già, ma dove
cavolo era?
Ricordavo solo di averlo messo nella borsa; il problema era che anche
quella
pareva essersi volatilizzata.
Dopo
dieci minuti
di estenuanti ricerche, mi arresi pensando che l’unica
soluzione fosse quella
di chiamare il mio cellulare dal telefono fisso. Agguantai il cordless,
composi
il numero e mi misi in allerta, pronta a captare qualsiasi rumore
provenisse da
qualche angolo recondito del mio appartamento. Mi stavo già
rilassando al
pensiero di ascoltare Wish you were here
dei Pink Floyd - sì, d’accordo non era molto
adatta come suoneria, ma l’adoravo
e mi faceva sempre pensare che fosse qualcuno di piacevole a cercarmi -
quando,
improvvisamente, realizzai che non solo David Gilmour non stava
cantando per
me, ma non c’era alcun suono nell’aria. Zero. Oh merda! fu l’unica
espressione che la mia mente partorì e la mia
mano, in automatico, si portò sulla fronte, sfregandola
energicamente.
Contattai tutte le ragazze, non riuscendo, però, a cavare un
ragno dal buco.
Non erano di certo messe meglio di me e Katy aveva persino perso una
scarpa da
qualche parte nel tragitto di ritorno. Sconsolata decisi che tanto
valeva
godersi in santa pace la doccia, lasciando i problemi fuori dal bagno
per non
meno di un quarto d’ora. Fu quando mi stavo sciacquando il
balsamo dai capelli
che un dubbio mi assalii: come potevo essere rientrata in casa se le
chiavi
erano nella borsa?! Finii di prepararmi e mi precipitai dal vicino, il
signor
Hansen, un vecchietto vedovo che abitava da solo proprio di fronte a me
che si
era offerto di dar da mangiare a Romeo nelle mie lunghe giornate al
lavoro;
aveva, quindi, un paio di chiavi di riserva.
-
Salve, Samantha!
- mi disse aprendo la porta. - Sei venuta a riportami le chiavi?
Mistero
numero uno
risolto.
-
No, signor
Hansen. Mi servono anche per oggi. Volevo ringraziarla per aver portato
Romeo
in giardino - mentii, arrossendo.
-
D’accordo. Ma
guarda che mi hai molto spaventato stanotte. Mica ti puoi attaccare al
campanello di una persona anziana come me a quelle ore!
Il
suo tono era un
poco severo e mi vergognai terribilmente per la figura barbina che
avevo fatto.
Poi lui proseguì.
- E
per Romeo sai
che non ci sono problemi - si chinò, guardando un punto
dietro di me. - E lo sai
anche tu, vero bel micione? - Mi girai e notai che il mio gatto stava
per
arrivare sul pianerottolo, dove si lasciò accarezzare dal
vecchietto che gli
porse anche qualche crocchetta.
- Mi
scusi,
davvero, E’ stata una serata… particolare,
diciamo, e ho perso la borsa.
La
fronte del
signor Hansen si corrugò, lasciando però presto
il posto ad un ampio sorriso.
- Ti
capisco, Sam.
Sono stato giovane anche io. Solo, non ho mai dimenticato le chiavi!
Bene,
e via con la
figura di merda pure con il vicino. Sorrisi imbarazzata e lui rise,
mentre mi
congedava, chiudendo la porta. Tornai in cucina per chiamare la
società dei
taxi, nella vana speranza che avessero ritrovato la mia borsa. Niente
di
niente. Ma nel frattempo chiesi che mandassero un’auto al mio
indirizzo. Aprii
il finto barattolo dei biscotti in cui tenevo qualche decina di
sterline per le
emergenze e scesi in strada ad aspettare che il taxi arrivasse.
Il Pumping Pumpkin di giorno faceva tutto
un altro effetto: sarebbe sembrato quasi un locale serio, se non fosse
stato
per quella stupida insegna color arancione che non lasciava di certo
dubbi in
merito al tipo di attività svolta all‘interno. Mi
domandai seriamente a chi
fosse venuta l’idea assurda di chiamarlo in quel modo. Misi da parte le mie
perplessità e,
vergognandomi come una ladra, entrai nel locale. Era deserto - e certo che ti aspettavi, è pomeriggio!
- tranne che per un uomo completamente calvo sulla cinquantina, intento
a
leggere delle carte sul bancone.
Ebbi
la sensazione
di essere finita in un’arancia. Tutto era di quel colore:
pareti, soffitto,
tavoli, sedie e persino le cornici degli specchi.
L’arredamento, visto alla
luce del sole che filtrava dalle finestre, era tutt’altro che
spartano: un
lungo palco, ora spento, che la sera si accendeva di mille colori, e corpi, dei lampadari arzigogolati che
pendevano dal soffitto e alle pareti innumerevoli quadri ritraenti
scene del Moulin Rouge.
Che
bello quel film… Sam! Concentrati!
Mi ricomposi e mi schiarii la gola, giusto per segnalare la mia
presenza al
pelato che, nel frattempo, non mi aveva degnato di uno sguardo.
Lui
alzò appena lo
sguardo dalle scartoffie e mi disse.
- Che
c’è? Sei qui per i provini? Perché, in
tal caso, sei in ritardo e quello non è
l’abbigliamento adatto. Scoprii di
essere più indignata per l’offesa al mio vestiario
che per essere stata
scambiata praticamente per una cubista; indossavo una normale
maglietta, una
felpa con la zip aperta, un paio di comodi jeans e uno di Converse.
Dovevo
andare in uno strip-club, non a Buckingham Palace!
-
Veramente, non è
niente di tutto questo. Sono stata qui ieri sera con delle amiche -
abbassai lo
sguardo imbarazzata. - E credo di aver dimenticato la borsa. Le
risulta?
L’uomo
mi guardò
con aria scocciata.
- Ti
sembro
l’addetto al guardaroba? - ghignò.
Ma
vaffanculo! Ero
sul punto di sbranarlo a parole e fisicamente, quando sentii i passi di
qualcuno provenire dal retro del locale.
-
Finalmente sei
arrivata, Samantha Grayson.
Mi voltai di scatto e notai
due occhi color
ghiaccio puntati su di me. Dove li avevo già visti? Uno, due tre… flashback! Dai,
cavolo… uno, due, tre! Sembravo Tobey
Maguire nei panni di Spiderman,
quando tentava disperatamente di capire come funzionassero i suoi
superpoteri.
Ma il lampo di genio non arrivò e lui dovette intuire il mio
smarrimento perché
continuò.
-
Non mi dire che
non ti ricordi di me! - Cielo, faceva pure il finto offeso. - Eppure mi
pareva
che ieri sera lo sapessi bene il mio nome, quando mi infilavi i
bigliettoni da
venti nei boxer.
Perciò
i soldi e,
quindi la borsa, ce li avevo. La goffa risata del pelato mi
riportò alla
realtà. Quella specie di adone che avevo davanti mi aveva
appena umiliato di
fronte ad un altro essere umano. Brutto per giunta… Sam! Cosa c’entra questo? Mi
distolsi dai miei pensieri e feci per
parlare, paonazza in volto, ma il ragazzo mi precedette.
-
Sono Nicholas,
comunque. Nick.
Tese
la sua mano
verso di me, ma io la ignorai.
-
Senti, senza
tante cerimonie, dammi la borsa che ho fretta.
La
voce mi uscì
dalla bocca con una durezza non voluta. Anche il mio interlocutore
sembrò
sorpreso dal mio tono trovando, però, subito una risposta da
darmi.
-
Calma Sammy,
rilassati! La tua borsa è qui.
La
prese da dietro
il bancone e me la porse.
-
Grazie - dissi
con un sorriso più falso di una dentiera, strappandola
letteralmente dalle sue
mani.
Non
controllai
nemmeno che ci fosse tutto all’interno. Volevo solo andarmene
da quel posto e
da quei due cafoni. Feci per indirizzarmi verso la porta ma lui mi
costrinse a
fermarmi.
-
Ehi, ehi. Dove
pensi di andare? Non dimentichi qualcosa? Dobbiamo discutere meglio i
termini
della nostra scommessa.
Mi
voltai di
scatto verso di lui, gli occhi sgranati.
-
Tu? – dissi,
quasi urlando.
Nicholas
annuì,
compiaciuto, con un sorriso a trentadue denti stampato in faccia.
-
Sai – cominciò.
- Ieri sera sei stata il festival dell’incoerenza. Prima ti
sei guardata lo
spettacolo con la bava alla bocca e poi ti sei prodigata in mille
discorsi
sulla morale. Sul perché se un uomo fa questo lavoro - ed
indicò il palco alle
sue spalle. – È un figo e, invece, se lo fa una
donna è una sgualdrina di poco
conto. Che filosofia spicciola, Sammy. Niente che non sia
già stato sentito e
risentito almeno un trilione di volte. Com’è che
funzioni? L’originalità la usi
solo quando scrivi in quella sottospecie di giornale?.
Lo
guardai
sorpresa; sulla morale di bassa lega non aveva tutti i torti ma,
purtroppo,
quella era stata la miglior cosa che il mio cervello ubriaco fosse
stato in
grado di produrre. Riguardo al resto, però, non potevo
starmene zitta, il mio
orgoglio dalle dimensioni del Canada ne avrebbe risentito troppo.
-
Sarà pure tutto
banale... ciò non toglie che io abbia ragione. E, a
proposito del mio lavoro,
direi che richiede molta più fantasia del tuo. Nel caso in
cui tu non te ne sia
accorto, - e dicendo questo mi sporsi verso di lui, abbassando il tono
della
voce, quasi per non farmi sentire dal pelato. - Tutti siamo in grado di
agitare
un po’ il culo e mostrarci in pubblico in intimo.
Era
esattamente in
situazioni come queste che adoravo la mia acidità,
sfoderabile nei momenti più
adatti. E nella mia mente partì una standing ovation per me
stessa. Nick, per
niente turbato, mi rispose subito. Che
palle! Odiavo gli uomini che sapevo come ribattere alle mie
frecciatine.
- Ci
vuole molta
più originalità di quanto tu possa credere. E
ieri te ne ho data ampia
dimostrazione, quando cercavi di agguantare il mio sedere con quelle
manacce.
Azz,
colpita e affondata.
Il
pelato cominciò
a ridere a crepapelle; gli lanciai un’occhiata fulminante che
lo indusse a
rifugiarsi nel retro, borbottando qualcosa d’incomprensibile.
Dovevo dire
qualcosa.
-
Pensala come
vuoi - fu l’unica cosa che la mia bocca riuscì a
dire. Tutto qua? La frase più
banale del mondo.
- Banale come sempre, Sammy.
Fantastico, sapeva pure
leggere nel pensiero.
Decisi di metterla su un altro piano, stava per cacciarmi
all’angolo.
-
Nessuno mi
chiama più così da quando avevo otto anni e non
vedo perché dovrei permettere a
uno stripper di farlo.
Nick
rise di gusto
e mi si avvicinò piano. Per la prima volta, notai quel bel
sorriso. I denti
perfetti, bianchi, che mi sovrastavano quasi del tutto
dall’alto di quel metro
e ottantacinque che doveva essere in confronto al mio metro e settanta
scarso.
In automatico, indietreggiai.
-
Non ho bisogno
del tuo permesso, Sammy.
Ero
sull’orlo di
una crisi isterica e lui parve accorgersene. Stavo per ribattere, ma
lui non me
lo permise.
- In
ogni caso non
è questo di cui voglio discutere con te.
C’è una somma di 2500 sterline in
gioco e odio perdere soldi in una scommessa.
Deglutii
e
probabilmente le mie pupille si dilatarono. 2500 sterline? Erano
più o meno il
mio stipendio mensile. Già, il mio. Lui quella cifra poteva
guadagnarla in due
o tre serate: solo noi, la sera precedente avevamo speso una somma
vicina alle
500 sterline.
-
Non so di cosa
tu stia parlando -
dissi.
- Eh
no, Sammy.
Pensi di cavartela così? Mi hai dato la tua parola
e…
- La
parola di
un’ubriaca quanto conta per te esattamente? - sbottai,
interrompendolo.
Mi
guardò severo e
proseguì.
- Se mi avessi lasciato
finire - mi apostrofò.
- Ti avrei detto che sono un gentiluomo e che quindi non ti avrei mai
imbrogliato. Per questo sono in possesso anche di un documento con la
tua firma.
Okay,
mi sta prendendo in giro, vero? VERO?
Nick
tirò fuori un
foglietto dalla tasca e mi mostrò il punto esatto in cui
doveva esserci la mia
firma e… cavolo! Eccola lì. Certo, un
po’ tremolante, ma era pur sempre la mia.
Fu
allora che
decisi che era il momento di adottare la tecnica che mia sorella
maggiore Lily
mi aveva insegnato ancora ai tempi dell’asilo: negare anche
di fronte
all’evidenza. Poco etica, senza dubbio, pure un po’
rischiosa, ma successo
garantito al 99%. Cominciai la pantomima con una risata degna di
Ursula, la
cattiva de La Sirenetta.
-
Tesoro, - Sam,
non strafare! - Questa non assomiglia neanche lontanamente alla mia
firma.
E
ora datemi l’Oscar.
Fu
allora che
accadde l’imprevisto: lui sorrise, come se si fosse aspettato
la mia reazione,
sparì per pochi secondi nel retro e tornò con un
oggetto in mano. Si avvicinò a
grandi passi a me e me lo porse. Una macchina fotografica che stava
riproducendo un video.
“Sammy
fai ciao con la mano al tuo Nick”. Riconobbi
immediatamente i suoi occhi di ghiaccio e la mia mano che salutava
l’obbiettivo.
“Nick…
- risate infinite. - Come sei bello… ”. Dio, ma come
mi riduco quando bevo? D’ora in poi
tequila lungi da me.
“Sammy,
cucciola, cosa stai facendo? Dillo al tuo amico Nick. Cosa stai
firmando?”. Subdolo.
Ancora risa. E la mano
di Katy davanti alla bocca prima di correre in bagno a vomitare.
“Sto
firmando la nostra scommessa”.
La mia risposta era
uscita così
spontanea e naturale dalla mia bocca che persino io, nel video,
sembravo
essermene stupita.
Seguiva
un primo
piano di me che firmavo il foglio.
Porca.
Miseria. Ora come mi tiro fuori da questa situazione?
Non
solo ero
ricaduta nell’1% di probabilità
d’insuccesso della teoria di Lily, ma ero stata
battuta per KO tecnico.
-
Vuoi anche lo
zoom per verificare che sia veramente tu quella che scrive? - mi chiese
sghignazzando.
E
quella risata cristallina
mi fece capire che non sarebbe stato così facile liberarsi
di una scommessa
fatta da ubriaca ad un ballerino sconosciuto di uno strip-club.
Let’s
make a bet
We'll
make a bargain and call this truce
Let's
make a bet
I'm
in loss and win or lose with you.
Il
titolo di ogni capitolo fa e farà riferimento ad una canzone
di vari autori, modificata o meno a seconda della necessità.
Anche alla fine
del capitolo c’è una strofa della stessa canzone.
Per
questa prima parte della storia ho scelto una canzone dei
Foo Fighters, dall’omonimo titolo.
S.
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