Onirofobia
Onirofobia
"Sogni, sogni, non dubitarne.
Un sogno di sogni che
fanno i bambini che sognano."
(Circo della
Luna Spenta, episodio 150)
La guancia appoggiata al freddo vetro della finestra, se ne stava a
guardare il tramonto di quella sera. Il cielo era sereno, tranne per
alcune nuvole dalla parte in cui il buio stava avanzando, a oriente.
Cercava di fare attenzione ad ogni particolare, osservando qualunque
sfumatura, per non assopirsi.
Non che ci fosse buio,
ma la luce era insufficiente ad illuminare completamente quello che
sembrava un luogo piuttosto grande, dai confini tuttavia ben definiti.
Sapeva che, continuando
in una direzione qualunque, sarebbe arrivata a toccare un muro di
stoffa che le era ormai piuttosto familiare.
Una figura a testa in
giù si stagliava nell'ombra; se ne scorgeva appena la
sagoma, ma quella strana pettinatura era inconfondibile.
- È un bel
po' che non ci si vede, Chibi... -.
- No! No! - aprì gli occhi, sbarrandoli. Il buio era
avanzato, ma anche se il sole era ormai calato a ponente rimaneva
ancora la dorata e calda luce del crepuscolo.
- Chibiusa? Va tutto bene? - a parlare era stata una giovane donna che
aveva appena aperto la porta per entrare nella stanza. Indossava ancora
un lungo camice, ma il fatto che fosse tranquillamente aperto sul
davanti, lasciando intravedere la camicetta e la gonna, significava che
l'orario di lavoro era terminato e che quello era un momento quasi
familiare.
- Ah, dottoressa Mizuno... sì, sto bene – ancora
per un po'. Finché non fosse arrivato il buio a ricordarle
che aveva assolutamente bisogno di dormire – Ha qualche altro
libro da prestarmi? -.
- Quelli adatti alla tua età li ho terminati, ma ti prometto
che domani farò un salto in biblioteca a prenderti qualcosa
– le rispose, sedendosi sul letto. Quella stanza era arredata
in modo quasi normale, come una qualsiasi camera da letto di una
qualunque casa, ma rimaneva comunque piuttosto anonima.
La vide tentennare il capo, come chi è colto dagli assalti
del sonno ma non vuole assolutamente cedere. Ad un certo punto la
bambina sbatté la testa contro il vetro, prendendo una bella
botta.
- Ohi! -.
- Chibiusa! Ti sei fatta male? -.
- No, no... - rispose lei, massaggiandosi piano il punto dolorante,
coperto dai folti capelli.
- Forse è meglio se andiamo a bagnarti... un po' d'acqua
diminuirà il dolore – disse la dottoressa, facendo
per alzarsi.
- No, non serve. Non mi fa più male –
continuò però a tastarsi, sicura che le sarebbe
venuto fuori un bel bernoccolo. Magari un po' di dolore alla testa
l'avrebbe tenuta sveglia.
- Chibiusa, ascoltami. Lo vedo che sei stanca. Una bambina della tua
età dovrebbe dormire almeno dieci ore per notte, lo sai? -.
- Ma io sto bene. E riesco a concentrarmi e a leggere comunque... non
serve che dorma -.
- Chibiusa... - i grandi occhi azzurri della donna assunsero
un'espressione dolce, mentre chiedeva: - Perché non parliamo
un po'? Mi puoi raccontare che cosa succede quando dormi, ti va? -.
- Ad esempio? - fece la bambina, leggermente sulla difensiva.
- Quello che sogni – rispose tranquillamente la dottoressa,
come se si fosse trattato di una chiacchierata qualunque.
- No – rispose Chibiusa senza battere ciglio.
Beh, era quello che si aspettava. In fondo era ancora troppo presto, ma
la pazienza faceva parte del suo lavoro; faceva parte anche di lei,
comunque: la classica goccia che scava la pietra.
- Hai qualche preferenza per i libri? Se vuoi un titolo in particolare,
posso provare a cercarlo – cambiò discorso.
L'importante era mantenere il contatto, anche rimanendo su chiacchiere
di nessuna apparente importanza.
- Non ha dei libri di psicologia? - indagò Chibiusa.
Ami sorrise: era la terza volta che avanzava quella richiesta, ma di
certo quella bambina non aveva bisogno di arrovellarsi ulteriormente
sui propri processi psicologici. Non quando non riusciva ancora a
parlarne.
- La sai una cosa? - accavallò le gambe, poggiando le mani
intrecciate su un ginocchio, mettendosi più comoda
– C'è una branca della psicologia che si occupa di
interpretare le fiabe, le più famose e apparentemente
più banali, scoprendone il significato più
nascosto: ti stupirebbe, sai, che cosa vogliono dirci in
realtà. E perché sono state raccontate ai
bambini, nel corso dei secoli -.
Non era sicura che molti altri psicanalisti avrebbero approvato quella
conversazione, ma era ben consapevole di trovarsi davanti una bambina
sveglia e intelligente; e come tale doveva trattarla.
- Davvero? -.
Ami annuì.
- E... - Chibiusa si morse piano le labbra, incerta se chiederlo o meno
- … che cosa si dice sul circo? -.
- Sul circo? - la dottoressa ci pensò un attimo –
Al momento non mi sovviene alcuna storia che tratti questo tema, ma il
circo ha sempre stimolato l'immaginario collettivo: le immagini
suggestive di personaggi fuori dal comune, per il loro aspetto o per le
loro capacità, hanno ispirato libri e film -.
Tacque un momento, chiedendosi se non stesse per caso usando un
linguaggio troppo forbito per una ragazzina, ma Chibiusa la stava
seguendo senza problemi.
- Tu ci sei mai stata? - trovò comunque più
opportuno riportare il discorso sui binari sicuri della conversazione
tra adulto e bambino.
Chibiusa scosse dapprima la testa, poi ci pensò su e rispose:
- Non me lo ricordo – ma il tono era dubbioso.
- Magari quando ci sei andata eri molto piccola –
tentò Ami.
- Quindi è per questo che non mi sembra di ricordare niente?
- Chibiusa simulava indifferenza, ma gli occhi tradivano tutta la sua
sete di sapere al riguardo.
- È possibile che lo ricordi a livello inconscio: non i
particolari, ma alcune immagini che ti sembrano familiari anche se non
ricordi di averle mai viste. Non so... vedendo degli acrobati in
tivù, o la foto di un domatore. Ti è mai
successo? -.
Chibiusa strinse le labbra, chiudendosi nel mutismo assoluto e
guardando a terra, prima di rivolgere nuovamente lo sguardo fuori dalla
finestra.
Era ormai buio, e in effetti si era fatta ora di andare.
- Adesso devo tornare a casa – disse Ami – Hai
bisogno di qualcosa? -.
La bambina scosse la testa; la dottoressa le augurò la
buonanotte e uscì.
Appunti della dottoressa
Mizuno
Mentre si toglieva il camice nello spogliatoio e usciva dall'edificio,
Ami prese mentalmente appunti sulle impressioni che le aveva fatto
quella conversazione.
Chibiusa si era chiusa a riccio nel momento in cui erano stati nominati
acrobati e domatori; inoltre lei stessa aveva tirato fuori l'argomento
"circo", e il fatto che per la terza volta avesse avanzato la richiesta
di poter leggere dei libri di psicologia significava che voleva capire.
Voleva essere aiutata, e questo era l'unico presupposto necessario.
- Il circo... - mormorò Ami, cercando nei propri ricordi.
Salita in macchina, avviò il motore. La prima volta che era
andata al circo l'aveva accompagnata suo padre, e lei era rimasta
completamente stregata dal mangiafuoco: il giorno dopo aveva chiesto
alla sua maestra come fosse possibile che un essere umano riuscisse a mangiare il fuoco,
e perché nel libro di scienze non fosse scritto da nessuna
parte.
Rise piano di quelle sue innocenti domande, pensando che quella sera
avrebbe dovuto provare a cercare in rete qualcosa concernente il circo.
Qualche immagine, o magari dei video.
Era stata lei a voler giocare con loro, in fondo. Sembravano
più grandi, ma erano pur sempre delle ragazzine: dicevano di
non voler diventare adulte, di voler giocare per sempre. Per loro il
circo non era altro che un grande gioco.
Erano quattro ragazzine diversissime, ma unite come sorelle, e Chibiusa
le aveva guardate con invidia, desiderando fin da subito di potersi
unire al loro gruppo.
Ma lei non domava i leoni, non sapeva volteggiare sul trapezio, non
riusciva a fare tre salti mortali di fila e i trucchi con la palla non
le riuscivano per niente.
- Non preoccuparti – le aveva detto Cerecere, leggiadra come
il fiore che portava tra i capelli – Puoi comunque giocare
con noi: anche Pallapalla combina un sacco di pasticci -.
Le aveva indirettamente dato della pasticciona, ma Chibiusa non se
l'era presa: Pallapalla le stava simpatica, a volte era persino
più infantile di lei.
- Pallapalla non combina un sacco di pasticci! - mise in chiaro
l'interpellata, ruzzolando giù dalla palla azzurra su cui
stava allegramente passeggiando. Si massaggiò la testa,
contrariata, e mise su il broncio a cui tutte avevano fatto l'abitudine.
Chibiusa cercò di non ridere- non le sarebbe piaciuto se
fosse stata lei a fare un capitombolo- ma Pallapalla le sorrise
amichevolmente.
- Giochi con me? - chiese.
- Giochi con noi? - fecero eco le altre.
Le sarebbe piaciuto moltissimo imparare a domare gli elefanti come
faceva Vesves, o volteggiare nell'aria come Junjun. Sapeva di non poter
ancora aspirare a tanto, ma quelle quattro ragazzine la stavano
accogliendo nel loro gruppo. E rispose di sì.
- ... usa. Ti sei
stancata di giocare con noi? -.
- Pallapalla ti annoia?
- domandò una vocina piagnucolante.
- Non voglio
più giocare con voi! - mise in chiaro Chibiusa, sapendo che
gli occhi erano aperti solo nel sogno; nella realtà, li
aveva ben chiusi.
- C'è voluto
un fiore dalle proprietà soporifere per riportarti qui, lo
sai? - la informò tranquillamente Cerecere, accarezzando i
petali di uno strano fiore viola.
- Se resti qui, posso
iniziare ad insegnarti a domare gli animali. Niente di pericoloso,
all'inizio. Cominceremo con i cava... -.
- No! Non voglio! -
urlò Chibiusa, tanto forte che le sembrò di
sentirsi per davvero, e poco prima di andarsene vide con la coda
dell'occhio una grande forma bianca.
Non capì cosa
fosse, ma quando riaprì gli occhi le rimase sulla retina
un'indistinta e affascinante macchia bianca, che non la
abbandonò per il resto della notte.
- Non può andare avanti così, dottoressa.
Stanotte l'ho sentita urlare -.
- E che cos'ha detto? -.
- Qualcosa che suonava come "no, non voglio...". Questa storia non
può continuare: deve riuscire a farla dormire, in qualche
modo! -.
L'infermiera sembrava davvero in apprensione, e Ami comprese che
l'essere madre di quattro figli la rendeva sensibile ai problemi di
qualunque bambino. Lo capì e lo rispettò, ma non
poteva semplicemente far dormire la paziente con un sonnifero
somministrato come se niente fosse. Il problema di quella bambina,
all'anagrafe Usagi Chiba ma chiamata da tutti Chibiusa, non era di
natura fisica, e finché non fosse riuscita a sbrogliare la
matassa del suo inconscio non avrebbe dovuto darsi per vinta.
Era giovane, e ancora recuperabile. Bisognava solo trovare il capo di
quell'ingarbugliatissimo filo.
Mentre si avvicinava alla sua stanza, percorrendo il corridoio e
salutando cortesemente il personale che incontrava, diede una scorsa
veloce a tutti gli appunti che aveva raccolto finora.
"Chiaro caso di onirofobia" aveva scritto. Beh, su quello non ci
pioveva: la paziente mostrava tutti i sintomi di chi ha paura dei sogni
e di sognare. Cercava disperatamente di non dormire e, ogni volta che
provava a chiedergliene il motivo, si chiudeva nel mutismo assoluto.
Non voleva ricordare i propri sogni, questo era chiaro, ma il nodo
stava tutto lì: che
cosa non voleva sognare? Un ricordo traumatico che si
ripresentava in forma onirica? O qualcosa di più elaborato,
creato dalla sua mente di bambina pronta e sveglia?
Per cominciare ad uscirne Chibiusa avrebbe almeno dovuto raccontarle la
dinamica dei propri sogni, in modo che lei riuscisse ad analizzarli, ma
la bambina si rifiutava puntualmente.
Erano settimane che cercava una traccia, un indizio qualunque che
potesse iniziare ad aprire una breccia nel mondo onirico della
paziente, e forse la sera prima aveva trovato qualcosa.
La dottoressa Mizuno bussò alla porta della stanza in cui si
trovava Chibiusa ed entrò, trovandola sveglia accanto alla
finestra e con due occhiaie che avrebbero fatto invidia a un fantasma.
- Ti ho portato qualcosa che potrebbe interessarti –
annunciò.
Chibiusa allungò la testa, mostrandosi curiosa anche se era
visibilmente esausta.
- Ecco, guarda – tirò fuori il computer portatile,
sistemandosi sul letto, dove la bambina la raggiunse. Indossava ancora
il pigiama verde che le avevano fatto mettere la sera prima, ma era
lampante che non aveva chiuso occhio. Ami cercò di non
pensarci e aprì la cartella in cui aveva raccolto tutte le
immagini che aveva trovato sotto la voce "circo".
Vide Chibiusa irrigidirsi impercettibilmente, senza tuttavia
distogliere lo sguardo dallo schermo. Ami dovette riconoscerle una
certa forza d'animo, davvero non comune in una bambina di
quell'età.
Decise che in quel momento la cosa migliore era rimanere in silenzio, e
si mise anche lei ad osservare le molteplici immagini che coloravano lo
schermo.
C'era davvero di che far volare la fantasia: tendoni colorati, grandi
manifesti che annunciavano spettacoli mirabolanti, acrobati in
equilibrio su lunghe pertiche e trapezisti volteggianti. Non le
piacquero molto le foto di una tigre che saltava in un cerchio di
fuoco- non approvava un simile utilizzo degli animali- e di un domatore
in frac e cilindro che faceva alzare su due zampe uno splendido cava...
- Ah! - seguì con lo sguardo il dito di Chibiusa che
indicò qualcosa sullo schermo. Guardò, e vide la
foto del cavallo bianco che stava osservando l'istante prima.
- Un destriero magnifico, non è vero? - disse, chiedendosi
se l'immagine da cui era stata attratta la bambina non avesse per lei
un qualche significato – Ti ricordi se al circo hai mai visto
un numero con i cavalli? Magari una volta che ci sei andata da piccola
-.
Ma non era a questo che Chibiusa stava pensando. Stava guardando
quell'animale in piedi sulle zampe posteriori, con una bardatura
luccicante e un pennacchio in testa, rendendosi conto che la sagoma
candida vista nel sogno non era altro che un cavallo.
Un cavallo. Un cavallo bianco.
Era quello l'animale che Vesves voleva insegnarle a domare.
Appunti della dottoressa
Mizuno
In qualunque cosa la mente di quella bambina fosse stata coinvolta
prima dell'incidente, ci stava inequivocabilmente tornando.
Completamente persa nei processi della propria mente, non manifestava
alcun segno di dolore- perlomeno non evidente- per la tragedia occorsa
da poco. Più che con un prodotto dell'inconscio,
però, sembrava che stesse interagendo con qualcosa di altro rispetto al
proprio io. Eppure Ami non era propensa ad attribuirle alcun sintomo di
schizofrenia; c'era solo quella persistente e apparentemente
ingiustificata paura di sognare, e di conseguenza di dormire.
Ma forse stavano facendo qualche timido progresso. Quando
infilò le chiavi nel cruscotto, Ami si rincuorò
pensando che rispetto al giorno prima aveva già un altro
indizio: il circo e il cavallo bianco.
Si era ripromessa di non tornarci più. Di non dormire
più, se necessario, e anche se una volta si era assopita era
riuscita a tornare indietro.
Ma adesso c'era qualcosa di nuovo. C'era un cavallo, un cavallo bianco
che aspettava lei ed esisteva soltanto nei suoi sogni. Solo per lei.
E la decisione iniziale si andava facendo sempre più blanda,
il tempo passava e le giornate scorrevano tranquille. Qualche volta era
riuscita a dormire il tempo necessario di riposare un po', senza che
quel circo buio riapparisse nella sua mente; ma era stanca, tanto
stanca. Una bambina della sua età avrebbe dovuto dormire
dieci ore per notte, e lei cominciava a non farcela più.
Voleva vedere quel cavallo.
- Cominceremo con i
cavalli – stava dicendo Vesves, come se lei non se ne fosse
mai andata. Era come un film che metteva in pausa, e poi riprendeva non
appena si risistemava davanti alla tivù – Guarda
che splendido esemplare abbiamo qui -.
Non c'era bisogno che
glielo dicesse. Chibiusa era già completamente rapita dalla
visione di un magnifico destriero che non si poteva ridurre al termine
"cavallo". Aveva le ali. E un corno dorato sulla fronte.
La definizione
più esatta sarebbe stata "unicorno alato": sapeva che nelle
fiabe si parlava di unicorni e cavalli alati, ma non aveva mai sentito
che le due cose potessero unirsi in un'unica creatura. Era quanto di
più bello avesse mai visto.
- Io di solito
preferisco belve che abbiano almeno zanne o artigli –
continuò Vesves, tenendo saldamente l'animale per le briglie
– Qui ci sono solo quattro zoccoli, ma per te
andrà benissimo -.
Chibiusa non poteva
essere più d'accordo.
- Che sciocchezza
– ribatté Cerecere – Come puoi
paragonare l'eleganza di questo animale alla volgarità di
una tigre o un orso vestiti da pagliacci? -.
- E guarda che quel
corno può far male, secondo me –
osservò Junjun.
- A Pallapalla piace! -
esclamò quest'ultima, volendo dare a tutti i costi il
proprio parere.
Nel frattempo Chibiusa
si era avvicinata al cavallo, senza paura, accarezzandone piano le
froge delicate e la parte inferiore del muso. Più in alto
non arrivava, ma l'animale abbassò il capo per lei,
consentendole di toccarlo anche fra gli occhi e all'attaccatura del
corno.
Chibiusa era estasiata,
e le quattro Amazzoni a dir poco sorprese.
- Caspita, Vesves,
sembra che qui qualcuno abbia più talento di te –
commentò Cerecere.
- Già
– le fece eco Junjun – E dire che finché
non gli abbiamo messo le briglie scalciava come un matto! -.
- A Pallapalla faceva
paura! -.
Vesves, leggermente
infastidita da quei commenti, fece finta di niente, ma Chibiusa
domandò:
- A me sembra
così mansueto... queste briglie non si potrebbero togliere?
Secondo me gli danno fastidio -.
Vesves rispose con un
sorrisetto serafico.
- Non dire sciocchezze,
Chibiusa: togliergli le briglie significherebbe liberarlo. E la prima
regola di un domatore è che un animale non si può
liberare, perché non obbedirebbe più -.
- Ma lui... ha degli
occhi così tristi! -.
- È
prigioniero, piccola. Come dovrebbe sentirsi? - le fece notare Cerecere.
Chibiusa non era
convinta. Fino a quel momento l'idea di imparare a domare un animale
l'aveva entusiasmata moltissimo, ma ad un tratto la faceva sentire
terribilmente meschina. Quel cavallo la stava guardando, spingendo il
muso contro la sua guancia, chiedendole silenziosamente aiuto. Non
voleva che rimanesse prigioniero.
- Io... non voglio
più domarlo. Voglio che lo liberiate -.
Vesves, che ancora
stringeva in mano le briglie, non rispose subito. Scambiò
uno sguardo con le altre, che da interrogativo divenne d'intesa.
- La libertà
ha un prezzo, Chibiusa – le disse poi, e tutte e quattro le
sorrisero sornione, chiedendole: - Giochi con noi? -.
Quando quella mattina la dottoressa Mizuno entrò nel proprio
ufficio trattenne un pesante sospiro, anche se l'infermiera al banco le
aveva già detto che erano arrivati.
- Buongiorno, dottoressa – la salutarono cortesemente.
- Buongiorno, agenti – rispose educatamente Ami. Stavano solo
facendo il loro lavoro, esattamente come lei.
- Credo non ci sia bisogno di dirle perché siamo qui
– esordì il più anziano dei due.
No, infatti. Già l'ultima volta le avevano detto che si
sarebbero ripresentati dopo un po' di tempo; tempo che tuttavia non era
stato ancora sufficiente.
- Mi rincresce dover dire di essere ancora contraria a qualunque
domanda vogliate fare alla mia paziente -.
- Non possiamo rimandare ancora: il referto medico è
incontestabile, e le prove inoppugnabili – le rispose il
più giovane, facendo sfoggio di termini che Ami conosceva
molto meglio di lui, dalle radici fino a tutti i loro derivati.
- In effetti, dottoressa, comprendiamo che non ci sia struttura
migliore in cui la bambina possa trovarsi – ammise il
più anziano, porgendole dei documenti – Ma la
scientifica parla chiaro: è stata lei ad aprire il gas, e
nessun altro -.
Ad Ami sembrò di aver inghiottito una massa di carne cruda e
amara, tanto fu orribile la sensazione di incredula impotenza mentre
leggeva i documenti che le erano stati consegnati. Il referto parlava
chiaro per davvero: sulle manopole del fornello non erano state trovate
altre impronte oltre a quelle dei familiari, e risultava che la bambina
aveva stranamente toccato tutte e sei le manopole. Il referto le
definiva recenti e omogenee, come se avesse sistematicamente aperto il
gas in un momento di perfetta lucidità.
Il giorno dopo i genitori- identificati come i coniugi Mamoru e Usagi
Chiba- erano stati ritrovati morti in camera da letto; probabilmente
erano spirati nel sonno, senza accorgersi di nulla. Invece la figlia,
sulla carta Usagi Chiba, per quanto in condizioni critiche era riuscita
a salvarsi.
Sembrava assurdo che una bambina di quell'età potesse aver
davvero aperto il gas, deliberatamente e per chissà quale
motivo, ma gli strani discorsi che aveva fatto non appena si era
ripresa avevano indotto i medici a farla ricoverare in quella
struttura. Ritenevano che si trovasse in stato di shock, ma Ami aveva
presto capito che le cose non erano così semplici. Non lo
erano mai state.
Chibiusa aveva probabilmente ucciso i propri genitori, e al momento
forse nemmeno lei sapeva perché.
In realtà Chibiusa sapeva perché;
ciò che non aveva immaginato era che il suo gesto potesse
avere delle conseguenze simili.
Quando aveva accettato di giocare con loro la prima volta, Junjun le
aveva promesso di insegnarle i trucchi dei mangiafuoco; ma aveva anche
detto che c'era bisogno di combustibile, per ottenere la
quantità di fuoco necessaria.
Dal primo momento in cui Chibiusa aveva riaperto gli occhi,
all'ospedale, il peso della propria colpa era stato più
forte del dolore; e aveva cercato in qualche modo di espiarlo,
decidendo di non dormire più. Punendosi da sola, implacabile
come il peggiore dei carcerieri.
Ma adesso c'era da salvare quel cavallo. Quell'unicorno. Quel pegaso.
Poteva sembrare una scelta difficile, ma non lo fu: Chibiusa voleva
liberarlo, e per riuscirci avrebbe fatto qualsiasi cosa.
Anche giocare di nuovo.
Era riuscita a strappare una settimana in più: non era
niente, in realtà, ma avrebbe almeno potuto preparare
Chibiusa al fatto che la polizia le avrebbe fatto delle domande.
Diretta verso la sua stanza, per una volta decise di entrare senza
bussare, e quando aprì la porta quel tanto che bastava per
guardare dentro, represse a stento un "Oh!" di sorpresa.
Chibiusa stava dormendo.
Aveva quasi del surreale vederla finalmente con gli occhi chiusi,
serenamente abbandonata sul letto. I folti capelli le incorniciavano il
viso, che nel sonno non mostrava più quella durezza adulta
di cui Ami continuava a ricercare l'origine. Una bambina addormentata,
nient'altro. Immersa nel proprio mondo dei sogni, quel mondo in cui Ami
stava costantemente cercando di entrare.
Si era addormentata sopra al copriletto, perciò Ami
aprì silenziosamente l'armadio e ne tirò fuori
una coperta, che usò per coprire Chibiusa.
Le fece una leggera carezza sui capelli, chiedendosi se una bambina di
quell'età potesse davvero crescere senza genitori. Sapeva
alla perfezione ciò che diceva la psicologia al riguardo, ma
come essere umano le sembrava una cosa quasi impossibile. Quella
bambina addormentata era più indifesa di un coniglietto,
così raggomitolata nella sua coperta, mentre quasi sorrideva
nel sonno.
... possibile?
Possibile che fosse stata davvero lei, ad aprire il gas quella notte? E
perché?
Ami sospirò piano, sentendosi come sempre una specie di
mostro che vivisezionava sentimenti e ricordi. Ma in fondo era il suo
lavoro, e mantenere un certo distacco era necessario per non venire
schiacciati dall'interiorità di un altro essere umano.
E in fondo il fatto che Chibiusa stesse dormendo così
profondamente era già un passo avanti.
Stava per uscire, quando un particolare sulla scrivania
attirò la sua attenzione; si avvicinò al quaderno
già aperto e sfogliò alcune pagine. Si
soffermò su un disegno fatto a matita, che
osservò a lungo: rappresentava un cavallo, ma non un cavallo
qualsiasi. Aveva le ali e un corno sulla fronte: era un animale che non
esisteva nemmeno nelle leggende o nelle favole, perché Ami
non aveva mai letto di una creatura che unisse in sé pegaso
e unicorno. Spostò lo sguardo su Chibiusa, mentre la mente
andava a quando aveva mostrato alla bambina quelle immagini sul circo,
e lei era rimasta colpita dalla foto di un cavallo.
Un cavallo che aveva probabilmente rielaborato con la fantasia, o
forse... forse...
Richiuse il quaderno e uscì dalla stanza in punta di piedi.
Aveva qualcosa da cercare.
Quel giorno la dottoressa Mizuno era stata parecchio impegnata: aveva
avuto due riunioni e un consulto improvviso per un paziente che aveva
tentato il suicidio. Mentre sbocconcellava un panino, all'ora di
pranzo, era riuscita a fare qualche ricerca col suo portatile, ma
l'assoluta mancanza di un attimo libero le aveva impedito di tornare
nella stanza di Chibiusa e parlare un po' con lei.
Ma aveva trovato qualcosa di interessante, e il giorno dopo avrebbero
fatto una bella chiacchierata, ne era sicura.
Quella sera il cielo era limpido e si riusciva a scorgere qualche
stella, malgrado le forti luci della città. Ami
sistemò computer e scartoffie sul sedile accanto a quello
del guidatore e chiuse la portiera, crogiolandosi nel pensiero che di
lì a poco si sarebbe trovata nella sua vasca a bagno, a
mollo nell'acqua calda.
Chiuse la portiera e girò la chiave nel cruscotto, premendo
il pedale della frizione. Accese i fanali e partì,
sospirando di sollievo nel trovare poco traffico per strada.
Quando Chibiusa si svegliò, non fu sorpresa nel trovare una
coperta a tenerle caldo: lo sapeva già. E non fece alcuna
fatica ad individuare ciò che Pallapalla le aveva detto di
cercare, ossia un capello che doveva trovarsi sul tessuto della coperta.
Era più corto, più scuro e più liscio
dei suoi... non poteva sbagliarsi. Lo raccolse con attenzione,
tenendolo tra i polpastrelli di pollice e indice, e si alzò
dal letto. Si guardò velocemente intorno, e quando lo
sguardo le cadde su una piccola scatola di latta rettangolare decise
che sarebbe andata bene. La svuotò delle ultime tre
caramelle, infilandosele direttamente in bocca, e andò in
bagno.
Mise il capello nella scatolina, attenta a non farlo cadere nel
lavandino, e aprì il rubinetto.
Era stata Pallapalla a suggerire questo gioco, lei che oltre a saper
camminare in equilibrio su qualsiasi cosa si divertiva a giocare con
delle bamboline come se fossero state i personaggi di chissà
quale telenovela. Pallapalla, per certi versi, sembrava più
piccola e più ingenua di lei: per cui quello che le aveva
detto di fare non poteva essere pericoloso, giusto?
Fu con questa convinzione che Chibiusa mise la scatola con il capello
sotto il getto d'acqua, riempiendola fino all'orlo.
Ami aprì d'istinto la bocca, ma nemmeno una particella
d'aria trovò la strada fino ai polmoni.
Annaspò, stringendo convulsamente le mani sul volante,
mentre si ritrovava assurdamente a pensare che era come se nella
macchina non ci fosse più ossigeno. Era come se invece
dell'aria stesse mandando giù qualcos'altro, qualcosa che le
riempiva inesorabilmente gola e polmoni e le impediva di respirare.
Ormai stava cominciando a sentirsi venir meno, e in un ultimo momento
di lucidità allungò la mano verso il pulsante che
azionava il finestrino, chiedendosi inconsciamente se aprirlo sarebbe
servito a qualcosa.
Le dita stavano ormai per premerlo, quando due enormi luci attirarono
il suo sguardo già appannato e prossimo alla perdita dei
sensi: due luci che si facevano sempre più grandi, mentre
nell'abitacolo lei stava soffocando e al suo cervello non arrivava
più aria.
Sentì che i sensi cominciavano a mancarle, e non fece in
tempo a vedere cosa fossero quelle due grandi luci sempre
più vicine.
Due luci che si rivelarono i potenti fari di un camion.
Appunti della dottoressa
Mizuno
Il fulcro stava nel corno, più che nelle ali: l'unicorno era
una creatura mitica del Medioevo occidentale, che viveva nei boschi e
secondo i bestiari poteva essere ammansito solo da una vergine, simbolo
della purezza. Solitamente veniva preferita una bambina, l'unica che
potesse avvicinarlo.
Secondo altre leggende più tarde, l'unicorno è il
custode del mondo dei sogni, colui che vi accompagna le persone
addormentate; e guarda caso a disegnarlo su un quaderno era stata una
bambina che soffriva di onirofobia. Possibile che fosse solo una
coincidenza?
Ami pensava che potesse essere una buona idea partire da questa figura
per cercare di aprire uno spiraglio nella mente di Chibiusa. Partire
dal custode dei sogni per arrivare a quelli che le facevano tanta
paura. E magari risolvere il mistero del gas, chi lo sa.
Il giorno dopo tutto il personale della struttura era semplicemente
sconvolto: nessuno riusciva a capire come la dottoressa Mizuno,
così precisa e attenta in ogni cosa, potesse aver invaso la
corsia opposta ed essere inesorabilmente finita contro un camion.
L'unica spiegazione possibile era che fosse stata colta da un malore
improvviso, ma le infermiere e tutti i medici erano comunque increduli.
L'atmosfera quella mattina era quasi surreale, e i colleghi della
dottoressa Mizuno a dir poco disorientati da quella morte assurda. Per
quel giorno, sembrava che le uniche ad aver mantenuto una certa
padronanza di sé fossero le infermiere più
anziane: infatti fu a una di loro che una collega più
giovane si rivolse, dopo essere stata nella stanza di Chibiusa.
- Non gliel'ho detto – ammise.
La donna più anziana aggrottò le sopracciglia.
- È bene farlo al più presto, però.
Non importa se è solo una bambina: deve sapere. Era
estremamente affezionata alla dottoressa, e dopo quello che ha
passato... povera piccola... -.
- No, questo lo so benissimo anch'io – la interruppe l'altra
– Non gliel'ho detto semplicemente perché l'ho
trovata addormentata nel suo letto: viste le ultime settimane, non ho
di certo voluto svegliarla -.
L'altra infermiera annuì, sorpresa ma sollevata che la
bambina avesse finalmente ricominciato a dormire.
- E poi sembrava così serena... - continuò la
più giovane – Non capita spesso, in questo lavoro,
di vedere un bambino che sorrida nel sonno -.
Questa storia si
è classificata prima al primo turno del contest “Narrami
o Musa...” di wolverina91.
Da contest, la fic
doveva essere drammatica e vi andavano inseriti un omicidio e una
parola scelta da una lista fornitaci dalla giudice: io ho inserito
“libertà” e “scelta”.
È una storia
un po' particolare, un omaggio a dei personaggi che amo molto, come
Chibiusa e il Quartetto delle Amazzoni. Utilizza qualche elemento della
quarta serie di “Sailor Moon”- il sogno, il circo-
ma un po' “al rovescio”.
È arrivata
invece seconda a parimerito al contest “La
paura fa 90” di NonnaPapera: la fobia che ho scelto
è per l'appunto l'onirofobia, la paura dei sogni e di
sognare. Direi perfetto per la quarta serie di “Sailor
Moon”!
Gli “appunti
della dottoressa Mizuno” non ho voluto metterli
necessariamente in prima persona, perché indicano
semplicemente un momento incentrato su Ami e sui suoi pensieri, nel
quale fa il punto della situazione.
Ho cominciato inoltre a pubblicare una cross-over con i personaggi di
"Sailor Moon", "Cardcaptor Sakura" e "Naruto": "Il
Filo Nero".
Dateci un'occhiata, mi raccomando! ^^
Ah, un'altra cosa: vorrei fare un po' di pubblicità ad un
piccolo sondaggio che ho lanciato nel forum:
“Quale
serie di Sailor Moon preferite?”
Dite la vostra, mi raccomando! ^^
|