Dramma
umano in tre atti
Personaggi
In ordine
di ingresso:
Isidoro
– Narratore
Banditore
Bernardo
la Morte
Duca
Leonora
Mendicante
Custode
Suora
Carceriere
Contadino
Adelaide
Direttore
Sguattera
Stefanio
Comparse:
Condannati
Guardie
Folla
Carcerieri
Musici
Nobiltà
Atto
primo
Tutti
morimmo a stento
ingoiando
l'ultima voce
tirando
calci al vento
vedemmo
sfumare la luce.
L'urlo
travolse il sole
l'aria
divenne stretta
cristalli
di parole
l'ultima
bestemmia detta.
Prima
che fosse finita
ricordammo
a chi vive ancora
che
il prezzo fu la vita
per
il male fatto in un'ora.
Poi
scivolammo nel gelo
di
una morte senza abbandono
recitando
l'antico credo
di
chi muore senza perdono.
(La
ballata degli impiccati)
Prologo
La
Morte arriva cantando una filastrocca infantile, vestita di nero e
pallida in volto. Non te l'aspetti, che la Morte abbia l'aspetto di
una gracile ragazzina.
Si
fa vedere subito prima del decesso: assiste al trapasso senza battere
ciglio, poi prende il cadavere e se ne va, quasi fosse venuta per
gettare la spazzatura. Il suo volto non lascia mai trasparire
un'emozione.
Io
mi chiamo Isidoro. Sono l'apprendista del mastro boia del ducato di
Milano, Bernardo Sasso. Il mio lavoro mi porta molto spesso a
contatto con la Morte, praticamente ogni domenica, dato il gran
bisogno di esecuzioni. Di questi tempi, sembra che infrangere la
legge valga sempre la pena di farsi impiccare o mozzare qualche parte
del corpo. Sono tempi orrendi. Eppure, tutti hanno una paura folle
della Morte, per primi quelli che vengono a vedere le esecuzioni.
Ormai sono solo feticci per scongiurare la paura che un giorno
toccherà a chiunque.
Ormai
ho quasi imparato la sua canzoncina. Spesso mi scopro a canticchiarla
nella mia testa, mentre assisto il maestro sul patibolo: siamo tutti
lì in piedi – io, il maestro, le guardie, il banditore e lei – e
a me frulla nel cervello quel motivetto infantile.
In
un'occasione come questa, la Morte mi ha guardato. Subito ho notato i
colore dei suoi occhi, verde freddo. Forse credevo di averci fatto
l'abitudine, forse ormai la sua presenza non mi impressionava più,
fatto sta che non l'avevo mai notato. Credo che avrei dovuto
spaventarmi, ma per il valore che davo alla vita, guardare negli
occhi la Morte risultava una cosa del tutto normale. Fu a quel punto
che lessi nel suo sguardo curiosità.
Mi stava studiando, mentre intanto l'esecuzione procedeva. Dovetti
aiutare il maestro a legare il condannato al cappio; il suo sguardo
era tornato fisso nel nulla. La botola si aprì, il condannato cadde
e morì dopo un minuto o poco più, lei lo prese e lo portò via.
Mi
resi conto di essere rimasto turbato. Se per me era normale guardare
la Morte, per lei non era per niente usuale posare lo sguardo su
qualcosa che non fosse un cadavere. Il fatto che l'avesse fatto non
cambiava la sua posizione di astratta inumanità, ma di colpo mi
accorsi che la Morte ha un corpo, un volto e un colore degli occhi,
non è solo una paura lontana o un momento fastidioso alla fine della
vita di ciascuno.
Eppure
quel piccolo cambiamento alimentò i miei pensieri fino alla domenica
successiva, data fissata per l'esecuzione di un gruppo di briganti.
Scena
uno
Questa
volta le guardie sono dieci, due per ogni condannato. Otto circondano
il palco, due sono sul patibolo. Il banditore prende a strillare il
suo annuncio, mentre io e il maestro controlliamo la tenuta dei
cappi. Dietro alle forche c'è la Morte.
Il
banditore termina di urlare e noi ci apprestiamo a far salire i
condannati sul palco; dopo di che io mi posiziono accanto alla morte
e il maestro li informa che hanno diritto di parola. Mi volto per
vedere la sua espressione e scopro che mi sta ancora fissando, sempre
con quella curiosità aliena.
I
condannati sono chiusi in un silenzio ostinato e rifiutano di
parlare. Il maestro quindi, partendo da sinistra, apre una ad una le
botole ed i cinque condannati cadono con un tonfo e un rantolo.
Ci
sono due modi di morire durante un'impiccagione: il primo, più
rapido e frequente, è spezzarsi il collo; il secondo, se il
condannato è piuttosto robusto, è il soffocamento.
Quattro
dei cinque muoiono subito, il quinto resiste all'urto e comincia a
dibattersi, emettendo dei suoni strozzati. La morte, che fino a quel
momento aveva avuto lo sguardo fisso su di me, d'un tratto si dirige
verso i quattro deceduti. Io le sussurro:
ISIDORO: Aspetta!
Confesso
che non mi sarei mai aspettato di fermarla, eppure si ferma e
riprende a fissarmi. Ora che siamo faccia a faccia però non ho idea
di cosa dirle. Mentre ci penso i lamenti dell'uomo agonizzante
proseguono. Normalmente per strangolamento si muore in meno di due
minuti, lui li ha quasi raggiunti e la folla comincia a insultarlo e
a tirargli pietre.
MORTE:
Se hai qualcosa da dire, ti prego di farlo in fretta.
La
Morte si sta rivolgendo proprio a me. Così la Morte ha anche una
voce. Non l'avevo immaginata così. Non l'avevo immaginata affatto.
Era una voce normale: femminile, acerba, dolce.
MORTE:
Sono passati due minuti. Perdonami, ma devo...
ISIDORO: Perché
mi fissavi?
MORTE:
Ti ho sentito cantare la mia filastrocca. Ero curiosa. Cercavo di
capire
che
tipo è uno che guarda la Morte in faccia.
ISIDORO: Quanti
anni hai?
MORTE: Non
lo so. Più di quelli che tu e io possiamo contare. Comunque il
tempo per me non ha significato, quindi non saprei davvero.
Quell'uomo invece è oltre il suo tempo, devo andare. Mi
piacerebbe parlarti ancora.
E,
detto ciò, sull'ultimo condannato sopraggiunge la Morte, che porta
via anche gli altri quattro.
Scena
due
Mentre
stavo studiando il grosso volume del codice penale del Ducato, il
maestro è venuto a chiamarmi. Ha detto semplicemente: “Il duca ci
ha convocato”.
Sono
rimasto abbastanza sorpreso, dato che il Duca non è il tipo da
prendere un'iniziativa, o almeno non lo è più. È vecchio e stufo e
di solito affida tutte ai suoi funzionari, consiglieri e tirapiedi.
Il suo ruolo non è quasi nemmeno più di rappresentanza: firma i
proclami senza leggerli e assiste di malavoglia alla esecuzioni,
preferendo di gran lunga le festicciole tra nobili che lui stesso
sovente organizza. Per questo la nostra convocazione mi è sembrata
allarmante, o quanto meno strana, ma ora, in piedi davanti a lui,
sono informato del motivo.
DUCA: Ho
assistito all'impiccagione di ieri.
La
sua voce è nasale e mielosa, molto più vitale del solito.
DUCA:
Ho assistito e ho visto.
Mi avete molto impressionato.
BERNARDO: A
cosa vi state riferendo, vostra signoria?
DUCA: Mastro
Bernardo, il tuo apprendista ha fermato la morte.
BERNARDO: Vostra
signoria, è stato un errore. Isidoro, diglielo.
DUCA: Credo
che il ragazzo abbia una voce e un cervello tutto suo. Non
occorre che tu parli per lui.
Il
Duca pareva molto irritato. Quando si rivolse a me, invece, apparve
traboccante di untuosa gentilezza.
DUCA: Ragazzo...
Isidoro, credi si sia trattato di un errore?
Stavo
iniziando ad agitarmi, mentre non sapevo che rispondere.
ISIDORO:
Sì... sì, vostra signoria.
DUCA:
Sì, forse hai ragione, ragazzo. Forse invece, è un'opportunità.
Io
e il maestro ci scambiamo un'occhiata preoccupata.
DUCA: Bernardo,
da quanto lavori al mio servizio?
BERNARDO: Quarant'anni,
vostra signoria.
DUCA: Quindi
sai quanto io sia stanco, sai quanto presto io debba morire. E sai
anche che di morire non ne ho alcuna voglia. Vedi, io sono un
amante della vita: amo la musica, i balli, il buon cibo e anche le
donne, sì, anche adesso, e non sopporto il pensiero del poco
tempo che mi rimane. Ma oggi ho visto ciò che mai ho creduto fosse
possibile: la morte, la morte ha esitato! Quello schifoso
delinquente ha vissuto più di quanto avrebbe dovuto e chi ha reso
possibile questo è qui davanti a me. Bernardo, voglio che il
tuo apprendista convinca la Morte a non portarmi mai con sé.
BERNARDO: Vostra
signoria, è uno sbaglio. Avete detto voi stesso che quell'uomo
ha vissuto più di quanto concesso.
DUCA: Vuoi
forse porre fine ai sogni di un povero vecchio?
BERNARDO: No,
vostra signoria.
DUCA:
E allora non voglio più sentirti dire idiozie del genere. Io sono
il Duca, deciso io cosa è concesso e cosa non lo è. Ora farai
bene a sparire, prima che io perda il mio buonumore.
BERNARDO: Subito,
vostra signoria.
Scena
tre
Il
maestro è furibondo, ma naturalmente non lo da a vedere. Non è
abituato ad essere contraddetto, tanto meno ad ingoiare un rospo
grosso come quello appena propinatogli dal Duca. Sta appoggiato al
muro con le braccia conserte, immobile. Siamo in casa, io, il maestro
e Leonora, la sua compagna. Lei è il suo esatto contrario:
espansiva, socievole, ma soprattutto riflessiva. Non ho mai saputo il
motivo che spinse il maestro a prenderla con sé, come non ho mai
saputo cosa lo spinse a prendermi all'orfanotrofio. La conobbe ad una
qualche festa del duca, credo fosse una serva, e le chiese se avesse
voluto venire con noi. Da allora è la sua coscienza e spesso, come
in questo caso, dona l'esatta dose di buon senso di cui c'è bisogno.
LEONORA: Se
è davvero come dici non possiamo andarcene.
BERNARDO: Certo
che possiamo. Non avrò difficoltà a prendere servizio in qualche
altra signoria, sono abbastanza famoso. Sappiate che non ho
alcuna intenzione di accontentare il Duca: lavoro da una vita con
la Morte e ho imparato che queste cose non vanno toccate. Meno
che mai per vanità.
LEONORA: Eppure
conosci altrettanto bene il Duca. Sai che ha troppa paura della
morte per perdere questa occasione. Se ce ne andiamo, non se ne
starà in panciolle sul suo trono di velluto senza fare nulla. Non
questa volta.
Il
silenzio in cui si chiude il maestro significa che le ha dato
ragione.
LEONORA: Isidoro,
credi di poterci riuscire?
ISIDORO:
Non lo so... prima di tutto devo trovare un modo di parlarle. Non
possiamo certo aspettare la prossima esecuzione ogni volta.
LEONORA: La
Morte non si trova solo al patibolo. Prova all'ospedale, magari
hanno qualche paziente moribondo.
Scena
quattro
Il
campanile rintocca le quattro quando mi accingo a varcare la soglia
dell'ospedale. Il pomeriggio proietta ombre di colonne ed inferiate
sul muro intonacato di bianco del porticato. Fuori dal portone di
ingresso, un vecchio mendicante mi fissa. Il suo sguardo è gelato,
mentre i suoi stracci sono pieni di mosche.
MENDICANTE: Una
moneta per la buona sorte...
ISIDORO: Mi
dispiace, non ho denaro con me.
Tanto
è penetrante il suo sguardo, quanto è spezzata la sua voce.
Distolgo lo sguardo, perché mi sembra che mi stia guardando dentro.
MENDICANTE: Oh,
non fa nulla. Buona sorte ugualmente...
Nel
frattempo compare il custode dell'ospedale, un uomo grasso e rasato
male.
CUSTODE: Il
vecchio ti sta importunando?
ISIDORO: No,
no.
CUSTODE: Ma
tu non sei il giovane boia? Entra, entra pure!
D'ovunque
vada in città, basta farmi riconoscere come l'apprendista del
maestro per farmi trattare con ogni cortesia. Entriamo nell'ospedale,
dove la voce rimbomba sui muri intonacati.
CUSTODE: Cosa
ti porta qui?
ISIDORO: Devo
visitare l'ospedale. È per l'interesse del Duca.
CUSTODE:
Oh, ma certo! Ma certo! Ti faccio accompagnare da un'inserviente,
seguimi.
Il
custode mi lascia nelle mani di una delle suore in servizio, che mi
fa strada per gli ariosi corridoi sui quali si affacciano le stanze
dei ricoverati.
SUORA: Ragazzo,
sai come si chiama questo luogo, vero? Si chiama Santo Ricovero
delle opere di Carità Celeste, sì, proprio così! Guarda la
pulizia, guarda l'ordine! Perfino un cugino del Duca venne qui a
farsi curare da un insidiosissimo morbo e, naturalmente, guarì
benissimo. Puoi stare ben tranquillo a raccomandare questo ospedale
al Duca, sì, è così! Nessuno corre alcun rischio qui dentro, sì!
ISIDORO: Bene.
Avete qualche paziente in punto di morte?
SUORA: Senti
ragazzo, questo è un ospedale con una certa reputazione, la quale
non è affatto immeritata. Qui vengono le personalità più illustri
e importanti, è rarissimo che chi entra qui, ne esca peggio di
prima. E ancora più rari sono i decessi. Quindi no, non abbiamo
pazienti in punto di morte.
La
voce della suora è sonoramente stizzita. Non sembra le piaccia che
la reputazione del Ricovero venga messa in dubbio.
SUORA: Comunque
comunica al Duca che per lui possiamo offrire un salasso con le
sanguisughe più pregiate ad una somma ridicolmente bassa. Ora
levati di torno, non abbiamo tempo da perdere.
Torno
all'ingresso senza aver concluso nulla, ritrovando il grosso custode.
CUSTODE: Hai
fatto la domanda sbagliata, sai? Qui tutti si offendono se metti in
dubbio il loro senso di carità. Sembra quasi che si dimentichino
quanto sborsano i pazienti per quelle stanzette bianche.
ISIDORO: Avrei
dovuto immaginarlo.
CUSTODE: Se
ci tieni a visitare un paziente moribondo, comunque, dovresti
tentare alle segrete sotto il tribunale. Lì i malati non li
trattano bene come noi.
Scendo
i due gradini dell'uscio e mi guardo intorno. Il mendicante non c'è
più: la Morte l'ha portato via mentre ero all'interno del Santo
Ricovero delle opere di Carità Celeste, da cui si esce sempre più
sani di prima.
Scena
cinque
Arrivo
al tribunale dopo aver attraversato l'affollato centro della città.
Qui l'accoglienza è più scortese, del resto i carcerieri non sono
famosi per la loro condiscendenza.
CARCERIERE: Perché
dovresti andare nelle segrete?
ISIDORO: Sono
affari del Duca. E ho il benestare di mastro Bernardo.
CARCERIERE: D'accordo,
apprendista boia. Andiamo a vedere. Non ho la minima idea di come
stiano i prigionieri.
Il
carceriere mi accompagna attraverso un puzzolente cunicolo di cella
in cella, mostrandomi un campionario di infezioni, fratture ed
ematomi.
ISIDORO: Picchiate
tutti i prigionieri?
CARCERIERE: Sono
i condannati a morte. Tanto poi devono comunque morire. Solo che
non è facile, sai? Non possiamo fare troppo forte o ci muoiono
prima, anziché sul patibolo da voi.
ISIDORO: Questi
qui sono stati picchiati tutti.
CARCERIERE: Oh,
bé... saranno tutti condannati a morte. Non avvicinarti troppo,
hanno anche le pulci.
ISIDORO: A
parte le pulci e il pestaggio, mi sembra stiano bene.
CARCERIERE: Te
l'ho detto, non è adesso che devono morire.
ISIDORO: Va
bene, portami su.
Ormai
fuori è il tramonto, mi siedo sui gradini del tribunale a tirare il
fiato. Nella luce arancione le vie di Milano sono attraversate da
gente di ogni tipo occupata in altrettante svariate faccende: chi
porta una tela del tale famosissimo pittore, chi sfacchina per il suo
padrone, chi fa una passeggiata con aria annoiata. È strano da dire,
ma non sono abituato a osservare le persone normali. Una visione
molto più usuale per me è quella dei prigionieri, nelle segrete.
L'unica differenza tra loro e i passanti che mi trovo davanti è come
considerano il momento in cui moriranno. È un dato di fatto, l'ho
dimostrato con l'esperienza di boia: mentre tra i prigionieri c'è
una moltitudine di sentimenti verso la Morte – chi ne ha ancora una
paura folle, chi spera che arrivi presto, chi la affronta con
coraggio e via dicendo – nelle persone ancora libere c'è
uno e un solo modo di rapportarsi alla Morte. Rimandare. Perché cosa
varrebbe quel quadro per quella persona, se sapesse di dover morire
tra poco? Nulla, nulla avrebbe più valore. E allora le persone
rimandano quella paura, perché se se ne ricordassero, la loro vita
sarebbe vuota come vaso forato. Eccoli, tutti indaffarati in qualche
allegra occupazione. Io invece no. Io cerco la Morte.
Un'idea.
È folle, assurda. Eppure comincio a sentire la sua filastrocca in
lontananza, quindi so che funzionerà. Torno di corsa nel tribunale,
sfilo la spada alla prima guardia che trovo e me la avvicino alla
gola.
Eccola.
Mi sta fissando di nuovo.
ISIDORO: Ciao.
MORTE: Cosa
stai facendo?
Forse
c'è una nota di apprensione nella sua voce.
ISIDORO: Credevo
fosse evidente.
MORTE: È
molto evidente. Ma mi sorprende che sia tu a farlo.
ISIDORO: Cosa
vuoi dire?
MORTE: Ne
ho visti tanti... innamorati, disperati, moralisti. A queste cose uno
ci pensa parecchio. Tu non hai alcun motivo di farlo, tanto più
che è da un bel po' che non hai paura di morire.
ISIDORO: Potresti
aver ragione. Perché sei venuta, allora?
MORTE: Non
ero tenuta a farlo. Trattandosi di te, però... non so, avevo
intenzione di dissuaderti. Non sono molti quelli che parlano con
la Morte, di solito sono persone che credono io sia Dio, oppure
asceti, che risultano abbastanza monotoni. Mi dispiacerebbe non
poter parlare più con te.
ISIDORO: Se
ti dico che non ho intenzione di sgozzarmi, tu te ne vai?
MORTE: Sì.
ISIDORO: Come
posso parlati ancora?
Non
ottengo risposta: è già andata via. Nel frattempo si è formato un
capannello di soldati attoniti intorno a me. Restituisco la spada e
corro a casa.
Scena
sei
ISIDORO: Ho
trovato il modo di parlarle.
BERNARDO: Sarebbe?
ISIDORO: Le
ho fatto credere che mi sarei suicidato.
BERNARDO: Ah.
Il
maestro non si lascia impressionare da nulla.
BERNARDO: Cos'hai
ottenuto?
ISIDORO: Nulla.
Però mi ha detto che... le piace la mia compagnia.
LEONORA: Ottimo.
Sfrutta questa cosa. Devi scoprire se si può far convincere da
qualcosa. E deve convincersi che quello che le chiediamo non è un
male.
Pur
essendo iniziata da poco, già non sopporto più questa discussione.
Quella ragazzina è l'unica che sembra essere sincera in tutto il
ducato. Dice le cose come stanno, una cosa rara. Mi da il
voltastomaco pensare a come raggirarla per soddisfare l'ennesima
follia del duca.
ISIDORO: Non
mi piace. Non mi piace per niente. Se quello che le chiediamo
effettivamente è un male, come posso convincerla del
contrario?
LEONORA: Per
noi è un male, per noi infimi esseri mortali che sappiamo di
chiedere una cosa che non ci è dovuta. Per lei invece, che
differenza vuoi che faccia una vita in più o in meno?
ISIDORO: Rimane
il fatto che devo fare una cosa sbagliata. E che non voglio fare.
LEONORA: Il
mondo gira in questo modo, Isidoro. Il Duca non vuole l'immortalità
perché è una cosa giusta, ma per soddisfare il suo capriccio di
vita eterna. Nostro malgrado siamo coinvolti in questa storia che
indubbiamente non porterà nulla di buono né a lui, né a noi, ma
dalla quale comunque non possiamo esimerci. Siamo umani, non
possiamo fare altro che tentare di sopravvivere nonostante
l'infame sorte che il destino ci assegna volta per volta.
Sono
talmente inviperito che non mi trattengo dal sibilarle contro la
risposta.
ISIDORO: Complimenti
per la retorica, Leonora. Da quando hai questa capacità oratoria?
BERNARDO: Isidoro,
portale rispetto.
Il
tono del maestro non ammette repliche.
LEONORA: Una
volta ho studiato teatro. Mi ero unita ad una compagnia di attori
di strada, poco più che straccioni. Non è che abbia imparato
molto, ma una cosa sì: bisogna fare buon viso a cattivo gioco. Se
non lo farai, ci andremo di mezzo tutti.
Me
ne vado senza risponderle. Le sue massime sulla vita mi hanno messo
appiccicato addosso una tristezza che nemmeno il sonno e la notte
riesco a lavare via.
Scena
sette
L'indomani
è una pessima giornata. Il cielo è grigio, grigio quanto la città.
Sono seduto sul bordo di un naviglio, la cui acqua se non grigia può
essere definita verde fogna.
All'improvviso,
mi giunge alle orecchie quella filastrocca. Dapprima quasi
impercettibile, poi sempre più forte, finché la Morte compare di
fianco a me.
MORTE: Dopo
lo scherzo di ieri, non so più se hai davvero l'intenzione di
morire.
ISIDORO: Beh,
nemmeno io.
MORTE: Se
ti siedi sul bordo di un canale putrido però qualche sospetto mi
viene. Perché stai pensando di ammazzarti?
ISIDORO: Non
ho mai avuto paura di te. Non che mi ricordi. Ho sempre pensato che
fosse perché, a furia di impiccare le persone, mi fossi abituato
alla tua presenza.
MORTE: Questa
volta non basterà una favoletta a mandarmi via. Conosco il genere
umano da molto tempo: ormai riconosco chi rimugina sull'idea di
morire.
ISIDORO: Avrai
ben presente allora quanto può essere squallido l'animo degli
uomini. Sono nauseato dall'egoismo tramite il quale l'umanità
cerca costantemente di riscattare la sua miseria. Tutto questo
frastuono di desideri, volontà, fallimenti... tutta questa selva
di parole e sorrisi e pianti non mi appare mai tanto vana e
sbagliata come quando vedo la brama muovere un uomo, e in questi
momenti mi sembra che tu sia la sola ad avere una dignità.
MORTE: Tu
vedi di continuo la miseria più nera dei condannati a morte; come
sei capitato a fare il boia nonostante questo?
ISIDORO: Il
maestro mi prese con sé quando ero all'orfanotrofio, così, in modo
naturale, divenni il suo apprendista. Ma non è questo. Non è
perché sono abituato agli impiccati che non ho paura di te.
MORTE: E
allora perché?
ISIDORO: Cosa
c'è in questo mondo, in questa vita, di così prezioso da
poterla rimpiangere? Le persone si affannano a cercarlo perché
credono di avere poco tempo, ma non trovano nulla di soddisfacente
perché sanno che non durerà.
MORTE: Rimane
il fatto che tu continui a fare il boia, nonostante non ti piaccia
farlo.
ISIDORO: A
te piace quello che fai?
MORTE: Non
capisco.
ISIDORO: Ti
piace portare via le persone dal mondo?
MORTE: No.
ISIDORO: Quindi
siamo nella stessa situazione.
MORTE: Non
capisci. Intendevo che non ne ricavo piacere, non che ne provo
disgusto.
ISIDORO: Perché
allora porti via le persone?
MORTE: Non
dovrei?
ISIDORO: Il
genere umano ti odia.
MORTE: Che
dovrei farci?
ISIDORO: Se
ti odiano per quello che fai, potresti smettere di farlo. Sei
obbligata da qualcuno?
MORTE: No.
ISIDORO: Ma
tu lo fai ugualmente. Perché?
MORTE: Perché
sono io. Perché è quello che sono. Rinunceresti alla tua
identità perché qualcuno ti odia?
ISIDORO: Non
lo so. No, credo di no. Però con me continui a fare eccezioni alle
tue regole.
MORTE: Questa
è una cosa che ho imparato da voi, dopo tutto questo tempo passato
ad osservarvi: non importa quali siano le regole o le imposizioni,
se qualcosa vi sta a cuore non c'è regola che tenga, né che valga
la pena rispettare.
ISIDORO: Quindi
è in tuo potere... smettere?
MORTE: Rinunceresti
alla tua identità per qualcosa che ti sta a cuore?
Rimango
silenzioso alla sua domanda.
MORTE: Posso
dirti questo: ho notato anche un'altra cosa osservandovi. Che per
quanto voi vediate misera la vostra sorte, per quanto vi crediate
infimi e mi odiate, non ho mai visto l'umanità smettere di ridere
e cantare. Oh, sembra che tu non voglia più morire. Devo andare.
Sipario
Chi
derise la nostra sconfitta e
l'estrema vergogna ed il modo soffocato
da identica stretta impari
a conoscere il nodo.
Chi
la terra ci sparse sull'ossa e
riprese tranquillo il cammino giunga
anch'egli stravolto alla fossa con
la nebbia del primo mattino.
La
donna che celò in un sorriso il
disagio di darci memoria ritrovi
ogni notte sul viso un
insulto del tempo e una scoria.
Coltiviamo
per tutti un rancore che
ha l'odore del sangue rappreso ciò
che allora chiamammo dolore è
soltanto un discorso sospeso.
(La
ballata degli impiccati)
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